Dopo 23 anni di trattative si è concluso a Parigi, nel dicembre del 2015, con la firma dell’Accordo sul clima al termine della 21.ma Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il travagliato iter negoziale avviato nel 1992 con il Vertice della Terra di Rio per giungere ad una intesa globale per contenere e ridurre le emissioni nocive prodotte dall’industria che provocano il riscaldamento del pianeta e le calamità naturali. A Parigi hanno firmato 175 paesi dei 195 che fanno parte della Convenzione. Per entrare in vigore, l’accordo internazionale deve essere ratificato da 55 paesi responsabili per almeno il 55% delle emissioni nocive. Con la recentissima ratifica dell’Unione Europea, seguita a quelle dei maggiori paesi inquinatori dell’ambiente (Stati Uniti, Cina e India) e di altri paesi minori, il limite del 55% è stato superato e l’accordo è entrato formalmente in vigore il 4 novembre scorso, a meno di un anno dalla firma a Parigi. Una tale rapidità negli adempimenti formali per l’esecuzione di un accordo internazionale non si era mai vista in passato, determinata dalla consapevolezza da parte della grandissima maggioranza della comunità delle nazioni dell’urgenza di approntare uno strumento di impegni multilaterale per fare fronte ai rischi e ai danni provocati dal riscaldamento globale e dalle calamità naturali.
Gli avvertimenti degli scienziati sulla urgenza di ridurre le emissioni di gas a effetto serra e contenere i danni all’ambiente, le pressioni dei movimenti cui si è aggiunto l’appello della Chiesa con l’Enciclica “Laudato Si’”, le misure interne e le intese in campo ambientale adottate unilateralmente e concordate bilateralmente prima della Conferenza parigina da Stati Uniti e Cina, che sono i maggiori emettitori al mondo di gas nocivi, e la convinzione degli economisti che esista una correlazione positiva tra politiche ecologiche e crescita economica grazie all’avanzamento a costi decrescenti delle energie rinnovabili derivate dal sole e dal vento, alle nuove tecnologie di de-carbonizzazione ed alla migliore efficienza energetica, hanno concorso a superare il lungo stallo negoziale. L’evidenza scientifica del disastro incombente è contenuta nei tre rapporti del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, composto dai maggiori esperti dell’ambiente al mondo. Il primo rapporto, del settembre 2013, confermava che il riscaldamento globale è causato principalmente dalla combustione dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) e, in misura minore, dalla deforestazione (secondo l’Osservatorio Mondiale delle Foreste, tra il 2000 e il 20012, sono andati perduti 2,3 milioni di km2 di foreste – che in media per anno coprono un’area pari all’incirca alla Grecia – e sono stati piantati 800.000 km2 di alberi, con un saldo negativo di 1,5 milioni di km2). Il secondo rapporto, del marzo 2014, ha rilevato che gli effetti profondamente negativi del degrado ambientale si potevano già riscontrare nell’aumento dell’inquinamento atmosferico, nella riduzione dei ghiacciai e nelle persistenti siccità ed ha avvertito del peggio a venire, come l’aumento del livello dei mari, la perdita di specie animali e vegetali e le decrescenti rese agricole. Il terzo rapporto, dell’aprile 2014, è focalizzato sulla cosiddetta mitigazione, vale a dire sui modi per combattere le temperature crescenti limitando l’accumulo nell’atmosfera di diossido di carbonio (C02) derivante dall’impiego dei combustibili fossili nei trasporti e nella produzione di energia e di altri gas a effetto serra.
Sebbene gli investimenti in energia più pulita e più efficiente siano aumentati negli Stati Uniti, in Europa e in Cina, le emissioni di gas a effetto serra sono aumentate di quasi il doppio nella prima decade di questo secolo rispetto all’ultima decade del secolo passato, mettendo a rischio il limite di aumento della temperatura globale di 2°C rispetto all’epoca pre-industriale fissato al Vertice di Rio. Superando quel limite, le conseguenze sarebbero allarmanti per il mondo e per l’umanità: per evitare questo destino, dicono gli scienziati, le emissioni di gas nocivi dovrebbero essere tagliate dal 40 al 70% rispetto ai livelli del 2010 entro la metà del secolo.
L’aspetto più incoraggiante nella lotta agli effetti dannosi dei cambiamenti climatici è stato negli anni recenti l’emergere dei movimenti ambientalisti che hanno svolto un ruolo cruciale per l’affermazione dei diritti delle popolazioni locali, dello sviluppo economico e sociale sostenibile e della solidarietà internazionale. Grazie a loro la consapevolezza delle problematiche ambientali si è estesa a tutti gli strati della società ed ha avuto la sua più eloquente espressione nella imponente “marcia del clima” che ha portato molte migliaia di persone a New York nel settembre del 2014. I movimenti ambientalisti hanno convinto il presidente degli Stati Uniti Obama a rinunciare alla costruzione dell’oleodotto che avrebbe dovuto condurre alla coste atlantiche il grezzo estratto dalla sabbie bituminose del Canada e a bloccare le ricerche di petrolio nell’Artico. I movimenti ambientalisti hanno indotto le grandi fondazioni nazionali a chiudere o ridurre le loro partecipazioni nel capitale delle imprese carbonifere e petrolifere e a trasferirle all’economia verde. Con l’enciclica del 24 maggio 2015 “Laudato Si’. Sulla cura della casa comune” la questione ambientale ha fatto per la prima volta ingresso nella dottrina sociale della Chiesa, dato che gli squilibri ambientali hanno pesanti conseguenze sulla parte più debole dell’umanità, i poveri, ed esiste un nesso stretto tra ecologia ed economia. L’espressione più volte ripetuta nell’enciclica per definire la questione ambientale è quella di ecologia integrale: il cambio climatico è “un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, politiche e per la distribuzione dei beni”, ma l’ambiente non è solo una questione politica o economica, ma anche una base antropologica ed etica. Responsabili del degrado ambientale sono principalmente le attività umane che fanno uso indiscriminato dei combustibili fossili e distruggono le risorse naturali, la “globalizzazione del paradigma tecnocratico” che si riflette nel consumismo eccessivo e “tende ad esercitare un dominio anche su economia e politica, e “l’attuale sistema mondiale in cui prevalgono la speculazione e la finanziarizzazione che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente”. Ne consegue uno stato di “iniquità planetaria” in cui il debito dei paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo dei paesi sviluppati, mentre il “debito ecologico” del Nord verso il Sud del mondo, derivante dai danni procurati all’ambiente dagli investimenti dei paesi sviluppati, non è preso in alcuna considerazione. Da questo stato di cose deriva una duplice esigenza: della consapevolezza della situazione limite, cui si è giunti grazie alla spirale perversa della tecnologia, e della necessità di fermare il degrado con la responsabilità di tutti i soggetti, pubblici e privati, per la tutela del bene comune.
Sul piano geo-politico gli impegni e le misure concrete prese da Stati Uniti e Cina, vale a dire dalle due massime potenze economiche mondiali e al tempo stesso dai maggiori inquinatori dell’ambiente hanno dato un forte impulso alla intesa globale. Nel 2009, al vertice di Copenhagen, gli Stati Uniti si erano impegnati a tagliare le emissioni di gas a effetto serra del 17% entro il 2020 rispetto al livello del 2005, ma di fatto le emissioni erano diminuite nel 2012 del 7%. Il presidente Obama ha fatto della questione ambientale una priorità del suo secondo mandato e avviato nel 2013 con il “Climate Action Plan” un imponente programma di riduzione delle emissioni con la chiusura degli impianti di carbone, lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’ingresso delle innovazioni tecnologiche. A Copenhagen la Cina si era impegnata a tagliare del 40-45% la quota del carbonio e a raggiungere entro il 2020 l’obiettivo del 15% del consumo totale di energia assicurato da combustibili non fossili. Il XII° Piano Quinquennale (2011-2015) ha confermato gli impegni del 2009 ed annunciato una strategia generale di protezione ambientale basata sulla decarbonizzazione, la conservazione e lo sviluppo di nuove energie. Con le intese bilaterali siglate a Pechino nel novembre 2014, con cui si impegnavano a ridurre ulteriormente le emissioni e a collaborare per controllare i cambiamenti climatici, Stati Uniti e Cina hanno in pratica condizionato lo svolgimento dei negoziati a Parigi e spinto 187 paesi dei 195 che sono parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite a sottoscrivere anch’essi impegni più o meno vincolanti, assicurando così all’Accordo finale un ampio consenso internazionale.
L’Accordo di Parigi poggia su due pilastri: della “mitigazione”, ovvero della riduzione delle emissioni verso l’obiettivo indicato dagli scienziati di contenere l’aumento del riscaldamento globale entro 2°C – possibilmente entro 1,5°C – rispetto ai livelli dell’epoca pre-industriale, e dell’ “adattamento”, ovvero dell’assistenza materiale e finanziaria ai paesi più poveri e vulnerabili per sostenerli nelle avversità climatiche, potenziarne le capacità di resistenza e favorire con appropriati investimenti il passaggio all’uso delle energie rinnovabili. Sul piano della mitigazione l’Accordo non contiene meccanismi vincolanti per limitare il riscaldamento globale entro i limiti prefissati e nemmeno è fatto obbligo agli Stati di mantenere gli impegni assunti alla vigilia della Conferenza, che comunque porterebbero l’aumento a 2,7°C (superiore al 2°C). Si è preferita una linea più flessibile, tenendo conto che per molti paesi (Cina, India e paesi dell’Est Europa) e soprattutto per i paesi in via di sviluppo i combustibili costituiranno ancora per molti anni le risorse necessarie per sostenere la crescita economica. Ai paesi firmatari si richiede di rivedere ogni cinque anni i piani ambientali in base alla verifica dei progressi compiuti: l’intento è quello di creare un quadro sistematico e regolare di revisione periodica entro il quale sia possibile stabilire nuove regole di comportamento e spingere gli Stati non solo a conseguire gli obiettivi di breve e lungo termine già fissati ma darsene anche di più ambiziosi. Ancora più vaghi appaiono gli adempimenti previsti sul piano dell’adattamento. A parte il generico richiamo contenuto nell’art.9 all’obbligo di presentare ogni due anni il quadro degli aiuti forniti e di quelli promessi ai paesi in via di sviluppo, l’Accordo sancisce finalmente la costituzione la costituzione di un fondo di 100 miliardi di dollari l’anno, disponibile a partire dal 2020, e si propone di riconsiderare l’ammontare nel 2025: finora i contributi annunciati dai paesi industrializzati sono stati di modesta entità. E se per la prima volta riconosce l’importanza del tema del “loss and damage”, su come assicurare, indennizzare e aiutare le nazioni vittime di danni irreversibili legati all’aumento delle temperature, l’Accordo non offre alcun strumento operativo, limitandosi a indicare i settori di intervento a soccorso delle popolazioni colpite o minacciate. Nella situazione attuale di ristrettezze finanziarie e di incertezza operativa è da prevedere che il processo di adattamento sarà dirottato dall’Accordo di Parigi sulle linee più larghe e sui tempi più lunghi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, che l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato nel settembre del 2015 (poco prima che iniziasse la Conferenza di Parigi) fissando i nuovi 17 “Sustainable Development Goals”, fra i quali la sicurezza e la protezione ambientale assumono un rilievo preponderante.
Malgrado gli accennati limiti l’Accordo di Parigi ha portato la questione ambientale a un punto di non ritorno. Se non c’è la garanzia del raggiungimento degli obiettivi prefissati, dato il carattere non vincolante degli impegni assunti dalle Parti, si è almeno prefigurato un percorso di progressivi e verificabili avvicinamenti. Se permane la divisione tra Nord e Sud del mondo, si è inserita la cooperazione nel contrasto ai rischi ambientali nel solco più ampio e promettente dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, aperto alle collaborazioni bilaterali e multilaterali. In una prospettiva di lungo termine l’Accordo promuove lo sviluppo tecnologico e il trasferimento di tecnologie non solo per migliorare la resistenza ai cambiamenti climatici e per ridurre le emissioni di gas, ma anche per favorire la crescita economica e lo sviluppo sostenibile. Il costo decrescente dell’energia rinnovabile e le abbondanti opportunità che si presentano in altri settori, come quello dell’efficienza energetica, rendono possibile gettare le fondamenta di una crescita economica compatibile con un più basso livello di emissioni e minimi costi addizionali, con benefici non solo per l’occupazione ma anche per la salute umana e lo sviluppo agricolo. Per cogliere le straordinarie potenzialità dell’ecologia verde, occorre tuttavia un maggiore sforzo dello Stato, insieme al settore privato, a sostegno della ricerca scientifica e della innovazione tecnologica.