Nel 2013 Carl Benedikt Frey e Michael Osborne nella ormai celebre ricerca “The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?” predissero che entro 20 anni 702 mestieri corrispondenti al 47% dei lavoratori americani avrebbe perso il lavoro in quanto sarebbe stato sostituito da robot e altre macchine.
Mestieri fino ad oggi noti e diffusi come i bigliettai nei cinema o nei trasporti (treni, aerei,etc.), gli impiegati allo sportello delle poste o delle banche, i vigili agli angoli delle strade, gli operatori dei call center, ma anche gli autisti delle auto, i macchinisti dei treni o delle metropolitane, i traduttori, e molti lavori dei cosidetti colletti bianchi. In generale spariranno tutti i lavori intermedi, quelli che potranno essere per l’appunto sostituiti dall’automazione, da una app, da un software, da un robot che grazie all’evoluzione dell’applicazione dell’intelligenza artificiale sta facendo progressi esponenziali.
Più recentemente Klaus Schwab Founder and Executive Chairman del World Economic Forum di Davos ha presentato un’altra ricerca “The future of jobs and skills” (2016) che illustra le evoluzioni del lavoro fino al 2020 sulla base delle indicazioni tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali. Complessivamente queste imprese rappresentano circa 13 milioni di dipendenti. L’analisi si riferisce a 15 tra i maggiori Paesi nel mondo (tra cui Cina, India, Francia, Germania, Italia, Giappone, Uk e Usa). Vengono fornite informazioni dettagliate su nove settori (Industria e costruzioni, Commercio, Energia, Servizi finanziari, Sanità, ICT, Media & Intrattenimento, Logistica, Servizi professionali).
Nei prossimi 5 anni fattori tecnologici (in primis la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”) e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni (come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro) stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni.
L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo – quindi – di oltre 5 milioni di posti di lavoro.
A livello di gruppi professionali le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti.
Secondo la ricerca compenseranno (parzialmente) queste perdite l’area finanziaria, il management, computer ed ingegneria.
Il postulato che “La tecnologia produce aumenti di produttività che generano profitti, quindi un aumento della domanda che fa nascere la necessità di nuovi posti di lavoro in settori diversi da quello stravolto dall’innovazione” e la conseguente convinzione durata un paio di secoli che la disoccupazione tecnologica non esiste ora comincia a vacillare.
Venendo al nostro Paese, gli ultimi dati ci dicono che il tasso di disoccupazione è del 11,3%, quello giovanile del 37% (dati relativi al mese di maggio 2017). In generale la percezione è che ci sia talmente tanta carenza di lavoro da aver indotto un po’ tutte le forze politiche a farsi promotrici di interventi di vario tipo che in buona sostanza, anche se con terminologie differenti si possono sintetizzare nel “reddito di cittadinanza”. Ebbene su questo tema vorrei aprire una profonda riflessione. Pensare di risolvere il problema di quella parte di cittadini (piuttosto cospicua tra giovani e non) che non ha un lavoro offrendo loro un reddito non solo non è la soluzione del problema ma è a mio avviso anche offensivo della dignità umana.
Poiché esistono proposte di questo genere mi corre l’obbligo di ricordare a quanti promuovono tale soluzione cosa sia il lavoro per l’essere umano e, di conseguenza, tracciare le linee attraverso le quali si possa affrontare questo problema.
Il lavoro per l’essere umano (in età adulta) è il mezzo attraverso il quale l’individuo si relaziona con gli altri, tesse rapporti sociali, approfondisce tecniche e contenuti professionali che, inseriti in un determinato contesto organizzativo, producono quel senso di utilità per sé e per la collettività senza il quale l’essenza stessa della vita perderebbe di significato. Infine produce risultati economici per sé stessi e per l’organizzazione per la quale l’individuo lavora. In sintesi produce dignità, spesso ma non sempre autostima, autorealizzazione, relazioni sociali, reddito.
Ebbene il solo pensiero che distribuendo un reddito di cittadinanza si possa solo lontanamente supplire alla mancanza di lavoro è errato, fuorviante, ed offensivo della dignità umana.
Allora come si può affrontare il problema?
Stante lo scenario presentato dai ricercatori dell’università di Oxford (richiamato anche dal Governatore della Banca d’Italia) e dallo studio del World Economic Forum di Davos il tema del lavoro sarà un tema epocale (come quello delle risorse idriche ed energetiche) che probabilmente ci vedrà impegnati per i prossimi decenni, forse per il prossimo secolo e quindi per la sua grandezza non sarà certamente facile trovare una soluzione univoca ed immediata ma quello che lascia interdetti è che, ad oggi, da parte politica non c’è alcuna proposta seria non su come risolverlo, ma neanche su come affrontarlo. Non ho visto tavoli o strumenti che si prefiggano di studiare il tema, prevedere gli impatti qualitativi e quantitativi sui mestieri e sulle competenze nel nostro Paese e soprattutto prevedere e governare i tempi di questa trasformazione che certamente ci sarà (ricorda molto nella dinamica come si è affrontato l’ingresso dell’euro nel nostro Paese, cioè semplicemente non si è affrontato e gestito ma semplicemente lo abbiamo subito).
Personalmente suggerisco un approccio molto semplice, minimalista se volete, ma l’esperienza mi ha insegnato che più i problemi sono complessi più bisogna concentrarsi su ipotesi semplici di possibili soluzioni.
Come coniugare dunque questo scenario per certi versi apocalittico del lavoro nei prossimi decenni con la endemica difficoltà che alcuni Paesi (tra cui il nostro) hanno in termini di occupazione?
RIPARTIAMO DAI BISOGNI!
A giudicare dallo stato a dir poco pietoso in cui versano le nostre strade, parchi, monumenti, scuole, ospedali, edifici pubblici e privati, il decoro urbano, la raccolta dei rifiuti ed il loro trattamento, gli impianti elettrici, idraulici, le reti elettriche e quelle digitali, gli acquedotti, i giardini, i servizi alla terza e quarta età, gli asili nido, i servizi alle giovani famiglie e potrei continuare…..il lavoro, ovvero le cose da fare, non mancano.
Infatti i bisogni, le esigenze insoddisfatte o parzialmente soddisfatte della popolazione del nostro Paese sono molte e non solo nell’area che potremmo ascrivere ai pubblici servizi. Se infatti andassimo a verificare la situazione all’interno delle case private, piuttosto che delle imprese private, grandi o piccole, vi assicuro che bisogni di adeguamento, ammodernamento, digitalizzazione, revisione dei processi, sviluppo delle competenze degli operatori, sostituzione dei macchinari obsoleti, etc… sono altrettanto diffusi e molteplici.
Questa molteplicità di bisogni, pur percepibili a tutti, non trova però riscontro in una domanda di lavoro. Eppure per far fronte solo agli esempi citati ci sarebbe bisogno di operai specializzati, artigiani, giardinieri, progettisti del verde, manutentori, impiantisti, medici, infermieri, puericultrici, geriatri, restauratori, idraulici, falegnami, esperti digitali, big data analist, esperti di domotica e di digitalizzazione dei processi, biotecnologi, managers di imprese private, managers di organizzazioni pubbliche, managers di aziende sanitarie, etc.
Dunque perché questi bisogni non si traducono in posti di lavoro?
Una possibile risposta, ancorché non sia l’unica, è l’aspetto economico. Si dirà che per quel che concerne i bisogni e quindi anche i lavori/mestieri che riguardano il pubblico interesse (le strade, le scuole, la sanità ad esempio) non ci sono risorse economiche per fronteggiarli. Ma consentitemi: non solo tale affermazione è opinabile, ma in molti casi si può dimostrare addirittura il contrario, e cioè che si spenderebbe di meno se tali bisogni fossero soddisfatti. E’ una questione di approccio sostanziale, non filosofico e di valorizzazione nelle poste di bilancio di alcuni asset che oggi sfuggono. A titolo di esempio: quanto vogliamo valorizzare la perdita di una vita umana che muore a causa dello stato di abbandono di una strada? Oppure quanto vogliamo valorizzare le persone che muoiono a causa del mancato accesso alle cure mediche per i tempi biblici necessari spesso per fare delle analisi? Quanto vogliamo valorizzare la reputazione negativa che esportiamo all’estero a causa dello stato indecoroso in cui versa per esempio la Capitale in merito alla pulizia? Quanto vogliamo valorizzare gli incidenti che quotidianamente accadono nelle nostre case a causa della vetustà degli impianti? Quanto vogliamo valorizzare la perdita di acqua potabile che ogni giorno abbiamo a causa della inefficienza dei nostri acquedotti? E potrei continuare all’infinito per quanto riguarda i servizi pubblici. Quindi in sintesi la mia tesi è che l’approccio con il quale spesso si affrontano questi problemi è errato ab origine, si valutano i costi (che poi sarebbero investimenti) e non si valorizzano i “mancati ricavi” (diremmo in termini aziendalistici) nel caso in cui non si provveda a soddisfarli.
Mi sembra un problema culturale, più che finanziario, un po’ come accadde nei mercati finanziari nei primi anni 2000 quando Standard & Poors si accorse che tra le prime 500 aziende quotate negli USA ve ne erano alcune che quotavano 5, 6, 7 volte il cosiddetto valore di libro. Gli studiosi si chiesero il perché e dopo molte analisi vennero alla determinazione che Microsoft valesse in borsa molto più della General Motors (che aveva valori di bilancio ben più consistenti) per il semplice fatto che il mercato gli riconosceva un valore ben superiore a quello che era il suo bilancio e che era determinato da un insieme di asset cosidetti intangibili. In altri termini già negli anni 2000 si consumò il paradosso che il sistema contabile era stato concepito per determinare il valore delle imprese della prima rivoluzione industriale ed infatti i bilanci valorizzavano gli asset tangibili (capannoni, macchinari, materie prime) e non valorizzavano gli asset intangibili, divenuti invece con la seconda rivoluzione industriale, con la new economy, gli asset fondamentali che ne determinarono il valore di mercato (si veda articolo del sottoscritto “La valutazione del Capitale Intellettuale: un’opportunità da non lasciarsi sfuggire”- 2007).
Ecco dovremmo concentrarci sui “mancati ricavi” e valorizzarli per capire e valutare correttamente il costo, in termini di investimenti dei progetti pubblici necessari per soddisfare i bisogni di cui sopra.
Per quanto riguarda le imprese ed i bisogni privati è la stessa cosa. Oggi gli imprenditori, soprattutto delle PMI, ragionano in termini di costi. Quanto mi costa sostituire quel macchinario? Quanto mi costa assumere 3 nuovi operai specializzati? E quanto devo vendere in più per rientrare di questi investimenti? Ebbene inviterei gli imprenditori a fare un altro ragionamento: quanto tempo riesco a rimanere sul mercato se non cambio quel macchinario? Per quanto tempo riesco a mantenere la mia quota di mercato se non assumo personale specializzato nelle nuove tecnologie? In quali altri mercati posso proporre i miei prodotti/servizi così rinnovati? Queste sono le domande che si dovrebbe fare un imprenditore e non ragionare in termini di costi. Peraltro al momento ci sono anche agevolazioni ed incentivi fiscali per favorire la crescita e la competitività delle imprese italiane.
Tornando al tema del lavoro. I bisogni ci sono, le professionalità per soddisfarli a volte ci sono, a volte bisogna crearle. Un Paese che avesse a cuore il futuro dei propri cittadini anziché proporre un reddito di cittadinanza metterebbe in cantiere strutture dedicate ed efficienti per prevedere il mercato del lavoro nel medio-lungo termine, aggiornare i percorsi di istruzione inserendo e sviluppando maggiormente in via strutturale e sistematica spazi per l’ applicazione e la sperimentazione pratica degli insegnamenti teorici (primaria, secondaria, universitaria, della formazione professionale) determinando le professionalità che con stime attendibili saranno necessarie e convogliando su di esse gli investimenti e la forza lavoro. Altro che reddito di cittadinanza!
Ci sono poi già oggi moltissime opportunità che non vengono colte. A titolo di esempio segnalo il complesso del Foro Italico a Roma. E’ una struttura che tutto il mondo ci invidia e che ha dei meravigliosi mosaici come pavimentazione ormai ridotti a strada sterrata di estrema periferia. Premesso che risulta veramente difficile comprendere tale stato di abbandono, non si capisce perché il proprietario di tale struttura, ammesso che ancora una volta il problema fosse economico e cioè l’endemica mancanza di denari pubblici per restaurare tali mosaici, non si avvale di sponsor privati ovvero non coinvolga maestri senior e scuole d’arte (mi pare che sia prevista anche in Italia l’alternanza scuola lavoro) per restaurare questa come mille altri monumenti e/o strutture architettoniche che rappresentano uno dei veri tesoro del nostro Paese (si veda il caso del restauro del Colosseo che si è potto realizzare grazie al contributo economico di uno sponsor privato).
Oppure prendiamo in considerazione lo stato dei parchi e dei giardini della Capitale. Data la perdurante incuria in cui versano da anni assistiamo con sempre maggiore diffusione a interventi spontanei di cura e manutenzione da parte della cittadinanza di giardini e aiuole urbane. Le iniziative sono ovviamente lodevoli in sé, ma hanno portato ad una distruzione dell’architettura inizialmente predisposta ed alla definizione di un profilo che non ha criteri né botanici né tecnico-urbanistici (giardini zen che sostituiscono aiuole floreali di stile mediterraneo, piante grasse piantate insieme e vicino ad arbusti ed oleandri, essenze e piante tolte dai balconi ed interrate nelle aiuole). Ora io ritengo che il volontariato, in una società moderna e sviluppata possa svolgere un ruolo importante, se queste energie e questi volontari sono coordinati e gestiti dalle strutture che, istituzionalmente hanno il diritto ed il dovere (l’obbligo direi) di gestire per conto della cittadinanza determinati aspetti. In questo caso perché il Comune, il Servizio Giardini, i Municipi non coordinano le associazioni di volontariato affinché possano contribuire in maniera seria alla manutenzione del verde cittadino anziché lasciare alla libera iniziativa con i risultati che vediamo? Anche in questo caso perché il Comune, il Servizio Giardini, i Municipi non mobilitano le risorse private che pur sono disponibili (si veda il Giardino degli Aranci a Roma, il cui ripristino e la cui manutenzione è a cura di uno sponsor privato) ovvero gli studenti del ramo che possono dare un contributo nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro se coordinati?
Si potrebbero fare molti altri esempi ma credo che il senso sia chiaro.
La ricerca di Klaus Schwab produce poi una interessante riflessione sulle competenze che saranno necessarie per i lavori/mestieri dei prossimi anni. Ecco lasciando ai lettori di approfondire la ricerca del World Economic Forum per i mestieri del futuro a me sembra che per quanto riguarda il lavoro che manca nel nostro Paese oggi, esso non vada tanto ascritto agli scenari che pur verranno e con i quali dovremo certamente fare i conti nei termini suddetti, ma in questo momento a me pare che ci sia un forte deficit di competenze in una categoria specifica che è quella della classe dirigente in generale e degli amministratori pubblici in particolare che non sono capaci di interpretare i bisogni dei cittadini e, ancor più, di affrontare con creatività e rigore metodologico un problema ed un disagio profondo della popolazione.