Il giardino dei semplici
Giovanni sedeva davanti la chiesa.
Alla sinistra del portale, che si apriva al chiostro rettangolare, ben tenuto, adorno di un banano e di un nespolo. Era vecchio. Muto. Gorgogliava parole in continuazione con labbra arrotondate. Nessuno gli badava. I monaci spesso si accompagnavano a lui sul portone del convento, ma non gli parlavano né lo ascoltavano. I loro visi erano duri e silenziosi come antiche pietre.
Con i sai color terra, gli sguardi vitrei, le dita magre e adunche serbavano segreti terribili di mostruose divinità Giovanni rideva con una bocca senza denti.
Appena fatto giorno iniziava il suo lavoro nel giardino del convento. Seminava, potava, raccoglieva gli ortaggi e la frutta, scopava i viali, bruciava le erbacce, parlava col cane. Prima di cucinare per i frati, prima di preparare il pastone per il cane, andava a sedersi sulla porta della chiesa. Era ancora mattino presto. Guardava i primi devoti andare a messa. Commentava il tempo, mangiando un pezzo di pane unto di salsa del giorno avanti
Il suo viso era sorridente, rotondo e levigato come quello di un bambino. I suoi occhi simili nella dolcezza a quelli di un animale mite, le labbra carnose e serene. Vestiva di vecchi abiti sporchi e strapazzati, ma messi in elegante ordine: camicia, lisa e nera nel collo ben abbottonata, gilet scuro e giacca d’inverno. Un largo pantalone color notte e scarponi da lavoro scardinati. Aveva mani bellissime.
Rimaneva lì seduto per un’ora e poi ritornava ai suoi uffici. Vari e vasti. Non si lamentava. Sembrava che la vita gli avesse segnato una stella di gioia sulla fronte.
Parlava al cane. Gli raccontava storie, ricordi, favole col suo parlottare indistinto e frenetico.
Il cane, legato ad una lunga catena scorrevole, si accucciava a lui di fianco e lo ascoltava, dando segni di interesse spostando appena il capo da un lato all’altro e scodinzolando. A volte il muso si allungava fino a baciarlo sulla bocca morbida. Il loro amore era semplice.
Il più delle volte Giovanni gli spiegava per filo e per segno la malattia e la morte del suo predecessore:una cagna femmina di lupo. Il dolore gli traspariva dagli occhi nel fabulare le pene, la dolcezza, l’amore. Era stata un buona cagna. Allegra e cortese, indiavolata e perfida. Era cresciuta ed era invecchiata, ma adesso c’era lui, l’altro amico e la stella d’allegria sulla fronte di Giovanni si rianimava senza indugi. Era tornato felice e il cane correva da un lato all’altro del giardino fin dove gli permetteva la catena.
Tutto tornava al suo posto. L’uomo non era capace di lunghe sofferenze. Come un bambino riusciva a stento a sopportare il dolore. Ne era impaurito, restava attonito, con la certezza che la pazzia gli stava così vicina in quei momenti che poteva guardarne i lineamenti informi.
Osservare la gente del piccolo borgo marinaro che si recava alla messa la domenica era faccenda che lo appassionava molto. Tutti si vestivano a festa. Lo salutavano. I vecchi gli rivolgevano la parola. Gli ubriaconi lo consideravano uno di loro, ma Giovanni non beveva mai. Gli stupidi credevano fosse uno sciocco. Giovanni non aveva mai saputo parlare, ma non era come loro: i suoi pensieri erano interi, integri, alati come quelli di un poeta o di un santo.
Osservando capiva molte cose e non tutte gli piacevano.
I monaci lo tenevano a distanza. La gente aveva un certo timore di lui. Qualcuno lo considerava un mago, una specie di stregone di cui diffidare. Colpa del suo mutismo e della luce nei suoi occhi.
Gli animali ne comprendevano il linguaggio e lo amavano.
Nel convento abitava una stanza in alto che si affacciava sulla scala che discendeva al mare, fiancheggiata da case basse. Dal balconcino lassù in alto guardava lontano, ma mai lo si incontrava lungo la strada, per le scale, sulla spiaggia. Lo si poteva vedere soltanto davanti la chiesa.
D’estate il borgo si animava; villeggianti riempivano l’albergo accanto al convento ed anche i monaci davano in fitto alcune stanze nel pieno della stagione.
Le automobili riempivano gli spazi vuoti e Giovanni , a volte, sembrava affogare in un mare di lamiere, ruote e specchietti retrovisori. Era sempre al suo posto, ma difficile da scorgere. Emergeva la sua testa da dietro un cofano, tra i tetti di auto in sosta.
Per lui nulla mutava, la sua testa era sempre immersa in pensieri che lasciavano da parte il presente, il paese che imbruttiva, la gente vociante e invadente.
Niente riusciva a mutare la sua vita, estranea, ricca di mille percezioni e di estatica verità.
Una donna apparve. Usciva presto al mattino a far passeggiare il suo cane. Lentamente saliva dal borgo, si attardava lungo la strada, accanto alle siepi, agli alberi, nei campi verdeggianti. Il lupo dal manto nero si accorgeva di Giovanni e gli si avvicinava per far conoscenza. Giovanni rideva e lo accarezzava. Diceva cose che la donna non capiva: cercava di rispondergli a tono ma non sempre ci riusciva e Giovanni ripeteva la domanda fino ad avere una risposta ragionevole. La donna da principio era un po’ sconcertata: non sapeva chi fosse quell’uomo. Ne era un po’ spaventata e , quando Peppe il suo cane voleva avvicinarglisi a forza, lei cercava di dissuaderlo con silenziosi dinieghi. Lo tirava via, cercando di distrarlo con promesse di nuovi giochi. La infastidiva dover perdere tanto tempo ascoltando rumori sconnessi dalla bocca dell’uomo. Ma l’insistenza del cane, la sua assoluta devozione per quel vecchio cominciarono a incuriosirla. Così si accorse del suo viso sereno e si tranquillizzò.
Gli sorrideva e restava attenta a cercare di decifrare il suo linguaggio sbilenco. Si rese conto che l’uomo le stava parlando del suo cane. Le diceva che nel giardino del convento il suo cane lo aspettava, che gli saltava incontro quando lo vedeva e gli si avvicinava per salutarlo con un bacio. Parlava del suo animale come di una persona e soltanto dopo un po’ lei comprese a chi si riferisse. Si narrarono storie e pensieri e si salutarono. Da quel giorno si rincontrarono ogni mattina.
Il primo pensiero di lei era per Giovanni. Si era informata su di lui tra la gente del borgo. Le avevano raccontato storie discordanti. Maligne a volte, misteriose altre volte. Giovanni era lo scemo del villaggio. Oppure un mago che sperimentava filtri e fatture la notte nell’antico giardino del convento. Un ubriacone, un invalido, un demente, uno sciocco, un malato, un demone. Nessuno sapeva della sua vita, dei suoi affetti, dei suoi pensieri. Col passare del tempo la donna si convinse che Giovanni era soltanto Giovanni. Nulla di più o di meno. E lo cercava con lo sguardo ogni mattina nel salire il viottolo che portava alla chiesa, seguendo il gesto del suo cane che si girava a destra per scorgere la figura assisa dell’uomo.
Nel vederlo lo salutava chiamandolo per nome e gli si avvicinava. Felice l’uomo farfugliava parole di saluto. Prendeva la mano di lei nella sua e le raccontava dei villeggianti, del giardino, della chiesa. Il cane gli si accucciava ai piedi, la donna restava piegata verso di lui ad ascoltarlo. Diveniva sempre più bella. Il sole le illuminava il viso e Giovanni sembrava, a volte, affascinato dal colore scuro della sua pelle. Con la sua voce acuta di bambino parlava al cane che, accucciato ne seguiva i ragionamenti crollando il capo da un lato e dall’altro, le orecchie dritte e gli occhi vispi. Un sorriso appariva sul suo muso, sembrava proprio un sorriso. Invitò, un giorno, la donna a vedere il suo cane. Ella ebbe l’impulso di rifiutare, ebbe timore, ma poi lo seguì attraverso le stanze vuote, la cucina sporca e la veranda avvizzita. Il giardino era bello e ben tenuto. Un banano esultava al sole. C’era un vigneto rigoglioso, un nespolo senza più frutti ed alcuni limoni. I frutti rigonfi, giallissimi, come ingravidati, si spaccavano cadendo a terra. La donna incontrò il cane che la baciò come se fosse Giovanni. E l’uomo esultò. Non lo faceva con nessun altro.
Altre estati successero alla prima. E altri incontri tra Giovanni, la donna e il suo cane. Lo sguardo dell’uomo si addolciva mese dopo mese e la gente cominciò a chiacchierare. Tutti vedevano e tutti sapevano. Bisbigliavano, sorridevano, si davano di gomito. Le donne, vizze già a vent’anni, vestite di scuro anche d’estate, dure nello sguardo gelido, con labbra sottili tirate su denti aguzzi, volgevano gli occhi al cielo quando li incontravano davanti alla chiesa, dove andavano a confessarsi molto più spesso del dovuto. Gli uomini, ignari della volgarità della loro esistenza, pieni di una stupidità antica, insondabile, inarrestabile, aggravata da un benessere appena sopraggiunto, cercavano di coinvolgere Giovanni in giochi osceni, che portassero ad una confessione piena di tutti i peccati commessi e ancora da commettere. Giovanni non rideva. Né parlava. Né ascoltava le oscenità… che gli venivano sussurrate in faccia con aliti puzzolenti di vino. Non gli era mai piaciuta quella gente. Il suo cane aveva capito, quegli uomini non potevano. La donna vagava estatica, nulla percependo, nulla intuendo. Aveva un amico e lo incontrava ogni volta che ne aveva l’occasione. Da lui aveva imparato molte cose sulle piante. Quando seminare e quando potare. Ce ne erano di magiche, di buone e di cattive. Bisognava stare attente a non tagliare mai le cattive, si vendicavano. Le buone bisognava trattarle con affetto, carezze e coccole, le magiche bisognava saperle usare altrimenti vi si rivoltavano contro. Ma era molto difficile riconoscere la bontà, la magia e la cattiveria. Parlavano di questo a lungo. Giovanni diceva che una piantina di corbezzolo dava il benvenuto agli amici, un ciliegio restituiva la gioia, l’aralia rendeva l’aria salubre. Ma l’ aro era insidioso e pericoloso, l’asfodelo malinconico, il gelsomino amabile e sensuale. L’acanto con le sue belle foglie allontanava gli spiriti maligni. Chi li osservava, e ormai erano tanti, non riusciva a capire di cosa parlassero: la mano di lui che teneva quella di lei, senza stringerla, sostenendola appena. Gli occhi vicini, che sorridevano d’incanto. Il gorgogliare nella voci di lui sembrava ripetere la formula di un incantesimo. Si iniziò a parlare di fattura, di stregoneria. Le donne sostenevano che la strega era di certo lei e gli uomini erano sicuri che Giovanni avesse fatto un sortilegio. Ma che fossero amanti nessuno dubitava.
Neanche i monaci. Gli occhi inespressivi per età e cinismo, il saio color terra, richiamarono all’ordine Giovanni. Non furono espliciti per pudore, ma gli consigliarono di non stringere amicizia con donne che tutti sapevano essere poco serie, donne di città, che volevano solo ridere di lui. Giovanni addolcì ancor di più lo sguardo. Contemplava il bel paese dal suo balcone tutto fiorito di grandi fiori d’oro. Si chiedeva cosa fosse la bellezza e come potesse essere scorta solo da alcuni, e si celasse ad altri. Era forse il dono che spettava a chi sapeva trovarla, a chi era deciso a cercarla sempre, nonostante tutto.
Era agosto, un agosto azzurro e rosa, alitante profumi. Gli avevano vietato il riposo quotidiano sulla porta della chiesa. Gli avevano consigliato di obbedire questa volta. Sapevano che la predica non era servita a nulla. La donna era una strega senza Dio e lo aveva circuito tanto che non sapeva più cosa faceva. Si erano ancora incontrati e avevano parlato. Giovanni aveva perso la fede. Bisognava aiutarlo ad ogni costo. Quel giorno era l’ultimo per Giovanni. Si sedette sulla porta del convento e attese. Quando si incontrarono lui parlò di dolore e di distacco, la donna non capiva, c’era tempo prima che lei partisse e l’estate successiva si sarebbero rivisti. La donna non capiva. Il cane gli stava ai piedi, lo guardava nel suo modo usuale ma le orecchie erano basse, aveva capito. Giovanni piangeva, mite, senza lacrime, con la voce dolce, acuta come quella di un bambino. Ad un tratto estrasse un lungo seme dalla tasca. Lo pose nella mano di lei che tenne nella sua e le spiegò che quel seme veniva dalla pianta rampicante dai grandi fiori dorati che accarezzavano il suo balcone. Era una pianta buona, era una pianta magica, era anche una pianta cattiva, in quanto sacra. Era l’una e l’altra cosa a seconda di chi la possedeva. Le avrebbe portato fortuna. Come un amuleto. Bisognava seminarne i semi a settembre. Tenere il vaso sospeso finché non cominciavano i primi germogli. Le trasmise il suo sapere, tenendole la mano nella sua, come solo lui sapeva. Alla fine, bruscamente, la salutò e rientrò. Nell’andar via la donna si avvide di due monaci dietro il portone che, come guardie carcerarie lo accompagnarono dentro. Fu quella l’ultima volta che lo vide. Per il resto di quello splendido agosto e per i giorni di settembre che rimase lì Giovanni non apparve più dinanzi alla chiesa. Ne domandò notizie in giro, ma tutti facevano spallucce e dicevano che forse stava male. Non lo vide più neanche al balcone tra i fiori. Restava chiuso. Ogni mattina il cane uggiolava e la spingeva ad entrare nel convento, ma lei resisteva. Fuori c’erano tutti i monaci neri come corvi, terribili come demoni.
L’inverno le fece dimenticare Giovanni. Un giorno ritrovò per caso il seme e si decise a piantarlo. Era tardi, era gennaio. Forse non sarebbe nato nulla. Invece la pianta sbocciò e d’estate era già grandicella.
Tornata al borgo, si fermò subito davanti al convento a cercare il vecchio, ma non c’era. Lo cercarono, lei e il cane, il giorno successivo e anche l’altro. Si accorse di risolini e di sguardi, si avvide di strane voci e di squittii simili a topi. Si rese conto della bruttezza della gente, della stupidità e della malvagità e capì cosa era successo. Chiese di Giovanni. I monaci non le risposero. I paesani non le risposero. Si segnarono e fuggirono. Qualcuno alla fine le raccontò che Giovanni si era impiccato. Un mattino di gennaio. Legato ad un ramo della grande pianta dai fiori d’oro, penzolante nell’aria. La notte il mare si era sollevato in una mareggiata spaventosa. Tutti avevano dovuto tirare a secco le loro barche e parecchie erano colate a picco. Il cane aveva abbaiato per ore e ore e poi improvvisamente si era zittito. I ladri erano entrati in chiesa e avevano rubato. La grande pianta rampicante da lui piantata si era seccata dal giorno alla notte. I monaci lo avevano seppellito in un luogo che nessuno conosceva. Forse ne avevano bruciato le spoglie per impedirgli il ritorno. Forse le sue ceneri erano sparse sul terreno del giardino. Non si sapeva nulla e la gente voleva dimenticare. La donna si sentì sola e delusa. Giovanni le mancava. Il tronco avvizzito del rampicante l’atterriva. Partì e non tornò più. Eppure ogni giorno sulla panca dove Giovanni soleva sedere, i monaci trovarono un piccolo, sparuto, insignificante fiore, posatosi lì chissà come, proveniente da chissà dove.