Dopo 6 secoli la Cina è tornata ad essere un potenza marittima. In soli 4 anni, dal 1404 al 1407, si costruirono in Cina ben 1681 navi, con cui si raggiunsero l’Indonesia e le coste orientali dell’Africa. La tradizione si interruppe nel 1436, allorché gli imperatori Ming proibirono la costruzione di navi e distrussero tutta la flotta, richiudendo in se stesso l’immenso paese. Nel luglio di quest’anno il presidente Xi Jinping ha detto che la Cina deve esplorare i poli e percorrere gli oceani per trarre vantaggio dalle risorse e dai traffici commerciali.
Ha avuto grande rilievo sulla stampa mondiale, per suggestioni storiche e prospettive geo-politiche e commerciali, l’attracco al porto di Rotterdam il 10 settembre scorso, dopo 34 giorni di navigazione, del cargo Yong Sheng, la prima nave cinese a percorrere la rotta artica dello Stretto di Bering, quella che un tempo era il “Passaggio a Nord-Est”, così denominato dai cartografi ed esploratori del XVI° secolo, ed è oggi più prosaicamente detta la “Northern Sea Route”. Dal porto di partenza di Dalian, nel Mare della Cina, a Rotterdam il cargo ha risparmiato circa 5000 km e 10-12 giorni di navigazione rispetto al tragitto tradizionale attraverso il Canale di Suez. Grazie allo scioglimento dei ghiacci del Circolo polare artico provocato dal riscaldamento globale, che l’anno scorso ha toccato il minimo storico, un numero crescente di navi di paesi diversi ha utilizzato lo stretto di Bering: 2 nel 2009, 34 nel 2011, 46 nel 20012 e oltre 20 nel corrente anno. Finalmente è passata anche la Cina.
Per il commercio mondiale la rotta dell’Artico non sarà nel breve termine concorrenziale con quella tradizionale di Suez, dato che la praticabilità del tragitto è limitata a solo due o tre mesi all’anno a causa del ghiaccio e che, anche nel periodo di agibilità, è necessario l’ausilio di navi rompighiaccio che sono messe a disposizione dalla Amministrazione russa che sovrintende al traffico e riscuote i diritti di passaggio. Nel lungo termine, comunque non prima del 2025, l’interesse per la rotta artica sarà accresciuto dallo sviluppo del traffico di navi c.d. “break bulk”, che trasportano merci alla rinfusa, senza vincoli rigidi di consegna e con stazza non troppo grande, come lo Yong Sheng, e del trasporto di petrolio grezzo e derivati dal nord della Russia. Per i cinesi il valore aggiunto del “Passaggio a Nord Est” è dato dalla riduzione del tempo di navigazione e dall’assenza di pirati, sicché essi prevedono di far passare attraverso lo Stretto di Bering fino al 15% del loro traffico commerciale entro il 2020.
Nel maggio scorso la Cina è entrata nel Consiglio dell’Artico, una finora misconosciuta organizzazione intergovernativa, con lo status di osservatore permanente insieme a India, Giappone, Singapore e Corea del Sud. L’ammissione della Cina nel Consiglio non è stata facile, essendo vivi i sospetti circa i motivi reali che hanno spinto la potenza asiatica ad essere presente nell’area, anche se lo status di osservatore permanente non dà diritto al voto e la Cina ha riconosciuto il diritto degli Stati costieri allo sfruttamento delle risorse esistenti entro i confini o nelle 200 miglia nautiche della “Exclusive Economic Zone”. Le ragioni dell’interesse cinese per l’Artico sono tuttavia comprensibili. In primo luogo, l’apertura di una rotta marina alternativa più conveniente per il trasporto delle merci sotto il profilo dei costi e dei tempi di navigazione. I cinesi nutrono il timore che la Russia attenui questi vantaggi applicando tariffe esagerate al passaggio lungo le coste baltiche e all’impiego dei rompighiaccio. In secondo luogo, lo scioglimento dei ghiacci apre l’accesso alle risorse minerarie giacenti sotto il letto marino e questo suscita il timore negli Stati costieri di una eccessiva invadenza da parte cinese. Va detto in ogni caso che l’Artico non sembra costituire al momento una priorità della politica estera cinese: l’interesse è per ora confinato al traffico commerciale attraverso lo Stretto di Bering e, solo in prosieguo di tempo, allo sfruttamento delle risorse economiche. Ciò dovrebbe servire a lenire i timori dei paesi costieri sull’espansionismo cinese e favorire anzi, in cambio del riconoscimento degli interessi cinesi nell’area, gli accordi di partenariato per lo sviluppo delle risorse.
Maggiore importanza ha per la Cina l’Antartide sia per l’estensione geografica del continente, la ricerca scientifica, le incalcolabili risorse sottomarine che per il regime internazionale cui l’immensa area è sottoposta dal Trattato Antartico. Come per l’Artico, l’obiettivo in Antartide del corrente quinto piano polare quinquennale è di accrescere lo status, l’influenza e la presenza della Cina. Come per l’Artico, l’obiettivo finale è di sfruttare i giacimenti petroliferi scoperti recentemente nella parte occidentale del continente, i depositi di carbone e di altri minerali pregiati e le ricche risorse ittiche oceaniche. Negli ultimi 20 anni gli investimenti annuali della Cina in Antartide sono triplicati fino agli attuali 55 milioni di dollari (tre volte tanto che nell’Artide), sono state effettuate 30 spedizioni scientifiche, sono state costruite 3 stazioni, deve essere ultimata una quarta e si è alla ricerca del sito di una quinta (con 5 stazioni, la Cina ne avrebbe di più che Gran Bretagna e Australia e solo una in meno degli Stati Uniti).
La Cina ha aderito al Trattato Antartico nel 1983 e, pur definendolo un “rich man’s club” in cui avrebbe solo cittadinanza di seconda classe, ne rispetta le regole. Tuttavia, il fabbisogno di materie prime e di risorse alimentari dei paesi emergenti, e della Cina in particolare, lascia prevedere che la corsa all’accaparramento delle ricchezze dell’Antartide inizierà molto prima del 2048, anno che il Protocollo sulla protezione ambientale, firmato a Madrid nel 1991, ha imposto come termine temporale al divieto dello sfruttamento minerario. Gli altri paesi presenti in Antartide temono che, una volta iniziata la corsa, la Cina intervenga con forza per lo sfruttamento delle risorse, adottando lo stesso atteggiamento aggressivo usato nel Mare della Cina con i paesi vicini. Il Trattato Antartico, rivolto prevalentemente al coordinamento della ricerca scientifica ed alla conservazione dell’ambiente, appare carente a risolvere questa deprecabile prospettiva. Nell’interesse di tutti i paesi presenti in Antartide e di tutta l’umanità, studiosi ed osservatori ritengono ormai urgente un aggiornamento del Trattato che integri la ricerca scientifica e la salvaguardia ambientale all’appropriazione delle risorse.