Gli Stati Uniti, con meno del 5% della popolazione mondiale, ospitano già il 20% degli immigrati a livello globale. I suoi 23,7 milioni di nati all’estero, con oltre 16 anni e un lavoro legale, rappresentano oggi un sesto della forza lavoro. Gli immigrati illegali sono stimati dal governo federale in 11,4 milioni, per il 59% messicani e per il 15% provenienti dall’America Centrale. La situazione si è aggravata con l’aumento degli arrivi di minori non accompagnati dall’America Centrale: 60.000 quest’anno rispetto ai 25.000 dell’anno scorso. La decisione di Obama, assunta con decreto presidenziale, di regolarizzare 5 milioni di illegali, è una sfida lanciata al Congresso, dominato dai repubblicani, ed all’opposizione, che insisteva soprattutto per misure di sicurezza ai confini. Il decreto presidenziale proteggerà dalla deportazione sommaria i genitori illegali di cittadini e residenti legali nel Paese, consentendo di ottenere un permesso di lavoro, nonché coloro che sono stati portati illegalmente nel Paese da bambini. Dovrebbero beneficiare dei provvedimenti fino a 250.000 immigrati temporanei occupati nei lavori agricoli. Verranno introdotte inoltre facilitazioni per visti di lavoro a studenti nati all’estero che potranno restare in attesa di regolarizzazione. Malgrado i limiti del piano di Obama (le precedenti proposte di riforma puntavano a regolarizzare 8 milioni di illegali né la regolarizzazione darà accesso ai servizi dell’assistenza medica) il decreto presidenziale costituisce la più grande sanatoria e revisione delle strategie sull’immigrazione degli ultimi trent’anni, che incidono tanto sulla gestione dell’emergenza determinata negli ultimi tempi soprattutto dall’afflusso di minori quanto sulla integrazione degli immigrati illegali nel tessuto economico della Nazione.
Al contrario degli Stati Uniti, la politica migratoria dell’Unione Europea è stata finora assai carente sia in relazione alle situazioni di emergenza connesse con improvvisi arrivi di profughi e richiedenti asilo sia sul piano della integrazione degli immigrati regolari e irregolari. Il peso della ricerca, del salvataggio in mare e dell’accoglimento nei punti di arrivo di un numero impressionante di profughi, fra cui moltissimi minori, provenienti dai paesi disastrati per guerra, fame e disordini dell’Africa e del Medio Oriente è ricaduto quasi unicamente sull’Italia. Alla situazione di emergenza l’Italia ha fatto fronte con l’ operazione “Mare Nostrum” che ha visto l’impiego di unità navali nelle attività di ricerca, salvataggio e contrasto al traffico di esseri umani in tutta la zona di mare tra le coste libiche e quelle italiane: nei dieci mesi dell’operazione, da inizio gennaio a fine ottobre 2014, 154.075 migranti sono arrivati in Italia via mare secondo l’Organizzazione per le Migrazioni delle Nazioni Unite: 38.882 in più che nello stesso periodo del 2013 e fra essi 23.735 bambini, oltre metà dei quali non accompagnati. Cedendo infine agli appelli ad una maggiore solidarietà europea avanzati oltre che dall’Italia, da altri paesi europei e dalle Nazioni Unite, l’Unione interviene a partire dal primo novembre scorso tramite la Frontex, l’Agenzia incaricata del controllo delle frontiere, con la missione “Triton” che opera con un ridotto numero di mezzi forniti, oltre che dall’Italia, da Spagna, Portogallo, Finlandia e Olanda esclusivamente entro le 30 miglia dalle coste italiane e lascia quindi fuori controllo le 100.000 miglia che si estendono fra l’isola di Lampedusa e le coste libiche. Una missione a effetti limitati e definita insufficiente dalle Nazioni Unite e dal Commissario europeo all’immigrazione dopo le prime disgrazie verificatesi a pochi giorni dal suo avviamento e in previsione della ripresa degli afflussi con il miglioramento delle condizioni del mare di Sicilia.
L’ Unione Europea ha accettato dapprima la politica comune di asilo e dei rifugiati nel 1999 con il Trattato di Amsterdam, che però non ha mai funzionato. L’Europa non è divenuta quell’area di libertà, sicurezza e giustizia che era prevista dal Trattato, nella quale ogni rifugiato, indipendentemente da dove si trovi, è garantito dalla stessa equanime procedura di asilo. Né ha l’Europa adempiuto all’impegno di ripartire con e fra gli Stati membri i carichi sproporzionati sostenuti dai paesi alle frontiere. In pratica la politica europea ha significato una sola cosa: accogliere il numero più piccolo possibile di rifugiati che fuggono dal sud e dall’est. Il modus operandi è stato sempre che i paesi singoli badassero a se stessi e la sola posizione comune è stata di combattere coloro che vogliono venire in Europa: si è costruita in sostanza una “Fortezza Europa”. La stessa Germania, e i paesi vicini, si sono tenuti bene a distanza dal dovere di accoglienza dei rifugiati in base alla Convenzione di Dublino stipulante che il richiedente asilo può fare domanda nel primo paese di ingresso. Così, chiunque passa in Germania attraverso l’Italia o la Grecia, anche se ha un motivo legittimo per cercare asilo, è rimandato in quei paesi dalle autorità tedesche. Secondo la Convenzione di Dublino infatti, anche con le modifiche apportate dalla Dublino II del 2003 e dalla Dublino III del 2013, lo Stato competente ad esaminare la domanda di asilo è il primo a cui la domanda viene presentata, che coincide normalmente con il primo Stato di transito.
Anche nella gestione della emigrazione regolare l’Unione Europea procede a piccoli passi, troppo lenti rispetto alla dimensione dei flussi migratori in provenienza dall’Africa e dal Medio Oriente ed alla mutata composizione dei lavoratori migranti, che comprende non solo che sono spinti solo dalla fame e dal sottosviluppo ma anche e in misura crescente una forza giovanile e qualificata che, se bene integrata nei paesi ospiti, può apportare nuovo slancio alla boccheggiante economia del vecchio continente. Il Trattato di Maastricht del 1992, e poi il Trattato di Amsterdam del 1997, assegnano la materia al primo pilastro delle competenze, quello in cui l’Unione Europea può più agevolmente intervenire. Il Trattato di Lisbona del 2009 impegna l’Unione a promuovere una politica comune dell’immigrazione intesa ad assicurare la gestione efficace dei flussi migratori e l’equo trattamento dei lavoratori migranti regolarmente soggiornanti negli Stati membri e assegna al Parlamento e al Consiglio la facoltà di disciplinare le condizioni di ingresso e di soggiorno. Tuttavia , le competenze attribuite all’Unione sono limitate, principalmente perché i Governi non vogliono affidare a Bruxelles una materia elettoralmente così sensibile. Di fatto spetta rigorosamente a ciascuno Stato membro di stabilire le quote di immigrati da ammettere ogni anno e decidere i criteri di ammissione dei migranti entro i propri confini.
Nelle più recenti linee programmatiche dell’Unione (nei documenti “Global Approach to Migration and Mobility” del 2005 e “Verso una politica comune di immigrazione” del 2007) emerge una visione più ampia della questione: le migrazioni e la mobilità sono definiti fattori positivi per lo sviluppo dei paesi terzi, i diritti fondamentali della persona sono riconosciuti indipendentemente dallo status del migrante, il rispetto dei diritti degli immigrati è considerato “componente chiave” della politiche della UE e della sua azione per l’integrazione e contro le discriminazioni. Coerenza delle politiche nei singoli paesi, nell’UE e a livello multilaterale e approccio più integrato e coordinato sono divenuti per l’Unione i requisiti di base. Ma è proprio la coerenza a rimanere troppo spesso solo enunciata. Essa richiederebbe una complementarietà tra le politiche di cooperazione economica e i conseguenti interventi nei paesi di origine e di transito, le politiche sull’immigrazione e la politica estera dell’Unione. Continua a prevalere nell’Unione e negli Stati membri la preoccupazione del controllo degli ingressi, considerando le migrazioni funzionali alle necessità del mercato del lavoro, senza tener conto delle fondamenta del fenomeno migratorio che toccano esseri umani e i diritti inalienabili della persona. Continua a prevalere un’ Europa legata a interessi spesso contrastanti e sempre meno vincolata dai valori durevoli che l’hanno costituita e unita.
Occorre ribaltare questa tattica dilatoria e miope adottando una politica migratoria comune, in partenariato con i paesi di origine e di transito e con una strategia di lungo periodo capace di tenere conto delle dinamiche economiche e demografiche che alimentano i flussi migratori e integrando le politiche migratorie con genuine politiche di cooperazione. Ciò non significa stipulare accordi nei quali i migranti rappresentano una merce di scambio negoziabile, ma impegnarsi nella costruzione di uno spazio comune euro-mediterraneo che permetta di superare la logica dell’arresto e metta le basi di una gestione comune fondata, più che sugli accordi bilaterali, su patti comuni di sviluppo. Ciò significa evidentemente accelerare la costituzione di un mercato del lavoro europeo caratterizzato da una migliore mobilità di lavoro dei cittadini dei paesi terzi verso e all’interno dell’Europa. Per accelerare il processo verso una politica migratoria comune dell’Unione Europea, che non sarà breve, l’impulso degli Stati membri sarà fondamentale. In questo senso, l’Italia, che sopporta il maggior peso delle migrazioni provenienti dalle sponde africane, potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo importante. Nel semestre di presidenza dell’Unione, che ormai volge al termine, il Governo si è battuto per avere un po’ più di solidarietà europea nelle operazioni di soccorso e di accoglimento dei profughi con risultati che sono francamente dei palliativi rispetto alla dimensione del problema. In futuro, l’Italia dovrebbe muoversi, oltre per una gestione uniforme dell’asilo a livello europeo con diritti, doveri e costi equamente ripartiti fra gli Stati membri e il potenziamento coordinato dei controlli delle frontiere e dell’irregolarità, soprattutto per una politica di cooperazione con i paesi di origine e di integrazione degli immigrati nel tessuto nazionale, che possa servire di modello e si allargarsi poi ad una politica esterna dell’Unione che integri la questione migratoria nei piani di cooperazione con i paesi terzi.