Strano ma estremamente interessante ritornare con la mente alle economie tradizionali e antiche, fattore di progresso allora come ora (pensa alle banche che possono vendere informazioni satellitari sulle siccità o sulle piovosità, per preventivare il prezzo di qualsiasi derrata anche non alimentare per effetto delle interdipendenze), partendo dalla storica considerazione che i nostri trisavoli romani, accatastando lungo le sponde del biondo Tevere i loro rifiuti, in particolare anfore olearie e vinarie, hanno creato un nuovo colle e un intero quartiere, quello di Testaccio, già allora giallorosso e sicuramente antiaristocratico, come permane tuttavia. Riandando ai tempi personali che furono, provenendo da una famiglia di diretti coltivatori ed essendolo stato io stesso, so bene cosa vuol dire il riuso nel settore primario, ora posto alla base dell’agricoltura biologica. Gli arbusti potati e i sarmenti, gli alberi sfrondati, prima fuoco, poi carbonella per cucinare, quindi cenere da usare per pulire o per saldare; le foglie di amarena per produrre il vin cotto e poi il fogliame come foraggio per vacche e vitelli, il cui concime stallatico, come si diceva, era il principale nutriente della terra coltivata insieme agli arbusti delle fave per l’azotazione della terra: come recita l’antica canzone per bambini, poi dall’albero escono i fiori dal cui nettare le dolci api traggono quanto necessario al miele, fondamento della dieta umana – quant’è bello dire a qualcuno meus mel – e dai semi dei prodotti scaturiscono le nuove piantagioni, per non parlare poi delle putrefazioni di carogne e di cadaveri da cui derivano sempre nuove forme di vita, funzionali all’ecosistema. La rottura dell’equilibrio, anche in questo caso, è avvenuta con l’industrializzazione e quindi con l’uso dell’energia del profondo, carbone, gas, petrolio e relativi derivati e infine uranio e plutonio. Ma già Archimede aveva dimostrato che non era quella la via. Ciascun elemento presente in natura ha una sua ragion d’essere funzionale al sistema, occorre comprenderla direi conoscerla e quindi renderla fruibile al sistema antropico, senza denaturarla e senza renderla critica all’ecosistema globale. Perché non fruire dell’energia vulcanica e di quella delle maree – come affermava l’ottimo Ing. Farinelli e da par suo l’Ing. Piacentini – alla stregua delle centrali idroelettriche. L’equazione e l’equivalenza propria del nulla si crea e nulla si distrugge, è ancora da comprendere appieno, attraverso l’uso della conoscenza anche sapienziale che porta alla condivisione, laddove la ricerca sia applicata al conoscere come, perché allora ogni dato problema si può risolvere con semplicità, credendoci, come camminare sull’acqua o dislocarsi contemporaneamente in più altrove.