“Scale! Scale erte, scale dirute, scale sconnesse. Scale di tufo, di pietra, di legno, di marmo, a chiocciola, a sdrucciolo, levatoie, volanti, a collo, a cordoni, a pozzo, a tenaglia, a trespolo, a volo, portatili, aeree, biscagline.
Scalini e scalini che tagliano in due la collina in una fuga verso il mare.
Sono le scorciatoie di Napoli”
La tua città ti copre come un abito fatto su misura.
Ne conosci tutte le cuciture, le pieghe, le asole, le rifiniture.
Quello che non ti piace lo dimentichi, perché è comodo, ha il colore giusto per la tua anima,
ed è di morbida lana.
Se impari a guardare tutti i suoi più minuti aspetti senti che è quello che hai sempre desiderato possedere. Così tu diventi quell’abito.
Trovandosi in una piccola piazza di Marrakech al centro della Mellah, il quartiere degli ebrei,
Elias Canetti scrive: “Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza”.
Quando riesci a comprendere fino in fondo una stradina, un ponte, un palazzo, un balcone,
una fontana arida di acque, quando camminare per le vie di una città ti fa sentire parte inscindibile di essa, sai di essere a casa dovunque ti trovi.
E riconosci luoghi mai visti, odori mai sentiti, colori inusitati. Muretti in pietra a secco del Connemara, maree che coprono le spiagge della Normandia, erbe profumate della Provenza, cime perennemente bianche di neve del Resegone, ombrosi e rari agrumeti nelle campagne a picco sul mare della costiera sorrentina.
“Il Vesuvio innevato, la cima soltanto spruzzata di bianco, navigante in un mare azzurrissimo e gelido. Pennoni e grosse navi nel porto, la curva visibile della costa, una barca con le vele bianche spiegate, Castel dell’Ovo, una verde pianta di bignonia in primo piano. Il cielo blu, fermo senza una nuvola.
No, non è la descrizione di una deliziosa “ gouache” settecentesca: è Napoli vista salendo lungo la Funicolare di Mergellina ..”
Quando Woody Allen vuol raccontare della sua città si inerpica in frasi d’effetto, tenta concetti triti e inutilmente descrittivi che non esprimono ciò che il suo corpo e la sua anima veramente e profondamente sentono.
Fino a che trova le parole giuste: semplici e commoventi, teneramente grate.
“New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata”.
E dal profondo del cuore della città scoppia il respiro, l’urlo, la furia sonora delle possenti note della Rapsodia in Blu che illuminano forme scintillanti di fuochi d’artificio.
“Questa città possiede una soave malizia. Quasi luogo shakespeariano, affatturato da un antico sortilegio, fa rivivere “munacielli” e “ belle ‘mbriane” per il divertimento, la consolazione, l’incanto di quanti riescano a percepirne la presenza”
Anche la Manhattan di Allen è così: preziosa e sgangherata, ammaliatrice e algida, intellettuale e pettegola, intrigante e ordinaria, falsa e verace.
Un film voluto in bianco e nero, le immagini di New York sfilano come in un album di vecchie foto viste e riviste. Lo scoppio della Rapsodia in blu crea un sobbalzo, anche quel suono è noto, ascoltato mille e mille volte.
Eppure “Manhattan”, girato nel 1979, è fresco come un frutto appena colto.
Woody Allen mette in scena la città. E in fila, in minute immagini, i suoi personaggi, in una
descrizione di piccoli vizi ed eccessi, di grandi paranoie e crudeltà, di fobie senili e pessimismi adolescenziali.
La supponenza di Mary che, usando difficili e improbabili espressioni verbali, irrompe a man bassa nel mondo della creatività, sputando sentenze su Mahler, Scott Fitzgerard, Norman Mailer, Heinrich Boll e Ingmar Bergman.
Un radicalismo senza senso, rafforzato da un ego sconfinato.
Un parlarsi addosso, esternando scontati dogmi con la pretesa di dire cose audaci mai dette prima.
Amori che nascono improvvisi solo per estinguersi all’alba e ricominciare a sera.
Il senso costante di una perdita: il tempo, la memoria, la vita.
L’ex moglie di Allen, Jill, che vive la sua omosessualità come un’arma puntata alla tempia del genere maschile, per definire bene il suo stato di donna delusa scrive un libro sulla personalità del marito ,comprese le sue idiosincrasie e le sue abitudini sessuali.
Il regista racconta l’amore-odio per la sua città, mentre il personaggio, Isaac Davis, cerca di liberarsi dell’unica cosa bella che gli sia mai capitata: Tracy.
Tracy è una ragazza di diciassette anni, una splendida Mariel Hemingway, che ha il solo torto di essere troppo giovane.
“Sto con una ragazza che ha i compiti” dice Isaac, ridendo.
Non c’è intellettualismo in lei, né falsa civetteria, o accesa competitività.
E’ così: un’opera d’arte di cui si può vedere e percepire tutto solo guardandola.
Sì, c’è Tracy. Tracy è New York, la parte splendente, nuova, brillante, giovane e saggia.
Tracy è il sogno, l’irriverente, il fulgore e il diniego della morte.
Una Alice incredula tra animali furbi, pavidi e folli. Una saggia e coraggiosa Alice che sa di doversi svegliare dal sonno per continuare la via, rinunciando a seguire il coniglio bianco.
Libera di scegliere, di definire le sue vere priorità. Libera di rinunciare ad una capricciosa relazione in nome di una vera storia d’amore : “Sei mesi non sono poi tanti. E non è che tutti si guastino. Bisogna avere un po’ di fiducia, sai, nella gente”
“In Manhattan non sono critico su New York: metto proprio in questione le sue radici. Non è un film che dice” date una ripulita a Central Park”è un film che dice “ date una ripulita alla vostra vita emotiva, altrimenti non riuscirete mai a ripulire Central Park”
Per Woody Allen ripulire la propria vita emotiva vuol dire riconoscere la bellezza lì dove è stata depositata, la leggerezza della verità là dove è nascosta, e la dolcezza vitale di un semplice rapporto d’amore là dove è radicato.
Tracy, con i suoi saggi e gentili diciassette anni è tutto questo. E’ il simbolo della New York che val la pena di amare. Come il suo viso è una cosa per la quale val la pena di vivere.
“Poi le case. Null’altro che case. Rosse, verdi, bianche tagliate da linee rette, curve e spiazzi. I gradini di S. Martino ci si inoltrano e perdono”.