Resoconto e storytelling narrativo con commenti “twittati”
Questo articolo è frutto del contributo “originale e autentico” dei 3 testimonial ed Influencer e di tutti i partecipanti che hanno animato il dibattito di un primo ciclo di incontri a numero chiuso e per inviti, realizzati sotto forma di Laboratorio, dal titolo: Da dove deve iniziare il manager del futuro?
L’iniziativa e’ stata organizzata dall’ARSS-Associazione Romana Studi e Solidarietà nei mesi di marzo, aprile e maggio 2017, in particolare dal Presidente Carlo Messina e da Massimo Salza, del Comitato Studi ARSS. Come sottofondo non scritto, si è parlato anche di come etica e management possano essere coniugate tra di loro e produrre un maggior valore aziendale, sotto il profilo economico e sociale.
L’ARSS, Associazione Romana Studi e Solidarietà (http://www.arssroma.org/), ha una missione di Networking nello stabilire strumenti di intermediazione tra la associazione e tutti i soggetti (scuole, centri culturali, altri) che intendono organizzare conferenze e giornate di studio, per offrire programmi, conferenzieri ed esperti e per facilitare relazioni e contatti tra entità che condividono simili obiettivi od operino in settori complementari. Una di Formazione nel sostenere iniziative culturali, scientifiche, formative e di solidarietà in Italia e all’estero nell’ambito dello sviluppo sociale, etico ed educativo, nel promuovere eventi permettendo l’interscambio di esperienze e la mutua conoscenza, nel collaborare con altre istituzioni e organismi, sia italiani che esteri, i cui scopi vengano considerati meritevoli di sostegno. Una di Ricerca nel promuovere studi e ricerche sulla solidarietà con paesi in via di sviluppo, promuovendo campagne di raccolta dei fondi per progetti destinati allo sviluppo educativo e culturale sia in Italia che all’estero. È una piattaforma culturale che realizza, attraverso alcuni laboratori, un servizio di approfondimento di tematiche di rilevanza sociale.
Su stimolo degli altri, Raffaele Santoro, uno dei partecipanti, ha pensato di verbalizzare, tramite “narrazione” alternativamente in prima e terza persona, quanto detto nei giri di tavola per non lasciare i contenuti del dibattito solo alle parole, così ho proposto a fine ciclo la pubblicazione dei resoconti su qualche rivista on-line. Il fondamentale apporto di Raffele Santoro ha aperto quindi la porta a questo paper sperimentale a due voci, anzi a più voci, dove si sommano le riflessioni personali di tutti i testimonial ed Influencer, che hanno animato il dibattito, a quelle dei partecipanti che hanno aggiunto valore e spunti personali, portando ad elaborazioni collettive, contributi e sintesi, che ci hanno progressivamente guidato a conclusions condivise. L’illustrazione concettuale di frasi e aforismi quasi “twittati” in grassetto, che ripercorrono come un fil rouge quanto emerso da questi densi incontri ricchi di attenzione, ascolto, passione, energia e vibrazioni, sono un concept originale, impressivo ed efficace di Raffaele.
I temi affrontati, sicuramente di attualità, in un momento di oscurantismo generale del management a tutti i livelli (scandali, corruzione, circoli chiusi, effetti negativi socio-economici della crisi finanziaria, ecc.), cercano di rispondere a tre domande, esplicitate nei titoli e negli occhielli dei singoli incontri.
Per una persona come me che si occupa di cultura, valori, e comportamenti aziendali da oltre 25 anni, l’occasione degli incontri dell’ARSS è stata un’opportunità sicuramente appagante e piena di significato e aspettative, consapevole che in un prossimo futuro i valori e le esperienze tracciati in questi dibattiti diventeranno di sempre maggiore interesse per la collettività, per il loro grande valore sociale.
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Primo incontro/workshop: 14 marzo 2017
Il manager e l’errore
Il Manager e l’errore: quanto siamo consapevoli dei nostri errori e quanto desideriamo realmente correggerci e farci correggere? Solo manifestando apertamente questo atteggiamento otterremo dai nostri collaboratori una predisposizione positiva che contrasti la paura dell’errore e la conseguente attitudine a nasconderlo.
Testimonial e Influencer del dibattito: Roberto Apollonio – Internal Auditer Director di WindTre.
Riconoscere di aver sbagliato è sinonimo di debolezza? Il manager migliore è quello che non ammette errore da sé e dai suoi collaboratori o è vero il contrario?
Questi sono alcuni degli spunti di riflessione emersi nel primo workshop.
La gestione delle persone in azienda e la valorizzazione dei propri collaboratori sono temi sempre più legati all’efficienza delle persone e al miglioramento della produttività. Ma, nel cosiddetto People Management, quanta attenzione c’è davvero alla Persona (con la “P” maiuscola)? Quanto interesse c’è alla crescita dell’uomo oltre che a quella del lavoratore? È un tema di estrema rilevanza, che richiama altri concetti altrettanto importanti e attuali come ad esempio il work-life balance.
Essere non apparire
Quello che vogliamo approfondire oggi è la crescita umana della Persona che sta dietro, e che forse viene prima del manager. Roberto Apollonio fornisce delle direttrici chiave: “Essere, non apparire” è la sua frase d’esordio. Nella vita come nel lavoro è l’unico modo per ottenere credibilità ed essere accettati dalle persone, anche dai propri collaboratori.
Il binomio manager-errore sembra essere un tabù, come se, una volta assunte posizioni di grande responsabilità in azienda (e nella vita), ci si credesse invincibili e lontani dalla possibilità di commettere sbagli. La naturale conseguenza di un simile approccio è la tendenza a nascondere l’errore quando questo inevitabilmente si presenta …, perché l’errore è parte integrante del lavoro di ognuno, prima o poi capita a tutti di sbagliare. Un manager che sia anche un leader ha la responsabilità di far crescere i propri collaboratori secondo principi di onestà, sincerità e integrità, evitando di instaurare una cultura della colpa che porti ciascuno a sottrarsi alle proprie responsabilità.
Sono più forte quando riconosco l’errore e lo ammetto
Riconoscere di aver sbagliato non ci rende più deboli agli occhi dei nostri collaboratori e dei nostri capi, anzi il contrario. “Quando so di aver sbagliato, che succeda al lavoro con il mio capo o a casa con mia moglie o con i miei figli, non sono sereno e sento il bisogno di liberarmi. Solo ammettendo l’errore si riesce a ritrovare la serenità per lavorare bene e per essere un buon manager, un buon padre e un buon marito”. Certo, ci vuole umiltà per dire “ho sbagliato”, l’umiltà ci permette di dare spazio alla possibilità di sbagliare, ci consente di ammettere che siamo fallibili e quindi anche di riconoscere i nostri errori. Il manager umile è in grado di prendere decisioni importanti assumendosi le sue responsabilità ma al tempo stesso sa quanto sia importante che il consenso passi anche attraverso il confronto con i suoi collaboratori. Allo stesso tempo per poter correggere in modo efficace conviene farlo sempre singolarmente. In gruppo è necessario intervenire solo nei momenti in cui è necessario un chiarimento tra più persone per tentare di riportare i rapporti nella normalità.
“Sta tutto nel proprio essere”: certamente il contesto conta molto, ed è facile trovare ambienti aziendali molto competitivi o nei quali addirittura l’errore possa essere usato come arma contro chi lo ha commesso, come ad esempio accade per la professione di avvocato o consulente o medico, dove addirittura un errore può estrometterti dal mercato, ma in ogni caso “è la struttura morale che permette di ammettere l’errore”.
Vince l’uomo o vince il professionista?
D’altra parte, il contesto e il team possono anche facilitare l’accettazione dello sbaglio e aiutare a trarne validi insegnamenti. L’etica di gruppo, cioè la condivisione di uno spirito che sostiene il prossimo tanto nella valorizzazione dei propri talenti quanto nel rialzarsi dopo un insuccesso, permette a ciascuno non solo di ammettere l’errore, ma di condividerlo per farne quella che si chiama una lesson learned. Per facilitare questa prassi potrebbe essere utile creare un accountability dell’errore per relativizzare alcune tipologie di errore e per concentrarsi solo su quelli importanti per la vita dell’azienda e del gruppo di lavoro a cui si appartiene.
Forse si tratta di sottrarsi, una volta per tutte, a quel dualismo che deve veder vincere o l’uomo o il professionista e che richiede sempre di sacrificare una parte per soddisfare l’altra. Forse dobbiamo smettere di essere Dr. Jekyll nella vita e Mr. Hide nel lavoro, è arrivato il momento di far intrecciare, in un’ottica win win, umanità e competenza, integrità e abilità, sincerità e perizia.
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Secondo incontro/workshop: 3 aprile 2017
L’umiltà del leader
Perché un leader dovrebbe essere umile? Al leader investito di autorità e potere poche volte si esige umiltà, una virtù fondamentale per il successo personale e per quello dell’impresa.
Testimonial e Influencer del dibattito: Fabio Rubeo – Global Supply Chain Director – Integration, Planning & Logistic – at Philip Morris International.
Le domande sono tante, il rischio di cadere nella semplice morale è alto: ma perché mai un leader, un uomo di successo, dovrebbe essere umile? Addirittura “servire” le proprie persone?
Questi gli spunti di riflessione emersi nel secondo workshop.
Lo stile pragmatico che contraddistingue il nostro dibattito permette a Fabio di andare dritto al punto. Esiste un modo non tradizionale di avere successo ed essere leader, ed esistono persone e organizzazioni di successo che hanno fatto della leadership di servizio [Servant Leadership] il loro punto di forza, come ad esempio Procter & Gamble che già 170 anni fa divideva parte dei profitti con i dipendenti, oppure il Cavalier Michele Ferrero, che quando assunse il comando dell’azienda nel ’57 scrisse una lettera ai suoi dipendenti in cui manifestava le sue intenzioni: “Mi impegno a dedicare tutte le mie attività e tutti i miei sforzi per questa azienda e vi assicuro che mi sentirò soddisfatto solo quando sarò riuscito, con risultati concreti, a garantire a voi e ai vostri figli un futuro sicuro e tranquillo.” Oramai sempre più ricerche mostrano come il successo delle aziende dipenda da tre fattori: formazione, qualità dei rapporti, raccontare le buone pratiche.
Il mio essere manager deve essere utile …
Procter & Gamble e Ferrero: due esempi di servant leadership che, a livello mondiale, sono riconosciute organizzazioni di successo. Un caso? Forse, oppure potrebbe darsi che l’avere a cuore i bisogni dei propri collaboratori e la loro crescita come individui e non solo come lavoratori, porti ciascuno a migliorare le proprie performance e di conseguenza l’azienda a raggiungere risultati eccellenti. Se il tema è così chiaro, per quale motivo nell’esperienza comune è più frequente incontrare capi e non leader, ed è più frequente vedere leader tradizionali piuttosto che servant leader, umili e al servizio degli altri? Le spiegazioni sono molteplici e risiedono senza dubbio nella sfera culturale di persone e aziende e nel modo in cui viene inteso il successo, sia esso personale che professionale.
Dietro un grande manager che raggiunge grandi risultati c’è sempre un grande team …
Il servant leader, così come descritto da Robert K. Greenleaf negli anni ’70, contrappone all’idea del successo legata all’accumulo di potere e al riconoscimento personale, un’innovativa e coraggiosa idea di gratificazione derivata dalla condivisione dei risultati con i propri collaboratori. Uno stile di leadership differente, in cui la classica dinamica del capo che “comanda” il collaboratore e che lo vede come “risorsa da gestire per raggiungere i propri obiettivi”, viene stravolta dalla semplicità e dall’umiltà del capo che vede le proprie risorse come “persone”, che si prende cura della loro crescita e che tiene alla loro realizzazione sia personale che professionale. La ricaduta aziendale di questo modello consiste nell’aver compreso che al centro non va il cliente, ma il proprio dipendente, infatti così otterremo un maggiore attaccamento all’azienda, al suo sviluppo, alla soddisfazione del cliente. La vera rivoluzione consiste nel fatto che è la “comunità” e non il prodotto che permette di raggiungere l’obiettivo.
Che valore ha un manager che centra gli obiettivi di fatturato ma al tempo stesso spacca il proprio team?
Se identifichiamo il successo – personale e professionale – con la quantità di cose possedute, con il numero di riconoscimenti ottenuti, con la quantità di potere accumulato, è evidente che l’idea di dover servire gli altri per realizzarci, per avere successo e, perché no, per essere felici, non ha motivo di svilupparsi in noi. Il punto è che il vero leader ha il compito di aiutare gli altri e far progredire le persone del suo team, e si dice che un manager viene considerato di successo in base a come organizza la sua successione, in base cioè a come prepara i suoi collaboratori ad essere nuovi leader. C’è quindi un modo diverso di intendere il successo, e sempre molte più organizzazioni lo stanno riconoscendo, preferendo strategie che garantiscano risultati anche a lungo termine, salvaguardando persone (famiglie) e ambiente. Non sempre però – anzi quasi mai – il cambiamento viene dall’alto, e potrebbe essere necessario dover prendere delle decisioni coraggiose per rispondere a richieste poco “etiche” da parte dei nostri capi.
Cosa fare in questi casi? Ancora una volta, come per la gestione dell’errore, si tratta di essere coerenti con se stessi, di trovare un equilibrio tra l’uomo e il professionista e di essere pronti a difendere le proprie scelte e i propri comportamenti: perché si sa che scegliere di essere umili, di essere al servizio degli altri, non è la scelta più facile per un manager.
Se non sei umile ti chiudi e non ascolti …
Serve una “virata culturale”, una rivoluzione di coloro che guidano gli altri ascoltando invece che urlando; serve cambiare le regole del gioco e l’unico modo per farlo è iniziare da noi stessi.
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Terzo incontro/workshop: 16 maggio 2017
Qualità della vita e qualità del lavoro
Oggi per le imprese è fondamentale parlare della qualità della vita dei propri dipendenti. Cosa si intende per qualità della vita? Questo concetto non contrasta con la necessità di fare profitto?
Testimonial e Influencer del dibattito: Enrico Martines – Direttore Formazione, Sviluppo e Innovazione Sociale at Hewlett Packard Enterprise.
Sociologo, tre figli, appassionato di tecnologia: così si presenta Enrico Martines quando apre il dibattito sul tema della qualità della vita e dell’inevitabile intreccio con il lavoro.
Come diceva Darwin, “Il lavoro nobilita l’uomo”. Sì, è così. Lo rende migliore, lo eleva a status di Persona abile e capace. Ma non facciamo fatica a portare il nostro pensiero a quei casi in cui, quel “portatore di nobiltà” che è il lavoro entra prepotentemente nella nostra vita, occupando spesso anche spazi non suoi. Ed eccoci sempre disponibili, sempre pronti a rispondere in modo compulsivo ed efficace (apparentemente) ad ogni richiesta, sempre attenti a verificare, anche un pò sperandolo, che sul nostro cellulare ci sia qualche notifica che dobbiamo assolutamente guardare.
Come influisce questo sulla qualità della vita di ciascuno? Siamo sicuri che un continuo “attenzionismo” sia sinonimo di maggiore produttività? Una riflessione sulla qualità della vita e su quanto sia determinante per le imprese favorire un bilanciamento positivo tra vita e lavoro.
Questi gli spunti di riflessione emersi nel terzo workshop.
Se pensiamo a cosa accadeva nell’era industriale, quando l’uomo era funzionale alla produzione al pari di un ingranaggio e lavorava 16 ore al giorno, ci accorgiamo di come il lavoro fosse l’unica attività della giornata, tolta la quale non rimaneva nulla. Fortunatamente, il progresso ha messo fine a quel modello, fino a quando l’orario di lavoro standard di 48 ore a settimana per 6 giorni lavorativi, permetteva al lavoratore di avere del tempo libero da dedicare alla famiglia, alle commissioni, agli hobby. Il lavoro e la vita erano fisicamente separati, tanto che, terminato il proprio orario, si “staccava” dal lavoro.
Oggi l’innovazione tecnologica, che tanto ha portato alla produttività in termini di automazione, velocità e qualità del prodotto e del servizio, ha senza dubbio cambiato nuovamente le regole del gioco. Anche quelle della nostra vita personale. Mail, Whatsapp, Skype, LinkedIn, Facebook, Twitter: mille strumenti per essere sempre raggiunti, mille modi di comunicare, mille modi per far sapere al nostro capo che siamo disponibili, che stiamo sul pezzo. Potremmo essere sempre connessi, ma la domanda è “possiamo decidere anche di non essere connessi? Possiamo essere non disponibili?”. Quello che succede oggi è che il lavoro (certi tipi di lavoro, di sicuro quelli intellettuali) e la vita sono costantemente intrecciati, sono l’uno il prolungamento dell’altra, e se questo sia un bene o un male per la produttività è argomento di confronto e discussione.
Proviamo a mettere ogni tanto il telefono in airplane mode: scopriremo che ci sono tante cose che possono aspettare, senza che ciò crei problemi a nessuno…
Di sicuro la connessione e la disponibilità costante non aiutano in termini di qualità della vita, e pare siano anche antieconomici: si stima che circa il 28% del tempo vada perso a causa delle notifiche, e che addirittura queste stimolino la dopamina come segno di gratificazione, o, al contrario, di cortisolo come segno di frustrazione, ad esempio quando vediamo che un nostro messaggio inviato è stato letto e non abbiamo ricevuto alcuna risposta. La iperconnessione aumenta il bisogno di essere riconosciuti, di essere confermati dagli altri, e questo porta via tante energie.
Se trasliamo questi concetti al rapporto esistente tra manager e collaboratori, è facile capire come tutto ciò non può non avere un impatto in termini di qualità del lavoro e qualità della vita. Spesso il manager, replicando lo stile di leadership che ha imparato, chiede ai suoi collaboratori di essere sempre disponibili ad una call o si aspetta una risposta immediata ad una mail e la battuta “oggi mezza giornata?” è segno evidente di una cultura basata sul “presenzialismo” e sul dover dimostrare di fare sempre e comunque un sacrificio in nome di questo o quel progetto. Con quali risultati?
Se oggi il lavoro è frutto di produzione intellettuale e se il lavoro intellettuale è legato al benessere, allora la ricerca della qualità della vita è una questione di produttività …
Vita e lavoro possono essere felicemente interconnessi, ma non sacrificando l’una a discapito dell’altra. Basti pensare a quegli esempi virtuosi di smart working: lavorare dove e quando si vuole, superando il limite del controllo con la cultura del risultato. Una condizione di libertà come quella offerta dallo smart working e l’assenza di vincoli rigidi e tradizionali favoriscono la creatività e la capacità di trovare soluzioni alternative. Inoltre, la possibilità di organizzare i propri orari integrandoli con le esigenze familiari, e di risparmiare il tempo per gli spostamenti casa-lavoro, abbassa lo stress e permette di essere più concentrati. Questo, se da un lato può avere evidenti effetti positivi sulla qualità del lavoro, specie per quelle professioni in cui la creatività e il problem solving sono fattori essenziali, dall’altro può influire positivamente anche sullo star bene dell’individuo e più in generale sulla qualità della vita dei dipendenti.
Se non sei buono per te stesso non sei buono per la tua famiglia. Se non sei buono per la tua famiglia, non sei buono per l’azienda …
La qualità del lavoro e la qualità della vita sono dunque legate in modo circolare: lavorare bene e serenamente influisce sulla qualità del lavoro e sulla qualità della vita personale, una persona che sta bene lavora meglio, è più ingaggiata ed è più disponibile a fare sacrifici. È necessario però tutelarsi da un rischio, e cioè che dietro l’innalzamento della qualità della vita (e di quella del lavoro) di qualcuno, ci sia uno sfruttamento del lavoro di qualcun altro a bilanciare delle leggi dell’economia non sempre giuste. Questo rimanda al più ampio tema della distribuzione della ricchezza, che trascende la singola realtà aziendale e si allarga agli aspetti socio politici ed economici del Paese e del mondo intero.
Se facciamo l’esercizio di rimanere concentrati su quello su cui possiamo agire direttamente, il qui ed ora, dobbiamo porci una domanda chiara: “Come posso portare, nella mia azienda, questo seme della qualità, tanto del lavoro quanto della vita?”. Lo smart working è l’unica soluzione? La risposta è da ritrovare, ancora una volta, nella cultura e cioè nei comportamenti: certamente, in un’azienda in cui il top management valorizzi l’importanza della qualità della vita anche attraverso la flessibilità del lavoro è tutto più facile, ma il cambiamento può avvenire anche dal basso attraverso il role modeling, cioè la capacità di indirizzare colleghi e collaboratori con l’esempio. Il problema dei manager di oggi è che hanno imparato un paradigma di gestione delle risorse che oggi risulta inadeguato proprio perché più basato sul controllo della presenza che su quello dell’efficienza del lavoro svolto.
Cosa succederebbe se sostituissimo questo paradigma con quello della fiducia, della attenta pianificazione del lavoro e della responsabilizzazione di ciascuno? In quest’ottica la tecnologia può essere davvero una grande alleata nel far dialogare vita personale e carriera, bisogni familiari ed esigenze di business.
Appendice
Aggiungo qui come riflessione complessiva ai 3 incontri/workshop uno stralcio della versione italiana dell’articolo di Henry Mintzberg riportato più avanti: “Rebuilding Companies as Communities” (2009)
Bibliografia, sitografia e altri riferimenti utili
ARSS – Associazione Romana Studi e Solidarietà (2017): “Ciclo di Incontri su Servant Leadership”. (febbraio 2017), arssroma.org/category/laboratori/servant-management/, (segnalato da Carlo Messina)
Facebook (2017): Discorso di Papa Francesco all’ILVA (27 maggio 2017), m.facebook.com/story.php?story_fbid=1953098811590380&id=1781168562116740, (segnalato da Domenico Bosi)
Entrepreneur (2017): “How to Retain Employees through ‘Servant’ Leadership”. (magazine on-line) (1 marzo 2017), entrepreneur.com/article/289730, (segnalato da Stefano Scravaglieri)
Bruno Vitali (2015): “Tremila giorni. Fiat: la metamorfosi e il racconto”. Marsilio, 2015, (segnalato da Bruno Vitali)
Leonardo Bechetti (2014): “Manifesto dell’economia civile”. Editore il Mulino, 2014. alleanzacooperative.it/uffici-studi/wp-content/uploads/2015/01/Analisi-e-Recensioni-n%C2%B0-6-Gennaio-2015.pdf, (segnalato da Domenico Bosi)
Paolo Petrucciani (2013): “La comunitocrazia e la risposta delle aziende”. Officine Einstein, n. 12, 4 maggio 2013, (magazine on-line) (officineeinstein.eu/organizzazione-aziendale/276-nuove-prospettive-per-l-identita-aziendale.html)
Paolo Petrucciani (2013): “Trasformare la cultura aziendale in valore”. Officine Einstein, n. 10, 3 maggio 2013, (magazine on-line) (officineeinstein.eu/economia-della-conoscenza/274-la-cultura-aziendale-e-un-valore.html)
Henry Mintzberg (2009): “Rebuilding Companies as Communities”. Harvard Business Review, July-August 2009, hbr.org/2009/07/rebuilding-companies-as-communities, (segnalato da Paolo Petrucciani)
Henry Mintzberg (2009): “L’azienda come comunità”. Harvard Business Review, versione italiana, Settembre 2009, lacooperazionereggiana.it/bellacoopia/wp-content/uploads/2016/11/Mazzoleni-22_11_16-MINTZBERG.pdf, (segnalato da Paolo Petrucciani)
Paolo Petrucciani (2009): “Come trasformare la cultura in valore (prima, seconda e terza parte)”. pubblicato sulla rivista elettronica “Il Caos Management” n.44-45-46, settembre-ottobre-novembre 2009 (caosmanagement.it/, caosmanagement.it/n44/art44_02.html, caosmanagement.it/n45/art45_03.html, caosmanagement.it/n46/art46_03.html)
Robert K. Greenleaf (1977): “Servant Leadership – A Journey into the Nature of Legitimate Power and Greatness”. Paulist Press 1977, (segnalato da Raffaele Santoro)
http://www.benning.army.mil/infantry/199th/ocs/content/pdf/The%20Servant%20as%20Leader.pdf
Robert K. Greenleaf (1970): “The servant as leader”. Cambridge, Massachusetts, Center for Applied Studies, 1970, (segnalato da Raffaele Santoro)