Due premi Nobel per la pace. Anche l’economista che offre una possibilità agli ultimi senza reddito riceve il Nobel per la pace. La crisi del capitalismo, ispira la necessità di una crescita solidale anche a Davos, nelle parole e nell’azione anche in Africa del Presidente della People’s Republic of China. Yunus ha ricevuto il Nobel per quello che ha fatto e va facendo in giro per il mondo al servizio dei “minus habens” prima con il Microcredito e la sua Grameen Bank e poi con il Social Business, partendo dal Suo Bangladesh per poi espandersi negli Usa, in Latino America, in Europa, in Nord Africa, spesso contagiando le più grandi banche che hanno creato delle apposite sezioni specializzate in collaborazione con Lui (vedi inter alia la Fondazione Grameen Italia – costituita dall’Unicredit, da Yunus e dall’Università di Bologna – è cittadino onorario di quella città – che mi ha dato l’onore di frequentarLo per ascoltarLo).
Particolarmente in Europa la Sua azione si è rilevata preziosa incontrandosi con il fabianesimo nel Regno Unito di cui è culturalmente figlio, con la mittbestimmung in Germania e in Italia, Austria, Francia col mondo della cooperazione socialista e cattolico. Yunus ha saputo da una parte spingere sull’azione del volontariato solidarista verso iniziative di sostegno delle mini imprese, si pensi all’attività della Curia Vescovile nell’alto padovano da una parte e dall’altra parte facendo riscoprire alle grandi banche europee- come si diceva -: Raffaisen Kasse, Unicredit, Credit Agricole, Rabo Bank, quell’originario culto del bene comune in chiave cattolica o socialista, che ha portato alla Fondazione Unicredit e a tutte le altre che con il coordinamento prezioso di Luisa Brunori sul piano formativo e operativo, di Maurizio Carrara e di Giorgio Ciaccio nella ricerca del modello anche filantropico, di Mons. Domenico Mogavero sulla via del dialogo interreligioso, sociale e culturale che ha portato all’incontro del modello di social business europeo con quello nordafricano e del vicino oriente.
Il secondo premio Nobel dato al Presidente Obama non ripagava per le realizzazioni fatte, ma era un invito a trovare soluzioni per la pace economica, sociale e politica, concesso al Presidente dell’Unica potenza che ancora sedeva sullo scranno dei vincitori del secondo conflitto mondiale. Certamente, sul piano interno attraverso la Obama Care, un sistema di assistenza sanitaria ad una buona parte della popolazione statunitense fino a quel momento esclusa, è stata una buona iniziativa, ma per il resto solo la storia potrà dire.
Le Nazioni Unite anziché potenziate sono state umiliate fin agli ultimi giorni, durante i quali gli USA hanno offeso Israele, senza offrire peraltro alcuna piattaforma per la pace in Palestina. La Nato/Otan, divenuta nel pensiero di Obama, come in quello dei Bush, una sorta di Nazioni Unite private, ha spostato i suoi confini a oriente, costringendo la Federazione Russa a riprendere la via che fu dell’imperialismo zarista prima e poi dell’URSS, annettendosi la Crimea dove già permaneva la sede della marina russa e poi a limitare i disordini ucraini, con l’annessione del Donbass; per poi riaffacciarsi nel mediterraneo, non più per imporre anche con le armi la democrazia – Discorso di Obama al Cairo – o rifare gli errori connessi ad una unilaterale visione del mondo, come fu al tempo della collaborazione Russa con Nasser prima e poi in Algeria e in Etiopia, con un sostanziale disprezzo dei nuovi alleati e dei loro valori non negoziabili, piuttosto sporcandosi le mani al servizio di quel residuo di Governi anche di minoranza araba, comunque impregnati di una tradizione di valori che è andata perduta in Iraq e in Libia e in buona misura nell’Africa sub-sahariana, dove gli antichi mercenari di Gheddafi, hanno dato vita a quell’universo di sigle sintetizzato in Boko Haram che destabilizzano l’intera regione; né migliore soluzione ha saputo trovare poi in Eritrea e in Somalia, concretamente mettendo in pericolo la sopravvivenza del Kenya e nel Congo Kinshasa, dove la speranza oggi si chiama forse Cina.
L’indifferenza o peggio verso la nascita dell’ISIS ha poi spinto la Turchia, ancora membro della Nato, fra le braccia della Russia e quindi del vicino Iran e del progetto euroasiatico russo-cinese. In Latino-America, che per effetto della dottrina Monroe, nessuna potenza non americana, può essere presente, nonostante le promesse del primo Clinton di una comune crescita, conosce di nuovo le ragioni di una crisi senza fine, non essendovi più un Celso Furtado a proporre soluzioni alle varie tensioni. Mentre Giappone e Russia si avviano a firmare quella pace che formalmente manca dal 1945, la Cina paese in via di sviluppo, nel ricordo dei paesi non allineati di Tito, Indira Ghandi e Ben Bella, tende ad ottenere il riconoscimento di economia di mercato, si propone come dominus della intera grande Asia, controllando in qualche modo la nord-Korea, commerciando con Giappone e Taiwan e con l’alleanza con la Russia avrà via libera commerciale anche terrestre verso il vicino oriente e l’Africa.
Intanto, insieme al Giappone dispone di enormi riserve in valute di conto valutario e detiene buona parte del debito pubblico e del debito estero statunitense, mentre i tesori esteri delle multinazionali Usa permangono all’estero, nonostante le varie “voluntary disclosures” succedutesi nel tempo (occorre ricordare che per fare il corso del $ Usa nel mondo in una qualsiasi mattina, basterebbe gettare sul mercato per la conversione una decina di miliardi). Se poi dalle tensioni in atto negli Usa, dovesse derivare una nuova crisi radicale fra Nord ed Est e Sud, la Regina Elisabetta forse vedrebbe proporsi qualche nuovo Paese a membro del Suo Commonweath, senza più la questione fiscale del Thè, anche perché la Compagnia delle Indie non esiste più, sostituita dalla Cindia che aspira, come la Gran Bretagna di una volta, al libero commercio nel mondo.