“Voglio annotarlo, che un uomo può sorridere, sorridere, ed essere un miserabile, almeno in Danimarca”
Amleto
Sono sempre stata affascinata dal Nord Europa.
La Svezia per prima.
I film di Bergman. I luoghi del freddo, dell’anima alla ricerca di Dio, della bellezza di sguardi blu di laghi perduti, di sterminati irraggiungibili territori della mente.
“Ha ballato una sola estate” ancor prima di “Love Story” infierì su ferite appena rimarginate.
Arne Mattson nella Svezia del secondo dopoguerra narra di intolleranza, di società rurale bigotta e puritana. Di uno studente in vacanza e di una ragazza di campagna.
E la mano di Dio che interviene dando alle fiamme la piccola amante, colpevole di fronte a una comunità di menti anguste e invalidi cuori.
Dopo Mezzo secolo Tomas Vinterberg nella Danimarca del 2000 si ferma a guardare attraverso uno specchio pieno di colori e luci e si trova di fronte alla stessa intolleranza, ad una società provinciale bigotta e puritana, pronta a erigere roghi, ad approntare ceppi su cui sacrificare il capro espiatorio.
L’odore del marcio risale e discende per la Danimarca!
Il cineasta parla con parole dure della propria storia, della propria terra.
E’ intenzionato a dare ragione all’affermazione di Marcello nella quarta scena del primo atto di Amleto “Qualcosa è marcio nello Stato di Danimarca”.
Nel piccolo centro, inquietante più che tranquillo, ci sono più fucili”sportivi” che uomini.
La caccia al cervo sembra rifarsi ai remoti secoli in cui l’uomo uccideva per la propria sopravvivenza
Imbracciare un fucile e uccidere è come per i giovani dell’otto-novecento andare al casino per la prima volta, voleva dire: diventare uomini.
In tutti i casi due metodi poco rassicuranti per alcuni, a cui veniva impedito di crescere veramente.
C’è un’atmosfera di pericolo in quel paesino scarno e semideserto.
E ciò che vediamo per prima cosa è un gruppo di sontuosi cervi, uno dei quali viene semplicemente preso di mira e ucciso da Lucas, il nostro protagonista.
Una bambina attende seduta davanti casa i genitori che litigano dietro una porta chiusa.
Un uomo le si avvicina, le parla e si dirigono insieme a scuola, è lì che devono andare ambedue: maestro e allieva.
La bambina si perde e si ritrova davanti la porta di casa del maestro che la riaccompagna dai genitori.
C’è una sorta di dimenticanza da parte della famiglia rispetto a questa piccola, bella, biondissima bimba.
Questo è il sentimento che nasce dopo queste scene, che parrebbe non vogliano dir niente.
E invece, improvvisamente l’impatto di una bugia che ha il profumo di pura verità, una confessione appena sospirata, detta tra i denti, come un pensiero che si faccia strada tra la rabbia di un rifiuto e
tutto il visibile cambia, la notte appare nel pieno di un giorno di sole.
La piccola accusa Lucas, il suo maestro, di averle mostrato il “pisello che puntava verso il cielo come un bastone”, frase che il fratello aveva pronunciato descrivendole la foto di un pene su di un cellulare.
Nulla è più come prima : uomini che si incontravano da anni in quel piccolo centro rurale,
che si conoscevano fin da bambini, amici del cuore e della pelle, che non si riconoscono più.
Nessuno ha il minimo evanescente dubbio che la storia non sia vera. “i bambini non mentono mai”
grida la direttrice della scuola fuggendo via dall’“uomo nero”.
“Conosco mia figlia, non dice mai bugie” il padre, il migliore amico di Lucas, è fermo su questa convinzione prima di sbatterlo fuori di casa.
Tutto avviene intorno, al di sopra, dietro, sotto di lui. Nessuno che gli chieda qualcosa, tutti ormai convinti della sua colpevolezza.
Non importa chi sia stato prima per ciascuno di loro, che cosa abbia fatto nella sua vita.
Non importa che rapporto lo legasse ad ognuno di loro. Amicizia, amore, rispetto.
Ora è un violentatore di bambini, nulla di più odioso.
La sua vita non vale più un penny, l’odore di marcio sale e scende per la Danimarca.
E’ l’odore dell’intolleranza, della coscienza sporca che ha bisogno di sangue per votarsi a Dio.
Della forza di uomini adusi ad imbracciare armi da scaricare sui più deboli.
Della rozzezza di una piccola compagnia di bigotti, di puritani dalla scura anima.
In questi casi o si impiccano uomini neri come strani frutti sugli alberi, o si bruciano streghe, o si sacrificano animali per il bene di tutta la comunità.
Sangue purificatore. Non importa di chi e perché. E Lucas come un cervo elegante che si aggiri nel bosco diventa l’animale, il capro espiatorio da colpire, da annientare, da abbattere.
Persino il perdono, l’accondiscendenza, la riappacificazione diventa una menzogna.
Lucas è nel bosco dove il figlio festeggerà la sua raggiunta “virilità”, cacciando la sua prima preda, insieme agli uomini che hanno accusato e condannato suo padre, quando un cervo passa davanti ai suoi occhi e si ferma, lui lo segue con lo sguardo senza pensare a colpirlo, lo riconosce come suo simile, animale braccato e cacciato.
E lì che la menzogna del grande perdono prende vita, per mezzo di un colpo di fucile che lo sfiora appena lasciandolo in uno stato di puro terrore.
“Il Sospetto” è un film duro. Un film sull’ancestrale desiderio dell’uomo di raccogliersi in branco per combattere il nemico immaginario, emarginare il diverso, godere insieme della caccia al “traditore”, all’eretico, al solitario. In questa ricerca del colpevole a tutti i costi, della mostruosità scorta negli occhi dell’altro, dell’impossibilità di farsi giudice equo di colpe riconosciute proprie nel profondo di una coscienza esausta, viene bandita la ragione, dimenticata la pietà.
Un film che quest’anno avrebbe dovuto vincere l’Oscar come miglior film straniero, avendone tutte le qualità eccetto una: una Casa di Produzione grande ricca e potente.