“Ah che sarà, che sarà

che tutti i loro avvisi non potranno evitare

che tutte le risate andranno a sfidare

che tutte le campane andranno a cantare

e tutti gli inni insieme a consacrare

e tutti i figli insieme a purificare

e i nostri destini ad incontrare

persino il Padreterno da così lontano

guardando quell’inferno dovrà benedire

quel che non ha governo né mai ce l’avrà

quel che non ha vergogna  né mai ce l’avrà

quel che non ha giudizio.”

( O que serà – Chico Buarque De Hollanda.

Colonna sonora del film “Dona Flor e i suoi due mariti”)

 

 

Dedicato a tutti i morti di questa insensata guerra.

 

C’era una volta la mia cucina.

Erano gli anni ’70 e il nostro carissimo amico Luigi, geniale architetto, disegnò per noi il luogo più importante della casa.

Un tipico focolare campagnolo, con mattonelle bianche  in bella vista contro il muro di faccia all’entrata,  e una penisola intorno alla quale ci si poteva muovere.

Un piano di lavoro di legno di rose, suo regalo.

Pavimento di cotto di Impruneta da esterni, così che non potesse macchiarsi o rovinarsi.

Era quella la mia cucina. 

La cucina è il luogo più caldo della casa e non per i fuochi che vi si accendono.

Nutrire, alimentare, cucinare è un atto d’amore verso gli altri e verso se stessi.

Ci sono cibi della memoria che hanno un significato di ricongiunzione, di riappropriazione, di rievocazione. C’era il sangue di maiale nelle bacinelle di smalto bianco, che si sposava con il cacao e lo zucchero per elevarsi a dolce di Carnevale. Le zeppole di San Giuseppe, il cui impasto era talmente resistente che ci volevano tre donne per girarlo sul fuoco. Le ricordo affastellarsi intorno al focolare le mie zie e mia madre. E poi zucchero e cannella. A Pasqua la primavera, le campane, il risveglio della terra tutta si esprimeva in un piatto di bianco latte.  Il latte cagliato era una lieve nuvola dolcissima, ricordo irremovibile e tenerissimo.   

Era un mondo contadino il mio, matriarcale, con a capo mia nonna Filomena, una gran signora di stampo vittoriano nel corpo e nella mente. Ma è la cucina di mia madre che mi ha sempre incantata. 

Le sue cene preparate con cura,  quei piatti che i cuochi di oggi considerano “datati”. Il brodo con i fans,  il roast beef,  il pesce in bianco con la maionese fatta a mano con il continuo pericolo dell’impazzimento. I contorni, di almeno due tipi, le insalate per finire e il piatto di formaggi. 

I dolci, il babà che le era nemico e si afflosciava, la torta a tre strati: pan di spagna  e crema pasticciera, pan di spagna e crema a cioccolata, pan di spagna e marmellata. 

Negli anni ’60 erano le signore a cucinare. Nei ristoranti c’erano i cuochi e non gli chef. 

Difficilmente si conoscevano i loro nomi,  non erano Dei dell’Olimpo, ma semplici esecutori di piatti 

Nel 2000 il mondo intero è diventato un grande palcoscenico in cui lo spettacolo culinario imperversa. 

E’ il secolo di   Masterchef.

I Grandi Cucinieri hanno invaso la Terra. 

Una Terra che  diventa sempre più  piccola, mettendo in mostra una imperversante  povertà.

Meno cibo  per i miseri e gli ultimi della terra, più cibo per i benestanti e ricchi del mondo.

Mangiamo tutto quello che riusciamo a mettere in pentola. Erbe marine dal nome strano, spezie dell’Altrove, cereali e piante, animali e insetti. 

Coltiviamo e alleviamo. Mostruosi luoghi dove animali “da carne” vengono ammassati come cenci sporchi.  Insetti a milioni dentro banconi in attesa di essere fritti in pastella. Un bestiario e un erbario da incubo. 

Risottare, scaloppare, spadellare, triturare, assaporare, presentare, impiattare sono i verbi che senti più spesso nei luoghi del sapere mediatico. Veniamo a conoscenza del caviale di lumaca, del ru, dello zeste di agrumi. 

Masterchef  Usa, Masterchef Canada, Australia, Nuova Zelanda e Masterchef Italia.

I veri intellettuali, i veri artisti e uomini di cultura sono loro: gli chef stellati.

Possono lanciare  piatti contro il muro, sputare il cibo, inveire, insultare:  i cucinieri hanno il potere, fanno magie, inventano l’inventabile, dipingono i piatti con minuscoli tratti di vellutate, di pesti, di frutta secca sminuzzata. Parlano di morbidezza e croccantezza, come se non si potesse vivere senza. 

Trattano tutti come  servi,  allievi degli ultimi banchi,  penitenti da  punire duramente. 

Ci dicono cosa mangiare e come.

Ci dicono che in cucina ci vuole il cuore, non fanno che parlare di esprimere se stessi nelle padelle e nelle pentole. La cultura del mangiar bene  a caro prezzo fa del loro mestiere la pignatta d’oro al termine dell’arcobaleno.   

E gli  italiani senza lavoro vogliono trovare questa pentola  a tutti i costi.

Sperano, agognano, desiderano e piangono.

Piangono per la vittoria, piangono per la sconfitta. Piangono per la gioia e per la rabbia. . In un tripudio di fagiolini, asparagi, gamberi, aragoste, orate, cozze, pane, latte, parmigiano, olio, spezie, arance, mele, banane, cipolle, agnelli, manzi, maiali, conigli…teste di pesce, teste di bovino, di ovino e di suino. Banchi e banchi di cibo che sfamerebbe tutti i bambini d’Africa.     

In tutto quel correre, spadellare, friggere, arrostire il cuore è altrove.

In tutto quello spreco convulso non c’è amore, né empatia, né rispetto per gli altri.

Mentre il mondo brucia,  mentre ragazzi muoiono ascoltando la loro band preferita e bambini indottrinati si fanno esplodere in nome di un Dio che non esiste, i Grandi Cucinieri di tutto il mondo insegnano che la cucina è un gran business, forse il più cospicuo di questi anni 2000, che la competitività acerrima, la furbizia, l’odio espresso e la sfida all’ultimo sangue sono gli ingredienti utili per vincere la vita.

Quello che sarebbe dovuto essere, nella mente di scrittori e pensatori, il secolo del lontano, delle scoperte scientifiche, della conquista del cosmo, dell’avvento degli alieni…è invece il secolo dell’oscurantismo e del delirio.

Per risarcirmi sono ricorsa al libro di Jorge Amado e al film “ Dona Flor e i suoi due mariti”. Nell’amore per il proprio  paese, nei vari profumi e  sapori evocati dalle parole di Amado ho ritrovato il cuore  perso nelle grandi cucine di Masterchef.

Sonia Braga, nelle vesti della bellissima Dona Flor, cucina per le  allieve della sua scuola di “cucina e arte” la  moqueca di granchi molli, era il piatto preferito da suo marito Vadinho, morto in  strada, davanti la loro casa. Nel raccontare il piatto che sta eseguendo la sua voce si riempie della tristezza del ricordo. “A Vadinho piaceva mangiar la cipolla cruda e il suo bacio sapeva di fuoco”.

 

Moqueca di granchi molli:

 

Lavate i granchi interi in acqua e limone,

lavateli bene per togliere la sabbia

senza però levare l’odor di mare

Ed ora per condirli, uno a uno

tuffateli nella salsa, e poi in padella

uno a uno, ogni granchio col suo sugo.

Versate il resto della salsa sui granchi

pian piano, perché il piatto è delicato

(ahi era il piatto preferito di Vadinho)

 

Prendete quattro pomodori scelti, un peperone,

una cipolla, affettateli e metteteli

sui granchi per dar un tocco di bellezza.

Lasciateli due ore coperti a insaporirsi.

Mettete quindi al fuoco la padella.

(Lui stesso andava a comprare i granchi molli

da un vecchio fornitore giù al Mercato…)

 

Quando i granchi saranno quasi cotti e solo allora

aggiungete il latte di cocco ed alla fine

l’olio di dendè, poco prima di toglierli dal fuoco.

(Veniva ad assaggiare il sugo ogni momento,

palato più fino del suo non esisteva)

 

Ecco qui un piatto fine, ricercato, degno della miglior cucina.

Chi lo farà, potrà con ragione vantarsi 

d’essere veramente una cuoca sopraffina.

Ma non avendo abilità, meglio non mettercisi:

non  tutti nascono artisti dei fornelli.

( Era il piatto prediletto di Vadinho

mai più lo servirò sulla mia mensa.

I suoi denti mordevano il granchio molle,

le sue labbra colorite di dendè.

Ahi mai più la sua bocca, le sue labbra

la sua lingua, mai più

la bocca ardente di cipolla cruda).

(Jorge Amado: Dona Flor e Seus Dois Maridos- 1966)