Contrariamente a quanto sarebbe lecito immaginare, l’erogazione di credito ad un’impresa in stato di crisi, anziché condurre ad un auspicabile superamento della condizione di difficoltà, potrebbe determinare, in molti casi, un sensibile pregiudizio sia per i creditori sia per la medesima impresa. Anche in considerazione di quanto appena rilevato, la dottrina e la giurisprudenza di settore, sulla scia delle elaborazioni derivanti dall’ordinamento francese, si sono gradualmente occupate di sviluppare in suolo italiano la tematica della concessione abusiva di credito.
La fattispecie dell’abusiva concessione di credito identificherebbe una patologia nel rapporto intercorrente tra la banca finanziatrice e l’impresa finanziata. Più in particolare, salvo meglio precisare in prosieguo i termini del discorso, pare corretto sostenere come un abuso nella concessione di credito sia ravvisabile allorquando una banca finanzi un soggetto sprovvisto dei requisiti di merito creditizio necessari per poter accedere a quel dato finanziamento. Quanto appena riportato rende una prima generica idea circa la natura dell’istituto in questione, il quale necessita tuttavia di un’ulteriore lineare specificazione: pare in effetti doveroso chiarire quali siano gli elementi caratterizzanti la concessione abusiva di credito, cercando altresì di far emergere il labile confine intercorrente tra il sostegno regolare alle imprese e le condotte abusive.
In via preliminare, si ritiene opportuno considerare le fisiologiche modalità attraverso le quali gli istituti finanziari erogano credito, rispetto alle quali l’abuso rappresenta semplicemente un’indesiderata patologia. Sul punto, preme rilevare come la concessione di credito da parte di una banca sia soggetta al previo esperimento di un’attività istruttoria; in altre parole, l’erogazione di credito risulterebbe essere condizionata ad un’attività valutativa condotta con riguardo al cd. merito creditizio, attività tanto più necessaria quanto più si consideri l’ovvia esigenza di garantire una gestione sana e prudente dell’intermediario ed in generale la complessiva stabilità del sistema finanziario.
Ragionando in termini strettamente fisiologici, si deve ritenere legittimo il sostegno alle imprese sorretto da una valutazione ragionevolmente positiva circa la capacità di rimborsare quanto acquisito a titolo di debito; diversamente, su di un piano patologico, l’erogazione di credito assume i tratti dell’abuso, ed è tale da dar luogo ad eventuale responsabilità dell’intermediario, ogni qualvolta l’istituto finanziatore eroghi credito (o mantenga le linee di credito precedentemente concesse) in modo imprudente, ovverosia pur conoscendo o dovendo conoscere, all’esito dell’attività valutativa, le condizioni di grave difficoltà economica del soggetto finanziato.
Quanto poc’anzi sostenuto consente di enucleare gli elementi caratterizzanti la concessione abusiva di credito, fattispecie tale da fondare un’eventuale responsabilità dell’istituto finanziatore. Più in particolare, al fine di configurare una forma di sostegno abusivo, è necessario anzitutto che la banca finanziatrice integri la condotta consistente nell’erogazione di nuova finanza ovvero nel mero mantenimento di linee di credito esistenti, e ciò nonostante il conosciuto o conoscibile peggioramento delle condizioni dell’impresa percipiente. Non solo: sotto altro profilo, deve altresì rilevarsi che, perché possa ricorrere l’istituto in parola, è necessario che la concessione di credito sia effettuata a favore di un’impresa la cui situazione appaia oramai irrecuperabile, indipendentemente dall’intervenuta dichiarazione di fallimento; fallimento che, secondo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7030), assume un mero rilievo storico.
Se vi è relativa certezza circa l’identificazione degli elementi caratterizzanti la concessione abusiva di credito, non mancano elementi rispetto ai quali l’approccio di chi scrive appare necessariamente molto più sfumato: prefigurando quanto si avrà cura di far emergere in prosieguo, è il caso di far riferimento alla ben nota questione concernente la legittimazione del curatore fallimentare ad esercitare l’azione risarcitoria per i danni derivanti da fenomeni di abusiva concessione di credito; curatore che, allo stato attuale, salvo determinate fattispecie concrete, non risulterebbe legittimato a promuovere un’azione risarcitoria per credito abusivo.
La riflessione sul tema della legittimazione del curatore muove necessariamente dall’intervento delle Sezioni Unite del marzo 2006. A tal riguardo, la mente corre alle tre note sentenze ‘gemelle’ del 28 marzo 2006, n. 7029, 7030 e 7031, mediante le quali la Cassazione è pervenuta a negare recisamente la legittimazione attiva dell’organo della procedura, con ciò consolidando un indirizzo ampiamente diffuso nella giurisprudenza di merito. Più in particolare, la Suprema Corte nella sua più autorevole composizione ha concluso per l’impossibilità di configurare una forma di legitimatio ad causam del curatore fallimentare con riguardo all’azione risarcitoria per credito abusivo, adducendo a sostegno della proprie affermazioni la circostanza per cui, nel sistema della legge fallimentare, la legittimazione ad agire del curatore è limitata alle sole azioni di massa, azioni finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore aventi carattere generalizzato ed indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo; per converso, nella ricostruzione offerta dalla Suprema Corte, al novero delle azioni di massa non apparterebbe l’azione risarcitoria in parola, la quale, analogamente all’azione di cui all’art. 2395 cod. civ., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore ed “il danno che deriva da siffatta attività andrà, comunque, caso per caso valutato nella sua esistenza e nella sua entità, essendo ben ipotizzabile che creditori che pur hanno diritto di partecipare al riparto non hanno titolo per il risarcimento di cui si tratta, non avendo ricevuto danno dalla continuazione dell’attività di impresa” (Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7030).
Ciò posto, è il caso di rilevare che, volgendo lo sguardo al panorama giurisprudenziale in materia, si riscontra una sensibile apertura della giurisprudenza di legittimità che, ancorché in termini angusti, è pervenuta talvolta a riconoscere una limitata forma di legitimatio del curatore fallimentare, e ciò quanto meno per le ipotesi in cui tutti gli elementi dell’illecita concessione di credito siano desumibili dall’intervenuta condanna penale dei gestori preposti alla direzione del soggetto finanziato (Cass., 1 giugno 2010, n. 13413). In buona sostanza, la Suprema Corte di Cassazione, in controtendenza rispetto al summenzionato indirizzo restrittivo, ha ammesso che il curatore fallimentare possa legittimamente far valere, nei confronti della banca erogatrice, il concorso ex art. 2055 cod. civ. nella causazione dell’illecito ascrivibile all’attività dei gestori dell’impresa sovvenuta.
Portando a conclusione quanto sopra riportato, si ritiene dunque doveroso inferire che la legittimazione del curatore ad agire per abusiva concessione di credito sarebbe ravvisabile, allo stato attuale dell’arte, solo ed esclusivamente in relazione a fattispecie di concorso della banca erogatrice nell’illecito dei gestori della società finanziata.
Ad ogni modo, è appena il caso di rilevare come il discorso riguardante la definizione dei poteri processuali del curatore fallimentare sia in realtà ben lungi dal potersi considerare esaurito: in effetti, sta prendendo recentemente piede l’idea che questi – mediante l’esperimento di azioni di massa – possa far valere il danno che la concessione abusiva abbia a cagionare, non già nei confronti dei singoli creditori dell’impresa finanziata, bensì nei confronti del patrimonio del medesimo soggetto sovvenuto. Una simile previsione evolutiva, a parere di chi scrive, non risulterebbe essere del tutto infondata, e ciò in ragione del carattere indubbiamente plurioffensivo del pregiudizio conseguente all’erogazione abusiva di credito: in effetti, non sembra azzardato sostenere come, a seguito di un’erogazione imprudente, a subire un pregiudizio non sarebbero unicamente i creditori che sul patrimonio dell’impresa non siano più in grado di realizzare le proprie pretese, ma a venire travolta sarebbe la stessa impresa finanziata che, con l’allargamento dell’esposizione debitoria, risulterebbe definitivamente schiacciata dai debiti contratti.