C’è sempre dentro di noi, nell’inconscio, l’altra parte del manifesto,
del conosciuto: “l’ombra”.
Gustav Jung
La storia che mi accingo a narrare è una ben strana cosa.
Stavo scrivendo de “L’uomo in più” e dell’accenno al tema del doppio che alita in quel film.
Mi è passato nella mente, in volo radente, la possibilità di scrivere di quest’argomento.
In seguito metto ordine nel mucchio di vecchie carte che soggiornano in attesa dentro scaffali e scatoloni sopra scrivanie improvvisate.
Tra le mani un ritaglio ingiallito dal tempo, un frammento della pagina della cultura di un quotidiano, forse L’Unità del 1984.
Il titolo: “Da Frankenstein in giù: storia di una dicotomia. Il doppio riunificato”.
L’articolo di Rosanna Camerlingo è una lunga e colta recensione del libro di Romana Rutelli “Il desiderio del diverso, saggio sul doppio” prefazione di Cesare Segre.
Ed ecco che la scena si anima al suono delle parole di Mary Shelley che descrive il desiderio narcisista del dottor Victor Frankenstein di creare dalla materia inanimata un essere a sua immagine e somiglianza. In questo caso, come nel caso del dottor Jekill, l’altro da sé, la creazione, l’amico segreto, il sosia, l’uomo creato a propria immagine si rivela null’altro che un mostro.
Ciò mi fa pensare a Dorian Grey che crede di poter beffare la vita erigendo la sua immagine a specchio deformante.
“Al contrario della creatura shellyana, dice la Camerlingo- resa malvagia da una società che la rifiuta, ed individuo differente dal protagonista- Hyde è invece essenza indefinibile del “male” e divide con Jekill il corpo. E’ sul mostro, comunque, che, in entrambi i romanzi, sono spostati e polarizzati gli istinti primordiali e le trasgressioni al codice morale e comportamentale di un’epoca come quella vittoriana, in cui la repressione sociale fu particolarmente pressante”.
Traduco questo bel brano in un mio pensiero antico e radicato: l’uomo perbene, ipocritamente severo, ligio alla puritana difesa di rigidi costumi vittoriani nasconde dentro di sé la sua vera natura di predatore. Pronto a tutto per esercitare il diritto alla crudeltà.
Deve per questo trasferire il male su di un altro soggetto, “familiare, domestico, fidato, intimo” ma anche “nascosto, celato, da non far sapere”.
L’ossessione di due fratelli (Master of Ballantrae), del vecchio e storpio capitano della baleniera Pequod (Moby Dick) e di due sconosciuti con lo stesso nome (William Wilson) conduce al desiderio compulsivo di annientamento che porta alla morte, abbracciati strettamente alla propria ombra:
“Tu hai vinto ed io muoio. Ma da ora innanzi anche tu sarai morto, morto al mondo, al Cielo e alla speranza. Tu esisti in me, ed ora tu vedi nella mia morte, in questa stessa immagine che è la tua, come abbia assassinato te stesso.” William Wilson morente annulla così la vita dell’altro.
Ne il “Il compagno segreto” Joseph Conrad “si emancipa dalla tutela della letteratura fantastica per presentarci un doppio meno respingente e meno inverosimile dei romanzi precedenti. Costretto anche egli a nascondersi e a sfuggire alla punizione sociale per aver infranto il codice del mare, Leggatt appare psicologicamente simile al protagonista piuttosto che una sua proiezione deformata.”
Mentre leggo una lampadina si accende all’improvviso e splende, ne vedo l’immagine luminosa sopra la mia testa. Ricordo che da “Il duello” di Joseph Conrad è stato tratto un film di cui posseggo la cassetta.
Cerco la cassetta, sì, evviva! è ancora intonsa nel suo cellofan.
Allora penso al libro.
Cerco il libro e lo trovo.
E’ tutto lì, sotto i miei occhi, che bussa alla porta per farsi aprire.
Rispondo al richiamo.
Il film è “I duellanti”, diretto da Ridley Scott nel 1977, due anni prima di Blade Runner, che è riuscito a soffocare con la sua maestosa grandezza tutta la produzione precedente e successiva del regista: abbiamo tutti dimenticato quanto fosse prezioso il gioiello incastonato nell’oro antico di questa storia ottocentesca che vede di fronte due ussari al seguito di Napoleone.
Due impavidi guerrieri, due difensori dell’onore e dell’orgoglio imperiale.
Due uomini costretti ad un guerra privata che durerà lunga parte della loro vita.
Uno stupido movente d’onore e l’ufficiale degli ussari Feraud sfida a duello il tenente D’Hubert.
La cosa continua all’infinito, ogniqualvolta i due ritornano ad incontrarsi Feraud pretende il sangue dell’altro. Fino alla sfida ultima in cui viene disarmato.
“Mi avete tenuto alla vostra mercé per quindici anni. Non farò più ciò che pretendete da me.
Per il codice cavalleresco la vostra vita da questo momento mi appartiene ed io
semplicemente vi dichiaro Morto”.
D’Hubert così dà voce al suo Doppio, lo riconosce, lo affronta e se ne libera.
“In quanto tale L’Ombra va conosciuta ed affrontata anche nei suoi tratti più penosi e conturbanti.
Occorre darle voce, non proiettarla sugli altri al fine di evitare l’incontro doloroso con il nostro alter ego oscuro, il nostro Doppio; solo così esso non ci procurerà dolore, non si trasformerà in persecutore, come Mr. Hyde col buon dottor Jekill.” ( Jung).
Questo film mi ha commosso ed emozionata.
E ‘ un film d’ immensa bellezza, incommensurabile purezza.
L’esposizione di quadri in una pinacoteca.
Immagini bellissime, non una inutile, non una che non fosse eccelsa, non una che fosse di troppo; dai primi dipinti dai colori e i sapori d’ autunno di interni vermeeriani, alle luccicanti visioni di vittoriose battaglie.
Dalle bianche distese innevate coperte dai cadaveri di soldati nelle lande di una gelida Russia alle verdeggianti terre boscose dei preraffaelliti.
Un film felice interpretato da due grandi attori: Keith Carradine e Harvey Keitel.
La giovinezza dona a Keith Carradine una sensuale bellezza, una soave delicatezza di gesti e di parole, che si infrangono contro la brutalità inutilmente virile dei lineamenti del suo nemico Harvey Keitel.
Un linguaggio perfetto, senza sbavature. Un piacere estatico degli occhi e dell’anima.
“La dicotomia bene/male -scrive ancora Rosanna Camerlingo- pur rimanendo intatta nelle zone più misconosciute della psiche, scompare alla fine di un’indagine nel profondo, come in una cura analitica dove la conoscenza passa per l’orrore e la sofferenza, per approdare alla conoscenza della propria umanità…che è equilibrio e squilibrio di forze, conflitto di pulsioni, amalgama di passioni e raziocinio, circolarità di momenti disparati e pur strettamente congiunti, ciascuno parte dell’essere uomo che è, nel tempo come nell’attimo, uno e infiniti”.
Finisco di scrivere, tolgo gli occhiali, penso a Italo Calvino curvo sulla sua scrivania piena di volumi come un muro di un vecchio fortino:
“La scoperta dell’inconscio avviene qui, nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne venga data una definizione teorica“.
Finalmente metto da parte libri e cervello, allento le briglie e lascio che il mio doppio faccia il resto.