Sulla responsabilità amministrativa degli Enti.

 

 

 

“Societas delinquere non potest”: questo brocardo e l’art. 27 della Carta Costituzionale (“La responsabilità penale è personale”) costituivano le prime nozioni per lo studente di Giurisprudenza che si avvicinava al Diritto Penale. In merito alla responsabilità penale si affermava  che la società, o in senso lato la persona giuridica o Ente collettivo, non può commettere reato.

Nel tempo, in ambito europeo e dei Paesi OCSE è nato il problema di contrastare l’attività criminale  correlata non solo ai singoli individui ma anche agli enti in genere, quali le persone giuridiche.

In Italia , in base alla legge delega 29 settembre 2000 n. 300, è nato così   il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, sulla Responsabilità amministrativa degli enti e società con personalità giuridica, delle società e Associazioni anche prive di  personalità giuridica, per reati commessi  da persone fisiche nell’interesse o a vantaggio dell’Ente collettivo. La legge ha colmato  una lacuna normativa  in rapporto alle legislazioni di altri Paesi europei in tema di responsabilità delle società. Si tratta di una forma di responsabilità che viene accertata dal giudice penale nell’ambito del procedimento per il reato commesso dalla persona fisica.

La responsabilità da un punto di vista nominalistico è denominata amministrativa  (occorreva  pur sempre tener conto dell’articolo 27 della Costituzione), ma in se stessa è sostanzialmente penale. La Relazione ministeriale di accompagnamento del progetto di legge definisce tale responsabilità come un tertium genus, che coniuga i tratti essenziale del sistema penale e di quello amministrativo  il che, almeno in questa sede, consente di accantonare il dibattito esistente in dottrina sulla natura giuridica della responsabilità in parola.

La responsabilità amministrativa sussiste se un soggetto in posizione apicale  o un semplice sottoposto pone in essere un reato contemplato  nel D. Lgs. 231 (c.d. “reato presupposto”), a condizione che sia nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Per l’ente si tratta di un titolo autonomo di responsabilità, rispetto a quello della persona fisica autore del reato presupposto. Viene meno tale responsabilità quando l’autore dell’illecito ha agito esclusivamente nell’interesse proprio o di terzi.

La legge introduce un sistema di sanzioni definito binario in quanto si applicano sanzioni sia pecuniarie sia interdittive: le prime in ogni caso, le seconde riservate alle fattispecie  di maggior gravità e solo nei casi espressamente previsti, in quanto possono essere particolarmente invasive paralizzando  del tutto la vita dell’ente, come nel caso di interdizione dall’esercizio dell’attività. Nei confronti dell’ente  con la sentenza di condanna è sempre disposta  la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato o, in caso di impossibilità della confisca tradizionale , quella per valori equivalenti su denaro, beni o altre utilità.

La sanzione pecuniaria è stabilita dal giudice attraverso un sistema basato su  quote. In primo luogo si determina il valore monetario della singola quota sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, onde assicurare l’efficacia della sanzione; poi il giudice fissa il numero delle quote sulla base della gravità dell’illecito e del grado di responsabilità dell’ente nonché sull’attività svolta per eliminare o attenuare le cause di commissione di ulteriori illeciti.

L’importo di una quota va da un minimo di 258,23 ad un massimo di 1.549,37 euro e la sanzione viene applicata con un minimo di cento ed un massimo di mille quote.

La durata delle sanzioni interdittive va da un minimo di 3 mesi ad un massimo di due anni.

La stessa legge contiene peraltro la previsione dello strumento per evitare la responsabilità dell’Ente (art. 6), in specie  mediante l’adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatisi  (c.d. “Modello organizzativo”). Il Modello esimente non solo va introdotto ma va anche mantenuto adeguatamente efficace.

Si tratta di una misura di protezione che per quanto facoltativa appare sempre più irrinunciabile. Infatti la giurisprudenza consolidata (cfr. da ultimo Cassazione n. 35818 del 2 settembre 2015) considera la mancanza del Modello organizzativo come “colpa nell’organizzazione”, lasciando ampio margine alla magistratura inquirente per l‘imputazione degli illeciti laddove il Modello manchi o si riveli carente il suo funzionamento.

L’art. 6  del decreto prevede anche l’obbligatorietà di conferire ad  un apposito organismo di controllo (monocratico o plurisoggettivo) il compito di vigilanza sul funzionamento e il rispetto del Modello (c.d. “Organismo di Vigilanza“– ODV).

Considerata l’importanza che presenta attualmente l’etica di impresa, premessa o complemento del Modello risiede nel c.d. “codice etico”,  relativo all’adozione di principi etici volti ad impedire comportamenti contrari a prescrizioni di leggi.

La costruzione del Modello richiede specifiche ed adeguate competenze professionali e deve interfacciarsi con la singole realtà dell’ente, in quanto l’adozione di un  semplice standard potrebbe poi rivelarsi inidoneo a fornire lo scudo processuale atteso. 

Nei primi anni di vigenza della legge si è registrata una scarsa considerazione da parte delle imprese per le conseguenze della legge, quasi ignorandole, salva l’attenzione professionale di addetti ai lavori. 

Sempre più marcato è stato per contro l’intervento della Magistratura, tanto che anche l’interesse dei mezzi di informazione è divenuto via via crescente, specie in presenza di casi aventi risonanza economica e sociale, quali quello della confisca di circa 25 milioni di euro nella vicenda Bonny Island – Nigeria, o nei casi Thyssenkrupp o Parmalat (cfr. Cassazione 35818/2015 cit.). Da ultimo nel caso Saipem-Algeria.

Tuttavia si riscontra ancora, soprattutto da parte del comparto della media impresa, un deficit di conoscenza sia sulle conseguenze dell’applicazione della legge 231 sia sulla possibile adozione  dei rimedi atti ad evitare le ricadute sanzionatorie della legge stessa.

All’impianto originario della legge si trattava di sanzionare (artt. 24-25 ) taluni reati contro la Pubblica Amministrazione, in particolare  corruzione o concussione. Se si consulta oggi il testo aggiornato del D.Lgs. l’elenco dei reati presupposto si protende fino all’art. 25- duodecies.

A decorrere  dal 1 gennaio 2015 la legge 184/2014 ha inserito tra i reati presupposto anche il nuovo reato di autoriciclaggio (art. 25-octies)  previsto dall’art. 648-ter.1 del Codice Penale, che si configura per chiunque avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo (es. un reato tributario) impiega o trasferisce in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro o le altre utilità provenienti  dalla commissione di tali reati, in modo tale da ostacolare concretamene l’ identificazione della loro provenienza delittuosa.  

L’esempio più recente della  continua espansione normativa si rinviene nella legge 29 maggio 2015 n. 68, che ha introdotto nel Codice Penale un apposito Titolo (VI-bis del Libro Secondo) per i delitti contro l’ambiente (i c.d. ecoreati), e tra questi in primo luogo il disastro ambientale e l’inquinamento ambientale, che vanno nel contempo anche ad ampliare il novero dei reati presupposto cui è correlata la responsabilità ex 231.

Ma l’aumento dei reati presupposto non finisce qui. Il Consiglio dei Ministri del 4 settembre u.s. ha approvato un disegno di legge per rafforzare il sistema sanzionatorio relativo ai reati finalizzati ad alterare l’esito delle competizioni sportive. Verrebbero quindi introdotti nel perimetro della 231 altri reati presupposto correlati alla frode sportiva e alla raccolta illegale di scommesse. Sarà da verificare il rapporto di  tale normativa con il  principio della responsabilità oggettiva che caratterizza l’ordinamento sportivo, alla luce anche della valenza di Modelli organizzativi esimenti.

Aggiungasi  che è anche prossima l’introduzione nel nostro sistema di una  riforma sui reati agroalimentari.  La c.d. agromafia ha un giro d’affari stimato in  oltre 15 miliardi nel 2014 e vanno difesi dalla contraffazione 273 marchi DOP e igp, oltre a 4.700 specialità tradizionali regionali. Nell’aprile scorso è stata insediata presso il Ministero di Grazia e Giustizia un Commissione di studio presieduta dall’ex Procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, che ha già definito le ipotesi normative  per la tipizzazione del reato di agropirateria e di disastro sanitario, da inserire nel Codice Penale e nel novero dei reati presupposto della legge 231, articolando anche le caratteristiche di un  apposito Modello organizzativo per gli enti qualificati come imprese alimentari. Si tratta di proposte normative destinate ad un confronto con gli stakeholders  in vista del successivo iter parlamentare.

Ed ancora: i lavori parlamentari dovrebbero considerare un’ulteriore estensione del perimetro dei reati presupposto, sulla scorta dell’indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Penale, che fin dal marzo 2014  (5 marzo, n. 10561) ha definito “irrazionale” l’assenza dei reati tributari nel novero dei reati presupposto della 231. In proposito il 21 maggio 2014 l’On.le Ferranti, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, ha depositato una proposta di legge (n. 2400) per inserire nel D.Lgs. 231 l’art.25-terdecies concernente le sanzioni applicabili alle persone giuridiche per i reati tributari.

Il D.Lgs. 231 rappresenta ormai un punto di attrazione normativa per tutti i settori : il Modello 231 è stato tenuto presente come punto di riferimento anche nel  D.Lgs. 128 del 5 agosto u.s. sulla certezza del diritto,  in quanto se il contribuente vuole  fruire del regime premiale di adempimento collaborativo in materia fiscale deve essersi dotato di un sistema di rilevazione, misurazione e gestione del rischio fiscale, integrato nella governance e nel controllo interni.

Si riscontra oggi come l’opinione pubblica sia divenuta  più attenta agli eventi che determinano un allarme sociale, in specie se afferiscono all’incolumità e alla salute pubblica,  il che ha indotto e induce parallelamente il legislatore ad una proliferazione normativa diretta ad ampliare l’applicazione della legge 231, sempre più estesa – come una tela di ragno in costante espansione – per inglobare una gamma crescente di fattispecie aventi rilevanza penale.