Ho sempre pensato che il pensiero organizzativo non sia sequenziale ma piuttosto complementare e a volte contraddittorio, nell’ambito delle sue interdipendenze operative. Ossia, che le scansioni storiche e teoriche, succedutesi in un lungo arco di tempo, dai primi del ‘900 fino ai nostri giorni, vadano a sedimentarsi l’una sull’altra non escludendosi a vicenda ma stratificandosi nel loro insieme, come utile repertorio di strumenti (vecchi e nuovi) per le attività di analisi, progettazione e gestionali da parte del management.
È noto che i fondamenti del management scientifico affondino le radici nei primi decenni del ‘900 e che da questo big bang iniziale, che sostituisce l’empiria e l’arbitrio della conduzione industriale della prima rivoluzione industriale, scaturiscano, nel corso del XX sec., e nell’ambito della seconda rivoluzione industriale, varie teorie, tutte basate sia sulla soggettività che sull’ambiente, contrapponendosi alla dimensione strutturale preesistente e dominante della scuola classica. Vedi la razionalizzazione del lavoro, i principi classici della direzione aziendale e l’esercizio dell’autorità formale, esempi tipici del contributo di manager come Taylor (1911) e Fayol (1916) imprenditori come Ford (model T, 1914) e storici come Max Weber (1922), che, in particolare, ha analizzato a fondo il processo di burocratizzazione degli apparati amministrativi in corso nell’ambito della prima modernità (secondo la sua famosa metafora della gabbiad’acciaio).
In effetti le principali variabili che caratterizzarono la scuola classica del management furono la tecnologia, l’organizzazionesociale e le finalità organizzative e solo successivamente, nel pensiero post-classico, emergeranno le dimensioni dell’ambiente e dei soggetti, per la progressiva complessità e dinamicità del contesto ambientale e le maggiori aspettative degli attori, per cui significatività del lavoro per le persone e l’efficacia delle organizzazioni per la collettività, furono alla base di queste profonde e radicali trasformazioni in atto.
La crisi della forma burocratica (sia nella versione industriale che della amministrazione dello Stato) metterà poi in luce le disfunzioni e i circoli viziosi della burocrazia (Merton,1949 e Selznick, 1957), per merito del funzionalismo debole che svelerà, tramite i suoi autori e le sue ricerche, alla metà del XX secolo, almeno due fondamentali limiti di questo modello fondativo dell’organizzazione basato su di un funzionalismo forte: l’inversione tra mezzi efini e le distorsioni interne ed esterne agli apparati burocratici, fondate sugli interessi prevalenti delle lobby, all’esterno dell’organizzazione, e il potenziale opportunismo degli attori (all’interno), in quanto il rapporto strategia – struttura non è quasi mai lineare e spesso la struttura retroagisce in modo disfunzionale sulla strategia delle organizzazioni.
Si affermarono cosi, successivamente, il tema della partecipazione organizzativa (Barnard,1937), il paradigma delle relazioni umane (Mayo, 1927-1932) e le teorie motivazionaliste (Maslow, 1954 e Argyris, 1973). Mentre nella progressiva destandardizzazione dei comportamenti organizzativi si faceva strada il tema delle decisioni organizzative (Simon, 1948) cosi come il declino dei saperi taciti (particolari abilità dell’operatore) alimentava il dibattito sulle competenze, di soglia o distintive che fossero, codificate e istituzionalizzate tramite percorsi formativi, (Boyatzis, 1982).
Mentre per quanto concerne le teorie dell’ambiente, il modello delle contingenzeorganizzative apriva la strada alla diversità e pluralità delle regole della progettazione strutturale, chiudendo il periodo della forma unica di organizzazione (quella burocratica) sostituita dalla pluralità e diversificazione delle forme organizzative: divisionalizzazione delle imprese in rapporto alla diversificazione dei mercati, emergere delle burocrazie professionali tipiche della società dei servizi e la necessità di innovare processi e prodotti tramite le organizzazioni a progetto (adhocrazie), caratterizzate dalla trasversalità strutturale dei processi e la diversificazione multipla delle competenze, unica strada adatta alla risoluzione dei problemi non conosciuti.
Ma il passaggio epocale, seguendo le metafore dell’organizzazione, spesso utilizzate dalla teoria organizzativa, per esemplificare un modello o una logica di comportamento, è quello dalla macchina all’organismo, dal sistema chiuso a quello aperto (all’ambiente), dalle procedure standardizzate alle decisioni, dalla stabilità e semplicità dei contesti organizzativi alla loro progressiva dinamicità e complessità.
Eppure non bisogna dimenticare che la burocraziaclassica è stata la forma di modernizzazione prevalente del capitalismo industriale e degli apparati amministrativi dello Stato, nel corso del ‘900, in quanto ha sostituito, con la sua autorità legale- razionale, le forme di amministrazione patrimonialistiche (basate sull’autorità tradizionale) e i gruppi informali composti dai “discepoli” (nell’autorità carismatica), sostituendole con l’universalismo delle regole e la razionalità rispetto allo scopo, dimensioni tipiche delle moderne organizzazioni.
Nel tempo, a partire dalla solida costruzione tecnologica e sociale della scuola classica, emergono nuove variabili organizzative, dalla cultura al clima, dall’etica all’estetica, dallo spazio al tempo, con nuove metafore dell’organizzazione come il cervello o il collage, che attivano anche innovativi stili di management. Infatti se la macchina era gestita dall’ingegnere (Taylor) l’organismo è governato dal dirigente (Barnard), che preannuncia la fase storica della managerializzazione dell’economia, ma se l’organizzazione è una cultura sarà necessario, per la sua conduzione, un leader, per la gestione dei suoi aspetti simbolici, cosi come la progettazione creativa avrà bisogno dell’artista, ultima versione manageriale in grado di disegnare e gestire la necessaria pluralità innovativa delle molteplici variabili organizzative in gioco (Hatch, 2009).
Oggi le aziende e le imprese scelgono se integrare verticalmente i processi lavorativi (secondo i dettami della scuola classica) o esternalizzarli nell’ambiente nel quale sono inserite, secondo la teoria dei costi di transazione (Williamson, 1985), valutando i differenziali dei costi, il controllo delle incertezze e i relativi comportamenti organizzativi degli attori (si vedano i concetti di moralhazard e selezioneavversa). Si fronteggiano cosi, dagli ultimi decenni del ‘900, due forme storiche di coordinamento organizzativo come il mercato (preesistente all’organizzazione) o la gerarchia, i contratti di impiego o le relazioni di scambio e di mercato, con differenti strategie in atto, l’outsourcing o la protezione del core business tecnologico dell’impresa.
Mentre gli attuali processi di istituzionalizzazione delle organizzazioni, ossia la loro legittimazione sociale e culturale, come valore aggiunto, dimostrano che le risorse aziendali non sono più solo quelle tradizionali (finanziarie, tecnologiche, organizzative o strategiche) ma anche e soprattutto la capacità del management di intercettare gli interessi degli stakeholder interni (lavoratori e dirigenti) ed esterni (istituzioni e associazioni) allo sviluppo organizzativo, risarcendo il sostegno alle imprese con la conformità operativa ai loro interessi materiali o simbolici.
Fin qui la teoria organizzativa declinata sinteticamente (e in modalità inevitabilmente limitata dalla brevità del testo) nelle sue fasi storiche essenziali, dagli inizi del ‘900 e fino ai primi decenni del XXI secolo, ma quali sono i riscontri sul piano della progettazione e del coordinamento delle attività? Quali fasi del pensiero organizzativo appaiono definitivamente superate? Fino a che punto è necessario integrare le lezioni dello sviluppo organizzativo per gestire l’attualità e la funzione primaria dei processi organizzativi?
Credo che la lezione classica di Taylor, Fayol e Ford non vada dimenticata, pur nei contraddittori esiti sociali e soggettivi dell’epoca, in quanto ha permesso di superare il disordine e l’approssimazione storica preesistente e considerando il fatto che le stesse odierne organizzazioni hanno ancora bisogno di ordine, razionalità e produttività, cosi come la legittimazione dell’autorità legale –razionale, secondo la formulazione di Weber, è ancora alla base del riconoscimento dell’esercizio del potere in azienda, espressione della costruzione dello Stato interno dell’impresa (oggi purtroppo drammaticamente inesistente).
Ma tutto ciò va coniugato con modelli di organizzazione del lavoro attenti ai contenuti e processi motivazionali, all’equità organizzativa, alla crescita delle competenze degli operatori, al consenso degli stakeholder coinvolti. E come dimenticare che gli insegnamenti della fase economica e produttiva del taylor-fordismo e dello stesso keynesismo (nei decenni centrali del ‘900) sono oggi collassati nelle nuove regole del post-fordismo, dove precarietà e flessibilità estrema del lavoro, mancata responsabilità sociale dell’impresa, primato del monetarismo e finanziarizzazione spinta dell’economia, costituiscono il codice inverso delle politiche sociali ed economiche, a livello macro e micro, che hanno, invece, promosso sviluppo, redistribuzione sociale del reddito e nascita del welfare nei decenni centrali del XX secolo.
In certi casi sembra di andare addirittura indietro anziché avanti.
La cultura organizzativa è stata studiata e utilizzata dai manager per la condivisione e il coordinamento delle finalità organizzative ma in molti casi ha prodotto conformità di comportamenti e colonizzazione delle coscienze individuali, divenendo, di fatto, ideologia aziendale (Kunda, 2000).
Mentre l’innovazione tecnologica, di per sé positiva, ha creato spesso disoccupazione e non nuove competenze, cosi come essa necessita, nell’era della informatizzazione e digitalizzazione delle attività, di un ridisegno (delayering) delle gerarchie aziendali, spesso non più necessarie.
Cosi come la maggiore attenzione all’ambiente ha determinato, in molti casi, più sterile isomorfismo organizzativo (Meyer e Rowan, 1977), con l’emergere dei cosiddetti miti razionali, che corrispondenza dell’azione organizzativa alle reali esigenze dei contesti in crescita diversificati e a volte turbolenti (isomorfismo istituzionale).
La stessa globalizzazione della produzione, pur avendo fatto crescere economicamente molte aree del mondo, ha creato ulteriori squilibri anche nei paesi avanzati in affanno nella competizione con i paesi in via di sviluppo (Pvs), in quanto appesantiti dal carico sociale dei sistemi di welfare ovunque ridimensionati.
Senza dimenticare che in un’ottica neo-coloniale ci sono paesi sottosviluppati che forniscono solo le materie prime senza alcun beneficio né sociale e tantomeno economico di ritorno.
Come sempre il presente (e il futuro) delle organizzazioni si costruisce sul passato, perché il principio della razionalità limitata che ha sostituito quello della razionalità assoluta aumenta, di fatto, la possibile razionalità nelle decisioni manageriali, attraverso l’incremento delle informazioni, le migliori competenze dei decisionmaker e l’efficienza strutturale dei processi decisionali (a partire dall’expertise delle funzioni consultive degli organi di staff e fino alla tempestiva esecutività delle decisioni da parte del nucleo operativo). Cosi come, per il funzionamento delle organizzazioni, le decisioni critiche o esplorative presuppongono i programmi ossia l’esistenza di decisioni di routine.
Nel lungo percorso storico dell’evoluzione delle specie organizzative, il cambiamento ha prodotto nuove e più funzionali architetture strutturali (rete, filiere e organizzazioni a matrice), più avanzati comportamenti organizzativi (partecipazione, relazioni umane, motivazioni, competenze e decisioni), strategie aziendali più coerenti con le caratteristiche dell’ambiente (dall’apprendimento per tentativi ed errori all’azione manageriale fino alle relazioni collaborative tra imprese).
In definitiva una moderna organizzazione deve essere, secondo l’indicazione, sempre valida, di James Thompson (1988), una macchina e all’occorrenza un organismo, viaggiare, quindi, a due velocità, cambiamenti lenti e progressivi nel nucleo tecnologico e flessibilità operativa nelle funzioni esterne (marketing, ricerca & sviluppo e relazioni con il pubblico). Coniugare il cambiamento con la stabilità, la semplicità con le regole della nuova complessità, rendere compatibile ordine e disordine, ortodossia della gestione manageriale e nuova espressività del management non convenzionale (vedi gli studi sul Critical Management), considerando che nonostante i diffusi processi di individualizzazione sociale abbiamo sempre più bisogno delle organizzazioni, della loro capacità di superare i limiti individuali e ridurre la complessità ambientale, cosi come della persistente attrattiva o aspirazione, sempre valide, che diventino luoghi di crescita dei soggetti e strumenti efficaci per risolvere le crescenti e complesse contingenze ambientali (Drucker, 2003).