La visione tradizionale di soggetto considera l’uomo logicamente indipendente dagli eventi di cui è protagonista.
Una visione teatrale della soggettività concepisce l’io come laboratorio di ricerca e sperimentazione continua, di dialogo fra istanze diverse e conflittuali, tra ruoli e pratiche contrastanti.

Un io insomma che, lungi dal potersi porre come atomo logico a fondamento della comunità, presuppone la comunità stessa a proprio fondamento perché è solo nella vita comunitaria che vengono appresi quei ruoli e quelle pratiche che lo costituiscono. Non si tratta più di rispettare i confini di un soggetto indipendentemente costituito ma di collaborare con risorse comuni all’operazione progressiva di costruzione di questo soggetto. Nessuno è umano per inerzia; occorre lavorare e lottare per diventare quel che siamo, ossia per renderci degni dell’appellativo che ci è stato generosamente conferito, per mantenere la promessa legata a questo privilegio. Per ciascuno, sviluppare la sua umanità e quella del suo prossimo non è una banalità ma un dovere.

La visione tradizionale promuove la tolleranza della diversità garantendo a tutti alcuni diritti fondamentali. Si tratta di un pensiero infantile che si basa su una nozione puramente potenziale e vuota dell’individuo inteso in senso letterale, cioè come in-dividuo, atomo semplice e privo di spessore antropologico. In quest’ottica ciascun in-dividuo si trova casualmente a contatto con gli altri e nessuno di loro dipende, in quanto essere, dagli altri. Tutto quello che ogni individuo così inteso può fare è lasciare gli altri in pace.
Ciò che occorre per cambiare visione è pensare a una antropologia diversa in cui il soggetto umano non sia pura potenzialità ma sia invece ricchezza. E questa ricchezza consiste nella diversità.

 

 

Il soggetto, infatti, si distingue dall’oggetto perché non obbedisce a una rigorosa e unitaria coerenza. Ciò che avviene nel concetto di individuo e di identità è la riduzione del soggetto a un oggetto, e in questo senso appare ovvia la funzionalità di quest’ultimo al mantenimento dello status quo. Il soggetto inteso come oggetto è identificato in un ben determinato “carattere” del quale si sarà riusciti a convincermi che quel carattere “sono io” e dunque “io” sarò inchiodato a un comportamento facilmente prevedibile e controllabile, privo di libertà.

Il soggetto è invece teatro di un dialogo continuo, di un’incessante articolazione, di una sfida perpetuamente irrisolta tra molteplici punti di vista.

Il soggetto è dunque un agglomerato di punti di vista che vengono dall’esterno e cioè l’insieme delle tracce che hanno lasciato tutti coloro che abbiamo incontrato fino al momento attuale. Tracce nel senso di pratiche e atteggiamenti interiorizzati estrapolandole da situazioni diverse da quelle in cui originariamente hanno agito.
Il soggetto dunque è l’amalgama di queste tracce in quell’unione dialettica che è il nostro io.
Quindi non è l’individuo a fondare la comunità: essa non è un coacervo di creature fra loro indipendenti. E’ invece la comunità, la compresenza dei diversi, a fondare quello che con linguaggio miope e tirannico viene chiamato un in-dividuo.
Una comunità veramente umana è una pluralità di soggetti in cui ci si comunichi costantemente la propria diversità, ci si sfidi a una crescita continua, ci si inviti a un arricchimento senza limiti, ci si educhi costantemente e reciprocamente.
 
Il soggetto inteso come plurale, come molte voci, non è un interlocutore qualsiasi ma è il dialogo stesso, quell’interrogarsi e rispondersi nella consapevolezza che nessuna risposta sarà definitiva e ciononostante non si smette mai di cercarla con passione.

L’io è un teatro che richiama alla mente esperienze diverse.

In un teatro non si agitano suoni, colori e forme in libertà: si muovono personaggi, ciascuno portatore di una propria logica, ciascuno identico a se stesso. Nella maggior parte dei casi questi personaggi confliggono e entrano in crisi, si mettono reciprocamente in crisi. E crisi e conflitti costringono i personaggi a crescere, a cambiare sotto i nostri occhi. Ma si tratta di una crescita di quei personaggi; dopo tali processi siamo ancora in grado di riconoscerli, anzi, siamo in grado di capire perché abbiano dovuto cambiare in quel modo.
C’è insomma una pluralità in teatro, ma una pluralità di strutture ciascuna coerente in se stessa. Il che dovrebbe valere anche per l’io se è concepito come un teatro. Ciascuno dei personaggi del soggetto, di quel dialogo che è il soggetto, deve essere riconoscibile nella sua azione e provocare anche gli altri ad esserlo, a usarsi reciprocamente per produrre una diversità sempre più matura, più intensa e ricca. Insinuare che la storia potrebbe andare diversamente, che l’io potrebbe trasformarsi in un autentico teatro, un luogo dove personaggi diversi raccontano ciascuno la propria storia, dove ogni storia sarà sempre un punto di vista che mediante il dialogo si complica, si allarga, realizza le sue potenzialità.   

Del diverso abbiamo bisogno per essere quel che siamo. Il nostro io plurale e scisso, comunitario e dialogico si isterilirebbe in un oggettivo ritorno dell’identico se mancassero altre voci con cui confrontarsi, da cui imparare e perderebbe così la propria specificità.
Per evitare questa perdita di identità ossia di diversità, e trovare un’alternativa all’omologazione e al conflitto sociale, è necessario fare di noi stessi il tempio dell’altro, e quindi renderci ancor di più “noi” stessi. Occorre non accontentarsi di un’educazione che ci insegni una sola forma di vita, di un solo insieme di istruzioni, di un addestramento a un solo compito. Occorre che più di un modello comportamentale sia disponibile a ciascuno per poter essere praticato.