L’inevitabile persuasione
Il manager “cinico” ritiene che la persuasione sia un’arma da usare al meglio per i propri scopi, il manager “etico” pensa che alla manipolazione degli altri si debba porre un limite. Tra questi due estremi si gioca una battaglia che comporta paradossi, antinomie, pasticci logici e pragmatici di ogni genere. Per fare un po’ di pulizia mentale vi propongo questo discorso. Ascoltate.
“Non si puo’ non comunicare”… molti di voi conosceranno questa celebre frase di Paul Waztlawick – lo psicologo e ricercatore più noto della Scuola di Palo Alto – ma forse non tutti sanno che spesso Waztlawick corredava quell’affermazione con un’altra, forse un po’ più perturbante e scandalosa: “non si può non influenzare”… intendendo precisamente che è impossibile non indurre gli altri a fare o pensare una certa cosa. Per molti è difficile accettare questa tesi, perché contrasta con idee molto diffuse e radicate, come per esempio la necessità del rispetto del prossimo o il diritto di ciascuno alla propria originalità. E quindi ci chiediamo con voi: è proprio così? E’ necessario influenzare gli altri? Ed è vero che la sola alternativa che abbiamo è se influenzarli a caso o in una direzione da noi stessa condivisa? E’ vero o non è vero, insomma, che non ci resta che giocare il gioco della persuasione degli altri?
Un fatto è certo – o per lo meno, per ora da tutti accettato – e cioè che la prima seria e razionale riflessione sul linguaggio in occidente nasce in una situazione in cui la posta in gioco era convincere le controparti. Accadde nel settimo secolo avanti Cristo a Siracusa, nell’ambito delle dispute giudiziarie per il possesso delle proprietà terriere. Da allora la retorica, l’arte di persuadere gli altri con le parole, si è enormemente sviluppata e per molti secoli è stata uno dei pilastri della civiltà occidentale, nella Grecia antica e poi a Roma. Ricordiamo il trionfo in Attica dei Sofisti, avversati, tanto quanto rispettati, peraltro, da Platone perché non accettavano l’idea che ci fosse un’unica verità. E il decisivo sviluppo di Aristotele, che nei suoi Topici ha posto le basi per gran parte della riflessione successiva su quella che definiva “l’arte di scoprire i mezzi di persuasione possibili in riferimento a qualsiasi argomento”. E ancora, il grande Cicerone, e poi Quintiliano, e tanti altri.
Con l’estinguersi della forza propulsiva della civiltà romana, l’arte della persuasione, divenne, come tutta la filosofia, serva, anzi ancella, come si diceva allora, della teologia. Non che nel medioevo non si praticasse la nobile arte della retorica, ma da una parte venne subordinata alla logica – che si supponeva del tutto esatta e incontrovertibile – mentre dall’altra poteva dispiegare tutte le sue capacità persuasorie solo a partire dall’accettazione delle verità di fede, poste le quali, le risorse incantatorie del linguaggio, con l’uso di immagini e parabole per esempio, potevano, anzi dovevano, venire utilizzate al meglio. Il che ci porta a intravedere un curioso paradosso per cui, proprio nel momento in cui sono assolutamente certo di qualcosa, della Verità Assoluta, che dunque si dovrebbe imporre per sé stessa, siccome invece accade che qualcuno, duro d’orecchio, non capisce, allora… lo devo persuadere!
E fu così che la questione si concretizzò in età moderna, dove a partire da Cartesio, s’impose l’idea di Verità come evidenza… ma a prescindere dal fatto che, come accennavo prima, di queste “verità evidenti”, a cominciare dal famoso “cogito ergo sum”, si faceva continuamente un gran discutere, ciò che a noi interessa a questo punto è che fu proprio la scienza, nata dallo spirito cartesiano, a giungere nel giro di due o tre secoli a una clamorosa autosconfessione.
Proprio così, perché come molti di voi sapranno, oggi nessuno scienziato accetta l’idea di una verità indiscutibile. Anzi, come dice il grande epistemologo Popper, una teoria scientifica è valida solo se contempla la possibilità di essere contestata da nuovi esperimenti o scoperte, e ha quindi la possibilità di non essere vera, ovvero, come dice lui, “falsificabile”. A questo s’aggiungano tutta una serie di ricerche (mi riferisco ad autori come Rorty, Lakatos, Feyerabend, Kuhn) che hanno mostrato come la “vittoria” di una teoria scientifica non dipenda solo da fattori razionali “forti”, ma anche da una ragionevolezza più morbida e imprecisa che comporta una considerazione delle convenienze, delle credenze e di molti altri aspetti molto lontani dalla pura dimostrazione.
Ma c’è un’altro contributo del pensiero contemporaneo che vale la pena di considerare. Si tratta della teoria degli “atti linguistici” inaugurata dalla riflessione di John Austin, che con il suo celebre “Come fare cose con le parole” aprì a partire dagli anni ’60 una nuova entusiasmante stagione della linguistica, la cosiddetta pragmatica. Attraverso numerosi studi, anche di altri autori (Grice e Searle su tutti), è stato mostrato come in ogni atto di linguaggio sia presente una dimensione detta “illocutiva”, in sostanza persuasoria, che bene appare in verbi ed espressioni come “ti chiedo”, “vorrei”, “sto affermando che”, “ti propongo di credere che”… Per farla breve, in ogni vostra frase, anche quando chiedete “che ora è” o quando affermate “due più due fa quattro”, state di fatto chiedendo all’interlocutore di aderire a una vostra richiesta: di credervi, di rispondervi, al limite semplicemente di ascoltarvi. Insomma, in altri termini, state cercando di persuaderlo. E questo, notate bene, avviene sempre e comunque, fa parte della struttura stessa del linguaggio, della sua ontologia, per esprimerci in termini filosofici.
Se dunque non esiste alcuna verità assoluta e se addirittura la struttura stessa del linguaggio ci consegna a un dominio in cui è inevitabile cercare di influenzare gli altri, che cosa ci resta? Dobbiamo persuadere per forza? E questa non è forse, cosa esecrabile, una violenza?
Per rispondere a questo scottante quesito vorrei ricordarvi alcune opinioni di Perelman, l’autore che, richiamandosi proprio al già citato Aristotele dei Topici, con il celebre “Trattato dell’argomentazione”, è stato l’artefice della cosiddetta riscoperta moderna della retorica. Perelman distingue tra “convincere” e “persuadere”. “Convincere”, nel senso molto forte in cui lo usa lui, che equivale a “dimostrare”, presuppone un uditorio universale, ovvero tutti gli esseri ragionevoli, in ogni tempo e in ogni spazio. “Persuadere” comporta invece un uditorio particolare, determinato, contingente, come questo, per esempio. La cosa interessante è che Perelman si ritrova ad ammettere che un uditorio universale semplicemente non esiste, perché non sapremo mai definire una volta per tutte chi sono questi “tutti” che lo compongono. Di fatto, dunque, si danno sempre uditori particolari. Per quanto ampi, per quanto estesi, sia pure a tutta l’attuale umanità, son pur sempre uditori particolari. Ma più interessante ancora è il fatto che Perelman accosta il persuadere proprio al contrario della violenza, la democrazia: è proprio a partire dal rispetto dell’altro, dal fatto che ognuno di noi ha una sua posizione, una sua verità, che si può innescare un dibattito, un gioco di reciproche argomentazioni il cui ambito e fine non è la razionalità assoluta, il dominio totale dell’altro, ma lo spazio, ben più libero, creativo e rispettoso, del “ragionevole”.
Ed eccoci qua. Per concludere con le parole di Waztlawick, con cui abbiamo aperto, se non possiamo evitare di influenzare gli altri “ci rimane solo da decidere, e non ne siamo mai dispensati, come questa legge fondamentale della comunicazione umana possa essere usata nel modo più responsabile, umano, eticamente corretto ed efficace”. Per costruire un mondo, aggiungo io, dove la norma dell’agire non sia la violenza, la prevaricazione, ma la ragionevolezza, l’ascolto, il dialogo e quindi, in ultima analisi il rispetto e la cura dell’altro.
Ho cercato, come avrete notato, di persuadervi. A questo uditorio lascio ora, con rispetto, la decisione se quanto ho sostenuto sia non dico vero, e soprattutto in assoluto, ma per lo meno… ragionevole.