Io mi chiamo Valentina. A gennaio compirò 31 anni, e da due e mezzo vivo e lavoro in Afghanistan.
Sono arrivata ad Herat, nell’ovest del paese, il 18 giugno 2011. Scendo dal C130, aereo militare, dopo un viaggio di un giorno passando per gli emirati arabi. Scendo dall’aereo e un caldo soffocante mi opprime. Attorno a me un gran deserto, all’aeroporto militare, in giro tante divise di diverse nazionalità, soprattutto italiane.
Sono arrivata piena di speranze, di entusiasmo e di voglia di fare, dare il mio contributo, in meglio. Sono stata inviata ad Herat dal Ministero degli Affari Esteri, come consigliere economico del rappresentante civile della nato nella regione occidentale dell’Afghanistan.
Ho vissuto per un anno esatto dentro la base militare di Camp Arena, che si trova a circa 15 km a sud della città. È stato praticamente come vivere agli arresti domiciliari: pochissima libertà di movimento. Si usciva solo e rigorosamente per motivi di lavoro. Ho dormito per un anno dentro un corimec, nella palazzina femminile, condividendo il bagno.
Uno dei miei colleghi era la ragazza italiana che è poi morta in seguito all’incidente che c’è stato a Kabul il 24 maggio di quest’anno. Può succedere a tutti noi, ho pensato allora, e lo penso ancora.
In seguito, l’esperienza, seppur sia stata intensa, totale e totalizzante, cominciò a starmi stretta. Volevo cambiare, e dopo un anno dentro una base militare, per una giovane donna, è davvero tempo di cambiare. Inoltre diversità inconciliabili con i colleghi e la leadership hanno reso la mia permanenza lì non più sostenibile. Non mi sentivo più adatta a stare in quell’ambiente, semmai lo fossi stata prima. Ma non ho nessun rimpianto. È stata un’esperienza, l’ho voluta, e poi ho deciso io quando andarmene.
E ho trovato un’exit strategy molto buona. Passata una selezione, mi sono trasferita a Kabul, presso la missione EUPOL. Era il 7 luglio 2012. Ero Reporting Officer, producevo i rapporti periodici e speciali sull’attività della Missione di polizia dell’Unione Europea. Lavoro molto tranquillo, ma la mia situazione è decisamente migliorata sotto tutti i punti di vista. Più libertà di movimento, più privacy, un ambiente civile quindi decisamente più aperto, e ho ricominciato ad acquistare contatto con gente che faceva il mio stesso tipo di esperienza. Dalla mia, la precedente conoscenza del paese, la mia adattabilità, le mie capacità redazionali, e…tanta testardaggine.
In quel periodo anche la mia vita effettiva ha avuto dei cambiamenti significativi, pertanto è stato un semestre intenso, importante, faticoso anche. Diversi cambiamenti, la maggior parte in meglio, alcuni in peggio.
Mi sono sentita decisamente più a mio agio, facevo parte di un ambiente strutturato dove avevo veramente un ruolo e non solo un “titolo”. E mi sentivo parte di un tutto, al servizio di una persona che contava veramente qualcosa, il Capo Missione.
È stato molto bello entrare nel giro della comunità italiana di Kabul, ho iniziato a frequentare l’Ambasciata Italiana, altri posti frequentati dai miei pari, a incontrare gente nuova, insomma, mi stavo “scrollando la sabbia di dosso”. E’ stato molto gratificante lavorare lì. Sono tuttora estremamente attaccata alla mia esperienza ad EUPOL: mi ha consentito il passaggio ad una posizione – e ad una situazione – migliore e anche di rimanere a galla mentre, attorno, mi accadevano cose poco piacevoli. Sono orgogliosa di poter dire di aver avuto il sostegno di persone che mi apprezzano e che mi vogliono bene, e anche di persone che contano.
La mia vita è decisamente migliorata.
Poi in autunno, un anno fa di questi tempi, ho presentato candidatura per una posizione molto importante presso l’ufficio del Rappresentante Speciale dell’Unione Europea in Afghanistan. L’Ambasciata d’Italia a Kabul mi ha incoraggiata e sostenuta in questo processo. Ho ottenuto il posto di Consigliere Politico per la Riforma del Settore Sicurezza, superando una selezione estremamente competitiva e ambita da molti, e all’inizio di gennaio mi sono trasferita al compound Delegazione dell’UE, a Shar-e Naw, dove ho il mio appartamento nell’edificio chiamato Caravan Serai.
Se ci penso…..sono passati ben 10 mesi e …come è cambiata, ancora, la mia vita!
Faccio un lavoro che mi piace, sono apprezzata e valorizzata, ho un ruolo, gli altri si aspettano che io faccia il mio, contano su di me in questo, ed io lo stesso verso di loro. Siamo un bel gruppetto affiatato di otto consiglieri politici, un gruppo giovane. Il mio collega italiano, che ha decisamente fatto il tifo per me, è una delle persone che io stimo di più al mondo. E siamo ottimi amici.
L’esperienza che sto facendo, e che mi sta attraversando ora, è un’esperienza dura, totale, lavoro tantissimo, e anzi a volte penso di…non aver in realtà mai lavorato prima in vita mia: -) Ma sono felice. Felice di quello che faccio e di quello che sono. I momenti duri ci sono spesso, a volte manca la fede, motivi di scoraggiamento ce ne sarebbero tutti i giorni.
Io ho paura sempre. Paura di non farcela, paura di non essere all’altezza, paura di essere ferita in un incidente o in un attentato, o di morire.
E, sì, anche paura di ciò che mi sto perdendo là, a casa, in Italia, una vita normale.
Ma al momento questo è ciò che ho scelto.
Non voglio fare questa vita per sempre. Non ne vale la pena, ho capito, di dare e di darsi tutta per il lavoro. Io sono anche altro, voglio fare altro, la mia vita affettiva, in generale, per me ha grande importanza. Vorrei passare più tempo, con mia madre, mia sorella, i miei cani e i miei amici. Un giorno vorrei trovare l’amore, la persona giusta con cui condividere la mia vita, sposarmi, e più avanti anche avere un figlio.
La vita della missione per me è una fase di passaggio, è un pezzo della mia vita, sia qualitativamente che temporalmente. Non è ME. Io sono anche altro. Io voglio fare anche altre cose, ho anche altre aspirazioni.
In fondo, questo è solo un lavoro. Un lavoro non comune, ma UN lavoro.
Per ora , va bene così. È ancora il momento di restare. A volte mi sento sempre più stanca, che mi mancano le forze. A volte piango a sera fino ad addormentarmi. Ma poi quando penso al perché sono qui, a cosa faccio e da dove vengo, e dove stiamo andando, con questa missione, penso che è ancora tempo di restare. Che tutto non è stato fatto e tutto non è ancora stato detto. Che nei prossimi mesi, soprattutto durante l’anno 2014, assisteremo veramente ad avvenimenti che faranno la storia, e noi che siamo qui…in un certo senso stiamo facendo la storia.
Il macro progetto è ciò che voglio e ciò in cui credo, e mi piace. Poi, nel quotidiano, nel micro, ci sono le difficoltà di tutti i gironi, che ci logorano senza che ce ne accorgiamo. La paura, Il clima, la tensione, le questioni di sicurezza, le difficoltà alimentari, restrizioni negli spostamenti, la cattività e la libertà vigilata, la routine che qui è l’altra faccia della medaglia dell’anormalità, lo stress lavorativo, la mancanza di sonno, la paura, i rapporti con le famiglie e i nostri cari che vivono uno stress simile al nostro, a causa della discontinuità nelle comunicazioni, che sono difficili, ma anche per la preoccupazione di saperci in una zona del mondo disagiata, depressa e pericolosa.
Io spero che mia madre mi perdoni per i patimenti quotidiani che vive a causa mia. A quell’età, non bisognerebbe vivere in una pena così costante.
Che io qui ho ancora da fare. E voglio portarlo avanti con questa squadra, tutti insieme. E poi, quando arriverà il momento di andare, lo sentirò. Non ci saranno scadenze contrattuali, transizione, elezioni o …guerre civili che tengano.
E sarà perché l’ho deciso io. Ancora una volta.
Io sono stata quello che gli altri non volevano essere.
Io sono andata dove gli altri non volevano andare.
Io ho portato a termine ciò che gli altri non volevano fare.
Con rabbia ho tollerato di essere emarginata come se avessi commesso uno peccato.
Ho avuto paura
Ho sentito freddo
Ho goduto la dolcezza di un momento d’amore
Ho pianto ho sofferto ho sperato, ma più di tutto io ho VISSUTO
momenti che gli altri dicono sia meglio dimenticare.
Una donna.