(Armoniche convergenze. Per costruire insieme, perchè insieme si può)
In queste pagine, come anticipato nella didascalia del titolo, vi vogliamo rendere partecipi della storia di due importanti realtà milanesi: la Famiglia Artistica e l’Istituto Ortopedico Gaetano Pini, due esempi di successo nel panorama italiano ed internazionale resi possibili grazie agli sforzi congiunti di tante persone volenterose che hanno deciso di unire i propri cuori per costruire insieme, perchè insieme si può.
Pagine che hanno lo scopo di essere da stimolo per noi ora, per fare in modo che tutto ciò possa essere esempio imitabile.
Milano nella seconda metà di fine ottocento era caratterizzata da una vita intensa e operosa tanto da meritarsi l’appellativo di “città più città d’Italia”, come amava definirla il Verga.
Orgogliosa e vanitosa voleva aumentare maggiormente il proprio fascino, la città .voleva abbellire l’area adiacente il Duomo, per cui istituì una commissione di concorso che nel 1860 selezionò 176 progetti, poi nel febbraio 1861 fu indetto un nuovo concorso specifico per la realizzazione di una “Galleria” per la quale vennero consegnati diciotto proposte. Quattro progetti premiati, ma nessuno vinse. Si giunse così ad un ulteriore concorso a cui partecipano gli architetti Matas, Pestagalli e Mengoni. Vinse il progetto di Mengoni.
Nel novembre 1865, sulla “Rivista minima” erano cominciate ad apparire le puntate del romanzo di Tarchetti, Paolina (Misteri del Coperto dei Figini): il sottotitolo alludeva esplicitamente ad un “casone”, prossimo alla centralissima Piazza del Duomo, che il Municipio aveva deciso di demolire per consentire all’architetto Mengoni di erigere la Galleria da lui progettata.
Vittorio Emanuele II in persona pose la prima pietra per la realizzazione della Galleria di Milano il 7 marzo 1865. Si tratta di un passaggio coperto che permette di collegare piazza della Scala con piazza Duomo e con due strade (via Silvio Pellico e via Ugo Foscolo) tramite due corti bracci perpendicolari all’asse principale. L’opera venne portata a termine in poco tempo innalzandosi a tempio laico della mondanità divenendo il luogo “dove si celebra, e si santifica incessantemente con pompa, con magnificenza, al gran Dio della società moderna, al Lavoro”, era il 1867.
Contesto architettenico che caratterizza la fisionomia urbano-borghese del movimento scapigliato: anche per i letterati fu il momento di confrontarsi in prima persona con il “gran Dio della società moderna”.
Privi di strumenti rappresentativi adeguati, fragili ideologicamente, brancolanti “com’uom che sogna”, diceva Arrigo Boito, davanti agli abissi del nuovo, nessuno di loro fu in realtà in grado di delineare entro il testo narrativo la vita intensa e operosa della “città più città d’Italia”, ma tutti i loro libri testimoniano dell’impatto avvenuto.
E’ sul terreno elettivo dell’attività professionale che gli artisti della Bohème milanese sperimentano le contraddizioni tipiche di un mercato in fase espansiva e avviato ad assumere i tratti specifici della produttività capitalistica. Per dirla con le parole schiette di uno di loro: “Non si campa coll’arte, si campa col mestiere”.
Vespasiano Bignami, uno degli artisti più versatili della scapigliatura, era animatore instancabile della vita artistica milanese di quegli anni, pittore ed apprezzato ritrattista, violinista e direttore d’orchestra, critico d’arte e insegnante all’Accademia di Brera. La Braida per i milanesi; campus vel ager suburbanus: insomma uno slargo, uno spiazzo vicino all’abitato, un pezzo di verde intra moenia, dove anticamente si tenevano le fiere di bestiame e magari ci bazzicavano le prostitute, a notte. Ora, siccome accanto allo spiazzo nostro c’erano le case di un tal Adalgiso Guercio, la gente milanese continuava a dire la “Braida del Guercio”, cuore pulsante dell’arte cittadina e internazionale.
Vespasiano Bignami viveva in questo contesto culturale, sociale, artistico ed umano in pieno fervore. La sua idea di istituire un sodalizio fra i più attivi artisti che gravitavano nell’orbita milanese alla ricerca di fama e notorietà venne preannunciata dallo stesso Bignami nell’inverno del 1872, quando invitò attorno a sè molti degli «scapigliati», in una riunione tenutasi, fra il serio e il faceto, in quella località di Milano che, dopo quell’incontro, si chiamò Montemerlo.
Ecco cosa scrisse in proposito: “Quando nel 1872 abbiamo battezzato questa località con nomignolo che tuttora la distingue eravamo ben lontani da supporre che sarebbe durato al di là di quella settimana. Monte: per metter in burla le alture milanesi; Merlo: perché tale era il cognome del celebre caffettiere che ci aveva concesso l’uso temporaneo del suo Caffe. Niente di più semplice.., niente di più grullo.”
Forse nessuno poteva immaginare una storia così affascinante e ricca di carisma nel panorama culturale internazionale come quella che si andò a pre-formalizzare in una rigida sera di un tipico inverno milanese, era il 13 gennaio 1873: al primo piano del caffè dell’Accademia, in piazza della Scala, Vespasiano Bignami, in nome di un’idea ironica dell’arte, fondò la Famiglia Artistica Milanese. Formalmente l’atto costitutivo risale al 14 gennaio 1873 ed era stato sottoscritto dai cinque fondatori che erano, Vespasiano Bignami, Luigi Borgomainerio, Francesco Barzaghi, Francesco Didioni e Francesco Fontana; l’atto portava in calce anche l’adesione di ulteriori centodieci artisti firmatari dell’iniziativa.
La Famiglia Artistica Milanese da allora è sempre stata attivamente presente a tutti i problemi dell’arte e della cultura; così, parallelamente alle battaglie condotte e vinte in difesa dell’arte italiana, tanto da riuscire a convincere, con il peso delle critiche dei suoi più qualificati rappresentanti, il governo dell’epoca a rimangiarsi la decisione di non intervenire all’Esposizione mondiale di Filadelfia del 1875, la Famiglia Artistica preparava e favoriva gli interventi dei suoi maggiori rappresentanti, in altre manifestazioni d’arte e di cultura dando vita ai famosi «pellegrinaggi artistici» come quello del 1873 a Bergamo dove, fra l’altro, la Famiglia Artistica diede grande impulso ed appoggio per il monumento al Piccio o attivando una scuola di nudo, a cui attingevano, con vivo entusiasmo, giovani artisti all’inizio della professione ed anche pittori e scultori già qualificati.
Arte e cultura. Ricchezza e affari. Povertà e lavori umili. Un mix ribollente.
Il divario fra ricchi e poveri era notevole e fra i più disagiati c’erano certamente i bambini, molti dei quali rachitici per via delle precarie condizioni di vita.
A cavallo tra il 1874 e il 1875, il dott. Gaetano Pini, massone illuminato, fondò in una vecchia casa di via S. Andrea la “Scuola per Rachitici”, primo nucleo del grande Ospedale Ortopedico-traumatologico oggi a lui intitolato.
Era un periodo di grande fervore per la Milano dell’epoca, basti pensare al primo esperimento di comunicazione telefonica effettuato a palazzo Marino proprio in quegli anni (1877) oltre ai magnifici progetti di ristrutturazione della facciata del Duomo, che si inserivano in un piano di modernizzazione che andò a toccare tutta la città.
L’ingegno e la produttività lombarda si manifestavano in ogni dove; la crescita economica e culturale della città era da considerarsi a livelli internazionali. E’ di quegli anni, come accennato, la realizzazione dell’imponente Galleria Vittorio Emanuele, salotto del prestigio milanese, e dell’Esposizione di Milano del 1881 che consacrava l’importanza del lavoro italiano nel contesto europeo.
In campo artistico e sociale siamo consapevoli di come il clima scapigliato fosse pervaso da eccessi ed anticonformismi. Nel dipinto “Le fumatrici di hashish”, di Gaetano Previati, sono ritratte giovane donne intente a fumare questa droga, ma noi non dobbiamo cadere nell’errore di interpretare questo con le metriche morali che valgono oggi. Il contesto storico non deve essere dimenticato quando si analizzano fenomeni a noi lontani. Giusto a titolo esemplificativo si citano una serie di passaggi estrapolati da uno studio sui contesti, le culture ed i rituali del consumo di droghe nel corso dell’evoluzione umana: «A Filadelfia lo stand turco dell’Esposizione Centennale del 1876 faceva ostentamente fumare hashish ai visitatori, mentre i periodici, sempre informati, spettegolavano sulle “segrete dissolutezze” delle signore alla moda della Quinta Strada. Nel 1883 H. H. Kane descrisse una fumeria di New York che farebbe invidia a qualsiasi fumatore d’hashish di oggi. Lampadari abbelliti di sinuosi dragoni dorati proiettavano giochi di luci su uomini e donne in abiti trasparenti che mangiavano madjoun, fumavano ganja e bevevano tè di foglie di coca sdraiati su raffinati divani circondati da tappezzerie e tappeti orientali. C’erano locali del genere a New Orleans, a Boston, a Filadelfia e a Chicago, “ma non eleganti come questo”».
L’hashish tuttavia non fu la sola sostanza psicotropa culturalmente accettata all’epoca. Sempre a titolo di esempio citiamo fra le tantissime sostanze “naturali”, in uso a cavallo fra i due secoli, ‘800 e ‘900, le foglie di coca: «Mariani inventò il suo vino di coca verso il 1865, vent’anni dopo era il maggior importatore europeo di foglie di coca ed il “Vin Mariani” era il tonico più…» tanto da potersi vantare di raccogliere gli elogi in «…eleganti volumi rilegati in pelle pieni di ritratti e note biografiche dei suoi estimatori, i quali comprendevano il principe di Galles, lo zar e la zarina di Russia, i re di Svezia e Norvegia, il comandante in capo dell’esercito inglese e il papa Leone XIII il quale, dopo aver sorseggiato per anni il Vin Mariani, nominò Mariani benefattore dell’umanità e gli regalò una medaglia d’oro. Qualcosa come ottomila medici giuravano sulle virtù del Vin Mariani e il dottor J. Leonard Corning di New York, che fu il primo chirurgo a usare la cocaina per l’anestesia spinale, asserì che, tra tutti i tonici di cui la nostra professione è venuta a conoscenza, questo è senza dubbio il più efficace per la cura degli esaurimenti e delle irritazioni del sistema nervoso centrale».
Alexandre Dumas, Jules Verne, Emile Zola, Henrik Ibsen e altri celebri scrittori furono altrettanto prodighi di elogi per il Vin Mariani. Bartholdi, l’autore della Statua della Libertà, scrisse: “Questo prezioso tonico mi darà la forza di portare a compimento alcuni nuovi progetti che ho già in mente”. Thomas Edison, che dormiva solo quattro ore al giorno, ne era un consumatore abituale.
Torniamo a Milano.
Come abbiamo premesso, in questo contesto di splendore e opulenza per alcuni, tuttavia, vi era, naturale per quell’epoca, una realtà quotidiana fatta da gente umile, ma dignitosa, che giorno per giorno doveva affrontare la vita con coraggio.
Il divario economico tra la classe dirigente e il mondo dei lavoratori era enorme, ma l’attenzione sociale era al pari.
Questo atteggiamento permise allo staff guidato dal dott. Gaetano Pini di compiere un ottimo lavoro, tantè che l’incremento continuo di richieste di assistenza impose il trasferimento della “Scuola per Rachitici” nel vicolo Rasini a Porta Magenta. Si trattava di una residenza più ampia della precedente, ove la “Fondazione” assunse forma ed importanza d’Istituto con personalità giuridica, riconosciuta nel 1876, con Decreto Reale del 13 agosto. L’edificio di vicolo Rasini era ampio ed accogliente: una dimora patrizia del primo Settecento, con portici che, chiusi da vetrate, permettevano la ricreazione dei fanciulli anche nel periodo invernale, un ampio cortile con piante e fiori, una terrazza, balconi, ecc. Nell’interno, sale ampie e luminose, ospitavano comodamente le aule, la cucina e tutti i servizi, compresa una piccola officina per la confezione e la riparazione degli apparecchi ortopedici. Oltre all’applicazione di sussidi igienici e terapeutici, era molto curata l’educazione intellettuale e morale. Accanto alla scuola, il fervido collaboratore del Pini, Pietro Panzeri, apriva l’”Ambulatorio Ortopedico”, primo del genere in Italia, che costituì anche la base su cui si sviluppò la “specialità” dell’ortopedia italiana, poi divenuta cattedra dell’Università di Pavia (1884) e di altri Atenei.
I mezzi finanziari necessari furono raccolti grazie alla propaganda intelligente ed attiva del dott. Pini e dei suoi amici, cui si erano associate molte persone, convinte della bontà della causa da lui sostenuta con tanto fervore. Questa Scuola dei rachitici, la cui funzione sanitaria e di redenzione morale rispondeva ad un bisogno dei tempi, fu ben presto imitata (a Genova, a Cremona, a Brescia, a Mantova, a Venezia e anche all’estero). Dal primo modesto germe di un’aula per 15 bambini, nella sede di vicolo Rasini già si sviluppava il progetto per la realizzazione di un vero e proprio ospedale; ma quanto generosa era l’iniziativa, altrettanto gravi erano le incognite per il suo piano di finanziamento e per le difficoltà tecniche dell’attuazione.
In realtà l’unica sicura fonte di introiti era data dall’Associazione, formatasi a sostegno della “Scuola”, i cui soci perpetui versavano, per una sola volta, lire 100 ed i soci ordinari versavano in tre anni lire 15 (cento lire-oro del 1880, ossia 5 marenghi).
Eppure il Pini ed i suoi amici vollero l’Ospedale e riuscirono a farlo; il 30 ottobre 1881 Gaetano Pini porrà la terza definitiva sede della sua provvidenziale istituzione al Quadronno. Al suo tempo la località godeva fama di particolare igiene che la rendeva atta ad un ospedale, circondata com’era dal magnifico giardino dell’Arcadia dei Pertusati-Melzi, da quello degli Osnago, dall’allora assai vasto parco delle Marcelline, dall’ortaglia-giardino della Visitazione di via S. Sofia.
Milano ha avuto, nella propria storia, momenti eccelsi e momenti di scarsa gloria.
Il 1881 fu un anno eccelso.
Milano ospitava, nel maggio di quell’anno, l’Esposizione nazionale dell’industria e delle belle arti. Tutte le industrie italiane si diedero da fare e mandarono i loro campionari nei padiglioni allestiti ai Giardini Pubblici, mentre un’esposizione dedicata alle Belle Arti si teneva nel palazzo del Senato. Erano anni di fermento artistico e sociale.
Gli esponenti della Famiglia Artistica erano presenti nelle manifestazioni e nelle lotte serie ed importanti, così come anche in ogni giocondità, mentre nel 1880 affrontavano, al congresso di Torino, una seria iniziativa, presentando un memoriale per discutere la legge sulla proprietà artistica, nel 1881 sapevano ritornare alla gaiezza ed alla satira con l’«Indisposizione delle belle arti».
Ed era tale, nell’humour con cui si era dato vita alla «indisposizione», il carattere contestatorio, che sulla copertina della guida si leggeva «questo libro compilato durante i maggiori calori estivi, ha la proprietà di far sudare freddo».
Adolf Hohenstein, vero pioniere del manifesto pubblicitario e prototipo del moderno art director, era in città da un paio d’anni, essendovi giunto nel 1879; a lui fu affidato dalla Famiglia Artistica Milanese l’incarico di realizzare il Manifesto per la «Indisposizione delle Belle Arti», che come abbiamo visto era un vera e propria mostra-sberleffo della serietà accademico istituzionale a firma della Scapigliatura, parodia brillante dell’Esposizione ufficiale e che ebbe un successo inaspettato e straordinario.
Il Manifesto uscì senza firma, ma fu autenticato grazie ad un suo antico compagno di lavoro alla Casa Ricordi: Vespasiano Bignami (ossia proprio dal fondatore della Famiglia Artistica).
L’Indisposizione fu allestita in via San Primo, nella ex casa di Pompeo Marchesi. Ecco cosa si ricorda dell’evvenimento grazie alla cronaca redatta da Chirtani: “Codesta mostra da ridere nacque da un pensiero malinconico, espresso dal titolo, e fu ideata da quella società milanese che porta tanto bene il nome di Famiglia Artistica e che vi ricorse come a un mezzo per migliorare le proprie condizioni: auspici il Vespasiano Bignami, il Campi che fa tanto ridere a muso duro, il Mangili, ed altri dei più ameni capi della Famiglia; il progetto fu ventilato seriamente.
“Emettiamo delle azioni” – esclamò un membro della società – “Le emettono le ditte dei carri inodori che puzzan tanto, e quelle del concime del re del creato, perché non ne emetteremo anche noi?”“
Le azioni furono emesse, di lire 100, destando la ilarità di chi non credeva ai miracoli dell’arte o non conosceva che leve d’umorismo e che sorta di milionari esistano in quella Famiglia.
Appena emesse le azioni si esitarono tutte. La base d’operazione era trovata.
“Si tennero delle sedute tempestose pel programma dell’Esposizione; il Bignami ne ha fatto un acquerello nel quale si vede il presidente che si tura le orecchie, ed i membri che fanno un caos del diavolo; il segretario incaricato del verbale tira giù moccoli dal lampadario dibattendosi come una scimmia sua una corda di ginnastica.”
100 lire per l’ortopedico e 100 lire per gli scapigliati.
Alla prematura scomparsa del dott. Pini, avvenuta il 25 settembre 1887, succedette alla guida dell’Istituto Pietro Panzeri, che con lui aveva collaborato e con lui diviso le difficoltà iniziali nutrendo la stessa fervida fede nell’avvenire dell’ospedale. Apprezzato in tutta Italia e all’estero, il Panzeri compiva operazioni straordinarie, che ridavano agli infermi certe possibilità di movimenti che la natura aveva loro negato. Da allora egli rimase all’Istituto e, solo per un breve periodo assunse anche la direzione dell’Istituto Rizzoli di Bologna ove lasciò una propria precisa impronta. Panzeri divenuto direttore dell’Istituto dei Rachitici si distinse per le sue qualità umane e professionali: si occupava della terapia del rachitismo, della scoliosi, del piede torto, della tubercolosi osteo-articolare, della paralisi infantile, avvalendosi sia delle metodiche chirurgiche (tenotomie, osteotomie, osteoclasie), che di quelle incruente (correzioni manuali, ginnastica, ortesi).
Panzeri fu promotore, nel 1891, della Società Ortopedica Italiana, dando così la prima svolta all’autonomia scientifica dell’ortopedia. La Società fu fondata a Milano, proprio all’Istituto dei Rachitici, ed a Milano si tenne il primo congresso nazionale, sotto la sua presidenza. Panzeri ebbe anche ruoli politici: assessore e consigliere del Comune di Milano per più di una legislatura; sindaco del comune di Cucciago, in Brianza, terra di origine della madre.
Milano intanto continuava a crescere, oltre che scientificamente, anche urbanisticamente ed economicamente.
Nel 1890, proseguendo la tradizione del Collegio degli ingegneri ed architetti di Milano, fu proposto di estendere il parco Sempione, in costruzione da quell’anno, per la creazione di un vastissimo parco extraurbano; il progetto, nelle sue linee guida, comparava i possibili sviluppi urbanistico-architettonici con la realtà in essere nella Parigi dell’epoca, paragonando Place de la Concorde con l’area del palazzo Sforzesco, gli Champs Elysées con corso Sempione e Bois de Boulogne con il nuovo parco dell’Ippodromo: il che non è poco.
Contestualmente, dopo un solo decennio di vita nella nuova sede al Quadronno, il Pio Istituto dei Rachitici, della cui importanza ed utilità tutti si facevano sempre più persuasi, avvertiva il bisogno di nuove strutture sanitarie. Si imponevano, quindi, coraggiose decisioni per effettuare quanto domandava il crescente sviluppo dell’Istituto, prima di tutto era necessario ampliare l’area della proprietà per poi procedere progressivamente alla costruzione dei relativi edifici che evidenti ragioni terapeutiche non permettevano che si trovassero troppo vicini. Un’occasione favorevole all’ampliamento dell’area si presentò con la proposta di acquisto di una porzione del confinante storico giardino dell’Arcadia, avanzata dal conte Vittorio Melzi, figlio del conte Lodovico e di Emilia Pertusati, l’ultima erede della nobile famiglia. Occorsero trattive diverse, più volte interrotte e riprese, sopratutto per il problema del prezzo che, dalle 30 lire al mq. degli inizi, scese progressivamente a 25 lire, a 20 lire ed infine a 18 lire per ben 3.600 mq. del giardino. La porzione acquistata era a forma triangolare con una superficie a piante di alto fusto, con la “montagnola” e con il grazioso boschetto a sentieri coordinati che convergevano dal giardino.
Il 23 dicembre 1890 venivano pagate al conte Lodovico Melzi lire 58.476 e 89 centesimi dall’amministrazione dell’Istituto a ciò autorizzata dall’autorità tutoria.
In quel periodo anche la famiglia Einstein abitava in città, in via Bigli, al 21, nel palazzo in cui la contessa Maffei teneva il suo celebre salotto. Qui il quindicenne Albert raggiunge papà e mamma il 30 dicembre 1894, nella casa a due passi dal Grand Hotel et de Milan.
Nel 1895 venne pubblicato in città il seguente Bando di Concorso: “Ulrico Hoepli in Milano, nel 25° anniversario della Sezione Editrice della sua Casa (1896), pubblicherà una edizione in 4° dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Bandisce a tal uopo un concorso a premio di lire diecimila fra gli artisti italiani, patrocinato dalla Famiglia Artistica di Milano. La Famiglia Artistica plaudendo all’iniziativa hoepliana, ha accettato il mandato e, per un sentimento di fratellanza con la R. Accademia di Belle Arti e con la Società degli Artisti e Patriottica, le ha invitate a concorrere nella nomina della Commissione di giudizio al Concorso, la quale venne composta dei signori: Giovanni Beltrami, Giuseppe Giacosa, Giulio Carotti, Gustavo Macchi, Camillo Rapetti, Lodovico Pogliaghi, Filippo Carcano.”
Nello stesso anno Giuseppe Mascarini, futuro orgoglio artistico, si iscrisse all’Accademia di Brera. I suoi primi maestri furono Filippo Carcano, Vespasiano Bignami per la figura e Giuseppe Mentessi per la prospettiva. L’attitudine per la pittura e il disegno e la costanza nell’applicazione non tardarono a dare i loro frutti e vennero premiate con il conferimento di medaglie: nel 1895 premio per la prospettiva, nel 1896 per il disegno di figura .
Nel 1897 – a soli 20 anni – dipinse un ritratto del bisnonno che gli meritò grandi lodi da Vespasiano Bignami che avrà per lui, anche negli anni a venire, parole di incoraggiamento e stima. Nello stesso anno partecipò, forse per la prima volta, ad un’esposizione collettiva alla Famiglia Artistica con tre quadri che ottennero una lusinghiera critica anche sul Corriere della Sera nell’edizione del 24 dicembre.
Nel 1898 partecipò alle esposizioni di Brera e già nel 1900 l’Accademia lo nominò suo Socio Onorario per la “meritata rinomanza di benemerito delle Arti”.
All’inizio del novecento lo sviluppo dell’Opera Pia Istituto dei rachitici si accentuava notevolmente; in quegli anni l’ente avrebbe potuto subire una notevole crisi, per la morte del Panzeri, avvenuta nel 1901, ma con l’assunzione del Prof. Riccardo Galeazzi, non solo furono evitati gli inconvenienti di un cambiamento di direttive, ma anzi ebbe luogo una rapida e decisa ripresa del moto ascensionale dell’Istituto.
Il dott. Riccardo Galeazzi infatti nel 1903 vinse il relativo concorso per l’insegnamento della patologia speciale chirurgica dimostrativa ed assunse la direzione del Pio Istituto dei rachitici. In questa sede venne quindi incaricato dell’insegnamento della clinica ortopedica presso gli Istituti clinici di perfezionamento per l’anno accademico 1906-07.
L’opera di espansione culturale ed economica di Milano continuava: Evaristo Stefini, ingegnere elettrotecnico, organizzò l’Esposizione Internazionale del Sempione a Milano nel 1906, della quale manifestazione fu segretario generale.
Il dott. Galeazzi nel frattempo venne confermato nell’insegnamento per l’anno 1907-08, per essere negli anni successivi nominato professore straordinario e poi professore ordinario stabile il 1° dicembre 1912.
Era l’inverno 1913-1914, quando in città venne fondato il gruppo artistico denominato “Nuove Tendenze”. L’avvenimento fu suggellato da una specie di bando stampato e datato 20 marzo 1914 sottoscritto da G. U. Arata, D. Buffoni, M. Chiattone, L. Dudreville, C. Erba, A. Funi, G. Macchi, U. Nebbia, G. Possamai e A. Sant’Elia ove si preannunciava una mostra, estendendo l’invito anche ad altri artisti che avrebbero dovuto attenersi strettamente “all’enunciato programma” che richiedeva opere con “una visione personale moderna e originale” da spedire entro il 30 aprile.
La Prima esposizione del gruppo Nuove Tendenze fu inaugurata a Milano il 20 maggio 1914 e si concluse il 10 giugno nelle sale della Famiglia Artistica in via Agnello 8.
In questa manifestazione artistica vennero presentati nove partecipanti: i pittori Dudreville, Erba, Funi, Nizzoli e Bisi-Fabbri; lo scultore Giovanni Possamai; la decoratrice tessile Alma Fidora e gli architetti Chiattone e Sant’Elia. Di loro solo Nizzoli e la Fidora non provenivano da Brera. L’età media dei partecipanti era molto giovane, tra ventisei e ventisette anni, e si andava dalla ventenne Fidora alla trentatreenne Bisi-Fabbri. Sant’Elia nel ’14 ne aveva ventisei, fu questa l’età in cui ottenne maggior successo. Lui, si può anche dire, riuscì a dare un’impronta di dignità avanguardistica alla mostra. Sorprese e catalizzò l’attenzione dei visitatori con le tavole della Città nuova.
Alma Fidora, che come abbiamo anticipato aveva 20 anni quando partecipò alla mostra, fu introdotta dal compagno-pigmaglione Ugo Nebbia. Al momento del loro incontro l’artista era quasi una scolaretta, ma intraprese con baldanza una relazione libera che sarebbe durata più di 20 anni (si sposarono nel 1929).
Il gruppo “Nuove tendenze” era considerato “l’ala destra del futurismo”.
E’ sempre di quegli anni un’altra iniziativa che merita di essere ricordata. Il prof. Galeazzi, avendo appreso che era stata ideata dalla Signora Fanny Finzi Ottolenghi un’Opera per l’assistenza agli invalidi, che non era ancora entrata in fase di attuazione, riuscì a persuadere la fondatrice a convertirla in un Istituto collegato con la Scuola del Lavoro. Sorse così, sotto l’egida del Consiglio dell’Istituto Rachitici, il Rifugio “Fanny Finzi Ottolenghi”.
La costruzione dell’edificio, in viale Monza, incominciata nel 1914, fu compiuta mentre l’Italia entrava in guerra. Il 1914 per Milano fu un anno artisticamente rivoluzionario, si tenne infatti anche il “Primo grande concerto futurista per intonarumori”. Con composizioni di Luigi Russolo al Teatro Dal Verme.
Leggiamo sulle pagine de Il Giornale dell’8 febbraio 2009, in un articolo di Luca Pavanel: “La prima volta al Dal Verme fu uno scandalo. Correva l’anno 1914 e nella mattinata del 21 aprile la polizia si affrettò a vietare l’esecuzione. C’era chi diceva che poteva disturbare e s’annunciava una sera di polemiche. Intervenne la politica e la situazione si sbloccò: in serata ecco il temuto spettacolo a suon di ululati, gorgoglii e ronzii emessi da 18 strani marchingegni, metafora di una modernità che arrivava. Per l’epoca una cosa da pazzi, tanto che in teatro scoppiò il finimondo e fuori ci furono persino dei tafferugli. Proprio così: debuttò in grande stile l’artista futurista Luigi Russolo, padre dell’«intonarumori» lo strumento del suddetto scandalo: una serie di grandi scatole che emettevano rumori prodotti da una manovella e amplificati da una tromba acustica, come quelle dei vecchi grammofoni.” «Bisogna rompere questo cerchio ristretto di suoni puri – sostiene Russolo nei riguardi dei timbri orchestrali – e conquistare la varietà infinita dei suoni-rumori». L’uomo dell’età della tecnica ha necessità di rivolgersi «al palpitare delle valvole, all’andirivieni degli stantuffi, agli stridori delle seghe metalliche, ai frastuoni delle ferrovie, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie», ecco perché il già udito annoia, e classici come Beethoven e Wagner hanno “squassato i nervi e il cuore”. «Ora ne siamo sazî – afferma radicalmente – e godiamo molto più nel combinare idealmente dei rumori […] che nel riudire, per esempio, l’Eroica o la Pastorale». Invitiamo dunque i giovani musicisti geniali e audaci ad osservare con attenzione continua tutti i rumori, per comprendere i vari ritmi che li compongono, il loro tono principale e quelli secondari. Paragonando poi i timbri vari dei rumori ai timbri dei suoni, si convinceranno di quanto i primi siano più numerosi dei secondi. Questo ci darà non solo la comprensione ma anche il gusto e la passione dei rumori. La nostra sensibilità moltiplicata, dopo essersi conquistati degli occhi futuristi avrà finalmente delle orecchie futuriste. Così i motori e le macchine delle nostre città industriali potranno un giorno essere sapientemente intonati, in modo da fare di ogni officina una inebbriante orchestra di rumori…. l’Arte dei Rumori!
Allo scoppio della prima guerra mondiale il dott. Galeazzi si recò al fronte quale arruolato volontario prestando la sua opera negli speciali reparti ospedalieri. Per ottenere il recupero alla collettività e al mondo del lavoro del gran numero di combattenti invalidi, mutilati e ciechi, ottenne che l’Istituto dei rachitici di Milano concedesse all’autorità militare la facoltà di utilizzare il Rifugio Fanny Finzi Ottolenghi come scuola di rieducazione dei mutilati di guerra.
Istituita nel 1923 l’Università degli studi di Milano, il dott. Galeazzi entrò a far parte del corpo accademico come professore di ruolo stabile di clinica ortopedica e traumatologica; dal 1932 al 1935 fu anche preside della facoltà di medicina e chirurgia. Collocato a riposo per raggiunti limiti di età il 19 ottobre 1936, l’anno successivo fu nominato professore emerito di clinica ortopedica e traumatologica.
Come durante la guerra 1915-18 l’Istituto dei rachitici aveva aperto le sue corsie, sia per cure che per protesi, ai militari mutilati, feriti ed invalidi, così durante l’ultima guerra mondiale il personale sanitario si prestò a favore di quei militari e civili bisognosi di cure altamente specialistiche.
Nel gennaio 1943 l’Istituto dei rachitici prese in affitto un reparto presso l’Ospedale di Circolo di Cantù, e vi stabilì i propri sanitari con personale di assistenza, sia per avere un’organizzazione ospedaliera sempre pronta fuori Milano, minacciata continuamente dai bombardamenti aerei, sia per poter limitare nella sede di piazza Andrea Cardinal Ferrari il numero dei malati. Queste misure furono provvidenziali. Una prima volta l’istituto subì danni durante l’incursione aerea del 24 ottobre 1942; una seconda, nell’agosto 1943, in cui tutti i padiglioni furono duramente colpiti e, dei quattro principali, tre in modo così grave da dover essere considerati completamente perduti. L’opera di ricostruzione iniziò immediatamente riattivando provvisoriamente il padiglione “Principe di Piemonte”, unico superstite fra quelli principali. Con l’aiuto degli automezzi forniti dal Terzo Centro Automobilistico Militare di Milano si attuò un pressoché totale trasferimento dell’Istituto da Milano a Cantù, presso il cui ospedale venivano occupati altri locali per un totale di 100 letti. Contemporaneamente a Lezza, in un edificio lasciato dalla benefattrice Scannagatta-Buscati per l’omonima Opera Pia, veniva allestito un altro reparto di sfollamento con una cinquantina di posti letto, per lo più riservati ai poliomielitici.
Il bilancio della devastazione fu veramente drammatico. Gli edifici che costituivano il complesso ospedaliero di piazza Andrea Cardinal Ferrari erano tutti, in diversa misura, colpiti e devastati; la ricca suppellettile sanitaria, le dotazioni e gli impianti dei gabinetti scientifici, le camere operatorie, i reparti di ginnastica, le sezioni meccanoterapica e radiologica erano praticamente inutilizzabili. Tutto ciò che era stato costruito in quasi settant’anni di operosità, di sacrifici, di sforzi, con tenace volontà, sembrava scomparire nella grande bufera della guerra, ma la fede nella rinascita dell’Istituto animava i dirigenti ed il personale, che si rimisero al lavoro con il poco materiale superstite, superando i grandi disagi dovuti alle restrizioni belliche, alla distanza tra le unità ospedaliere dislocate a Cantù, a Lezza e a Milano, e che proseguirono nei propri compiti con la ferma fede che l’ospedale sarebbe risorto a nuova vita.
Il dott. Galeazzi, nel 1945, venne n nominato Direttore emerito dell’Istituto dei rachitici
Nel 1946 l’Amministrazione si trovò a dover scegliere, per la ricostruzione, tra il criterio del “dov’era e com’era”, criterio certo più facile, tecnicamente più semplice, meglio realizzabile dal punto di vista dell’ortodossia burocratica, ed il criterio indubbiamente più arduo e rischioso, meno agevolmente accoglibile da parte delle autorità statali cui era riservata la decisione sul risarcimento dei danni di guerra, dell’abbandono della precedente sistemazione a diversi padiglioni, per adottare la soluzione del cosiddetto monoblocco. D’altro canto la moderna tecnica ospedaliera era ormai tutta orientata verso gli edifici accentrati, a molti piani, che consentivano notevoli risparmi di spazio e di spese costruttive e che avrebbero permesso poi, nella gestione, servizi più solleciti e razionali e meno dispendiosi. Va detto che questo criterio venne accettato dal Ministero dei Lavori Pubblici, dal Provveditorato alle opere pubbliche per la Lombardia e dalla Sezione Autonoma del Genio Civile, che collaborarono alla ricostruzione e si deve proprio a tale felice cooperazione fra l’Amministrazione dell’Istituto e gli Enti dello Stato se sia stato possibile far rivivere le sale di degenza, gli impianti, le dotazioni sanitarie scientifiche, entro un edificio clinico moderno ed efficiente, assai migliore e più razionale dei reparti devastati nell’agosto 1943, la cui costruzione venne completata nel 1964.
In occasione del centenario della fondazione delle Famiglia Artistica Milanese, l’Istituto Ortopedico Gaetano Pini ha dedicato all’evento il volume della Strenna natalizia del 1972. Cesare Augusto Carnazzi, presidente del nobile sodalizio in quegli anni, scrisse nella nota introduttiva dell’opera: “L’istituto Ortopedico Gaetano Pini pubblica, ogni anno, per tradizione, che trova le sue origini nel secolo scorso, una «Strenna» che rispetta, sempre, nell’argomento del testo, nella serietà e preparazione dei suoi compilatori, nella veste editoriale, una linea, ormai inconfondibile, di valori umanistici, storici ed artistici, tale da rendere i volumi opere di biblioteca, ricercate ed apprezzate dai bibliofili e dai critici. Anche quest’anno il «Gaetano Pini» ha voluto essere fedele alla sua consacrata tradizione ed ha indirizzata la sua scelta su un tema particolarmente sentito a Milano: il centenario della Famiglia Artistica Milanese che cade nel gennaio del prossimo anno.”
In effetti si tratta davvero di un volume completo ed al tempo stesso affascinante, come affascinante è il legame che ha sempre empaticamente legato alla città ed ai milanesi le due prestigiose istituzioni. A proposito l’anno scorso la Famiglia Artistica ha festeggiato i 140 anni di vita, quest’anno sarà l’Istituto Ortopedico Gaetano Pini a festeggiare i propri 140 anni di storia. Anzi di fatto ha già iniziato aderendo nel 2013 al Progetto congiunto “La cultura del fare bene. Con Arte.”
Autore di questa nota: Adelio Schieroni – gennaio 2014
Fonte delle citazioni: famigliaartisticamilanese.wordpress.com