Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato
(Pier Paolo Pasolini)
E’ stata mia madre a trasmettermi il senso della bellezza.
Quella condizione di perdita di senno, quella sensazione di vertigine
che si prova trovandosi di fronte, improvvisa, la forma perfetta di un bocciolo di rosa.
Il vuoto doloroso di faccia allo spettacolo di Castel dell’Ovo frastornato da un mare in tempesta.
La gioia nel percepire, nella lontananza di stanze, il gorgogliare felice di un bambino.
La meraviglia dello sguardo sognante di un labrador femmina che allatta i suoi nove cuccioli.
La vista del “Nudo di donna su poltrona rossa” di Picasso esposta alla Tate Gallery di Londra.
La voce struggente del sassofono contralto di Charlie Parker, il suono sensuale del sassofono tenore di Archie Shepp.
L’ascolto della quinta sinfonia di Malher diretta da Abbado, aspettando il tumulto dell’Adagietto.
L’ amara visione di Marilyn che canta “Happy birthday, Mr. President”.
Il volto dolente di Massimo Troisi nel Postino.
La voce di mio marito che legge “Il canto d’amore di J.Alfred Prufrock” di Eliot.
L’ improvviso arcobaleno nel cielo stanco di pioggia al funerale di mio padre.
Giuseppe Gambardella, detto Jep, autore di un solo romanzo giovanile, vincitore del Premio Bancarella, non ha più scritto una sola parola.
Geppino Gambardella, detto Jep, ha trovato più stimolante vivere la vita che narrarla.
Jep Gambardella ha desiderato soltanto divenire “Il re della mondanità” e ci è riuscito.
Nell’ultimo film di Sorrentino questo personaggio è il simbolo della rinuncia in nome
dell’irragiungibile, del perduto, della perla di cui parla Henry James: dell’incontaminato.
Quando gli viene chiesto il perché del suo lungo silenzio, lui risponde
estatico: “Cercavo la grande bellezza,…ma non l’ho trovata”.
“La Grande Bellezza” è l’ultimo film di Sorrentino, già considerato il suo capolavoro.
Esordì con “L’uomo in più”, parabola sul fallimento, con un accenno disperatamente disatteso al grande tema del doppio, che ha segnato il talento di scrittori come Stevenson, Wilde, Poe.
Un pensiero forte dell’animo umano, un’ancestrale sfida.
Antonio Pisapia è un noto calciatore, Tony Pisapia un cantante di successo.
Si è davanti a grandi temi, dunque…ma non succede nulla.
Un lento svolgersi di eventi, senza anelito di poesia, senza investigazioni curiose e complici.
Le cose accadono e basta. Un minimalismo emotivo, un inutile susseguirsi di fotografie in movimento. Un attesa di qualcosa di magico, di ignoto che possa congiungere due uomini con lo stesso nome.
Ma l’uomo non c’è, manca l’essere vivente, il cuore pulsante, la mente pensante: il personaggio creato, curato, amato, odiato. Respinto e ritrovato.
Una icona vuota di immagine, priva di senso.
Un attore che si muove nello spazio del set. Una voragine abissale che con la lentezza
di sequenze che vorrebbero essere godardiane senza averne la maestosità rivoluzionaria,
comunica soltanto noia. Un suicidio, un omicidio partoriti senza un seme fertile che rendesse credibili scelte che così appaiono incomprensibili; nessuna illuminante epifania.
Un film rozzo, mal diretto, mal recitato.
Toni Servillo, in testa una parrucca che sembra raccattata in una discarica, fa sfoggio per la prima volta del suo consueto sorrisetto sarcastico da pupazzo del ventriloquo e della sua catatonica aria assorta.
Una Sceneggiata senza la urlante, vivificante volgarità del vicolo.
Da lì, attraverso molte altre pensose riprese con la macchina a mano, sequenze godardiane, claustrofobici interni di studi, alberghi, cucine, poltrone, divani, sedie, tavoli, sigarette accese spente riaccese… finalmente l’immagine si apre sull’esaltante splendore di una Roma papalina, furente di colori.
Sulla “gaiezza” caciarona di feste mondane, su notti estive viste attraverso i volti disfatti dalla volgarità di chi conta e abita invidiabili terrazze romane.
E’ così che Sorrentino trasforma la noia piatta dei suoi precedenti film in una noia plastificata, la noia patinata di un sontuoso rotocalco.
E’ così che Geppino Gambardella, detto Jep, ricerca, sempre sorridente, quella perla, quell’impossibile segno che gli restituisca la voglia di scrivere. Dentro la più gretta, trita
esposizione di vecchie mummie.
Come una nuova e moderna edizione del “Dizionario dei luoghi comuni” di Flaubert,
scrittore molto spesso citato, il regista ne elenca uno suo personale, enumerando tutti i più ovvi e banali peccati dell’Italia dei nostri tempi.
Non ne omette nessuno. Anche il più trito e consunto.
La percezione iniziale che qualcosa sia cambiata, che la cifra nel tappeto, la firma dell’autore, come quella lasciata da un serial killer sul corpo della vittima, sia diversa, maturata, svanisce con la immagine delle due espressioni griffate di Toni Servillo, ghigno sornione e “melanconia” afasica.
“La grande bellezza”, per la descrizione di ovvie banalità, stereotipi, luoghi comuni,
Concordia e amenità è un Cine Panettone con l’ambizione di film d’arte.
Dopo ore di visione, cercando il talento e la genialità, sono giunta alla conclusione che il segno distintivo dell’arte di Sorrentino non sia altro che profonda noia e una forma avanzata di tabagismo.
Nel suo “Monologo sulla Bellezza” Peppino Impastato diceva:
“Non ci vuole niente a distruggere la bellezza.
E allora invece della lotta politica, la coscienza di classe
e tutte le manifestazioni e stè fesserie,
bisognerebbe ricordare alla gente che cosa è la bellezza,
aiutarla a riconoscerla e a difenderla.
E’ importante la bellezza, da quella scende giù tutto il resto”