Le ricadute tecnologiche e sociali della storia raccontata nell’articolo introduttivo
tratto da un’intervista al Dr. Andrea Fiaschi curata da Roberto Maffei
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Premessa del curatore (Roberto Maffei) – Il testo che segue è la terza di una serie di interviste che, ai fini della pubblicazione, assumono come target le persone comuni1. I temi delle interviste sono vari, diversi di essi saranno legati alle tecnologie informatiche e potranno, a qualcuno, apparire troppo specialistici; allora perché destinare gli scritti alle persone comuni? Perché, da una parte, esse sono le utilizzatrici e, insieme, il bersaglio delle strategie che guidano la rivoluzione informatica; dall’altra parte, oggi le circostanze le stanno chiamando sulla scena della storia, stanno trasformando i cittadini in protagonisti.
Alle persone comuni solitamente non piace il ruolo di protagonista e tendono a preferire quello di spettatore; l’economista francese Jean Paul Fitoussi ha sottolineato questo aspetto e ha lanciato richiami al fatto che, non per scelta ma per effetto delle circostanze storiche, su molte grandi questioni siamo tutti ATTORI. Queste interviste sono, appunto, rivolte a tale riluttante protagonista e intendono fornirgli elementi per sviluppare consapevolezza su una serie di processi sociali i quali, nascosti al momento, potrebbero influire pesantemente sulle vite di tutti noi. Ciò anche al fine di metterlo in condizione (se vuole) di interpretare meglio il ruolo che, benché non intenzionalmente scelto, si trova a interpretare.
Una precisazione: Questa intervista è associata a un’introduzione, nella forma di un articolo del Dr. Fiaschi, che compare in questo stesso numero de Il Caos Management.
Domanda 1 – Cos’è la “Net neutrality”?
L’idea, più o meno utopistica, che qualsiasi “pacchetto” di dati (impulsi digitali) scambiato in rete su protocolli TCP/IP o similari sia sottoposto alla stessa qualità di trattamento.
Perché, ci sono dati che vengono scambiati secondo altri protocolli? Per esempio nel telefono analogico il suono si muove come un segnale continuo variato modulando l’ampiezza e la frequenza delle onde; tale suono è continuo, mentre un segnale digitale è continuamente intermittente. Un aspetto curioso nell’immaginario relativo al rapporto tra analogico e digitale è che, nel caso del telefono, è immediato collegare mentalmente l’apparecchiatura che usiamo con canali fisici (anche se usiamo un cordless, da qualche parte vicino c’è una centralina collegata fisicamente alla rete telefonica con un cavo). Nel caso delle comunicazioni basate su sistemi digitali (computer connessi a Internet, telefoni cellulari) non si percepisce la rete fisica che collega gli apparecchi; eppure essa c’è. Alla fine i “pacchetti” devono viaggiare su linee fisiche e questo ha conseguenze su come usiamo questi mezzi ed è un riferimento importante parlando di “net neutrality”.
Vediamo se ho capito: alla fine i “pacchetti di dati” viaggiano su canali fisici e, dato che è impossibile che ogni flusso di pacchetti abbia un proprio canale, affinché il sistema funzioni è necessario definire delle regole per la precedenza dei pacchetti stessi. È così? Sì.
Domanda 2 – Quando nasce, storicamente, la “Net neutrality”?
Nasce con la nascita delle reti, forse già con ARPANET; comunque sicuramente con Tim Berners Lee e il World Wide Web, primi Anni Novanta del Novecento. Prima che Internet diventasse un prodotto di massa, quando la rete si usava solo in ambiti militari o al CERN di Ginevra (Berners Lee era al CERN), essa serviva per garantire le comunicazioni anche in caso di attacco termonucleare; era concepita in modo che, anche nel caso che molti nodi fossero colpiti, i collegamenti rimanessero funzionali. In un tale caso, la “neutralità della rete” era una necessità strutturale, imprescindibile: se la rete funziona ovunque nello stesso modo, su tutti i nodi alla stessa maniera, è molto più facile che rimanga utilizzabile anche in caso di gravi danni.
Domanda 3 – Quando è che diventa un problema e perché diventa un problema?
Diventa un problema quando si sovrappongono le logiche commerciali. Già all’epoca delle “dot.com companies”, a metà degli Anni Novanta del Secolo scorso, si comincia a sentire il problema. Da un punto di vista filosofico possiamo dire che trattare tutti allo stesso modo non è nella natura del capitalismo; la stratificazione sociale e gli squilibri nei flussi di capitale vanno a riflettersi anche sulla rete. Semplificando: chi paga di più vuole di più, pretende un servizio migliore.
Ma coloro che pagano di più, cosa comprano? Una migliore qualità del servizio, cioè maggiore velocità nella connessione, la precedenza per i propri pacchetti (che il gestore della rete fisica può riconoscere) e maggiore integrità (minor numero di errori nella trasmissione). Inoltre una banda passante maggiore.
Perdona l’ignoranza: perché è importante avere molta banda passante? Per esempio, mettiamo che su un cavo possano passare 10 MegaBit al secondo; più banda vuol dire che, investendo sugli aggiornamenti della rete fisica, il gestore può farli diventare 20, 50 o 100. I router che smistano i pacchetti, ovviamente, sono programmati e hanno buffer di memoria per tenere i pacchetti in coda di invio; se l’algoritmo di questa programmazione è predisposto per riconoscere e per dare privilegi ai pacchetti che hanno una certa provenienza, tali dati viaggeranno in modo più veloce, più sicuro e con priorità. Per esempio un grande problema, su Internet, è la latenza, il cosiddetto PING. “Eseguire un PING” vuol dire verificare quanto tempo ci vuole perché un pacchetto di dati parta dal mio terminale e arrivi a destinazione (o viceversa). Se si vuole usufruire di servizi “ricchi” come videogame online o chirurgia telematica, ma anche video in altissima definizione (Ultra-HD), diventa fondamentale poter avere una banda molto larga con latenza molto bassa.
Cioè la latenza è un ritardo nella trasmissione dei dati? Sì perché, teoricamente, i pacchetti viaggiano alla velocità della luce; però questa è teoria in quanto i dati, spostandosi lungo il canale fisico, passano da router, da un’infrastruttura, e vengono inevitabilmente rallentati. Il ritardo è dell’ordine dei nanosecondi ma il fatto che sia più o meno elevato fa differenza, una differenza determinante per certi servizi.
Domanda 4 – Quanto è urgente il problema per le persone comuni?
Direi che è uno dei problemi più pressanti e più gravi ai quali siamo messi di fronte ma, per capire bene questo punto, dobbiamo integrare la questione della net-neutrality in se stessa (apparentemente una questione puramente tecnica) con quella della raccolta e del trattamento dei dati che gli utenti caricano online, che è una questione con vasti risvolti politici.
Parto da una premessa: non saprei dire se è stato deciso da qualcuno o se è avvenuto per uno spontaneo susseguirsi di eventi ma sta di fatto che, oggi, la nostra vita è online. Praticamente, passa tutto dalla rete perché ogni aspetto significativo della nostra vita è stato messo online. Questo ha portato sicuramente grossi vantaggi alle grandi compagnie, che hanno raccolto talmente tanti dati su di noi che si può dire conservino gran parte delle nostre vite nei loro database. Tramite il data mining (nome in gergo per le ricerche mirate su grandi masse di dati), è possibile anche estrarre informazioni sui nostri comportamenti futuri (nel senso di prevedere nostre tendenze di comportamento che hanno alte probabilità di manifestarsi anche in futuro).
Per esempio, a fini assicurativi: se il tuo profilo, come emerge dai tuoi dati online, non corrisponde a uno standard stabilito da qualche benchmark (una media istituita da qualcuno che ha o si prende il potere di farlo), le compagnie assicurative in possesso del tuo profilo possono rifiutarsi di assicurarti. Ad oggi, in Cina, siamo all’avanguardia nell’applicare alla massa concetti del genere2. Possiamo prendere anche un caso più semplice: Amazon “profila” così precisamente i propri utenti da conoscere sufficientemente bene le loro preferenze di acquisto e, quindi, da poter inviare loro proposte commerciali quasi prima che ad essi stessi venga in mente una certa necessità. Dunque Internet ha altamente avvantaggiato le aziende che operano secondo un’etica non solo capitalista ma estremamente liberista e globalista (su Internet non ci sono frontiere). In teoria la rete è del tutto democratica ma, in realtà, poi bisogna andare a vedere i rapporti di forza reali; alla fine, la “vera” Internet è uno specchio della società in carne ed ossa. Forse si verificherà quello che dicevano William Gibson3 ed alcuni scrittori di fantascienza: a un certo punto non riusciremo più a distinguere dove finisce la società reale e dove comincia il mondo virtuale; in particolare con applicazioni avanzate come la realtà aumentata (augmented reality, AR), la Internet of things (IOT) e l’Intelligenza Artificiale (AI),. Tali tecnologie sembrano destinate a pervadere sempre di più le nostre vite facendo di Internet il nostro quotidiano, che ci conosce meglio dei nostri stessi familiari.
Oltretutto, quando si dice “Internet”, spesso si intendono proprio le grandi compagnie che governano il mondo digitale (Google, Amazon, Microsoft); con l’aggiunta di un altro colosso, che non è una company ma un’agenzia statale USA, cioè la NSA4. La missione di quest’ultima è di controllare (o almeno sforzarsi di farlo) tutto quello che succede nel mondo e, in particolare, in rete.
In effetti anch’io ho avuto l’impressione che, utilizzando gli apparentemente gratuiti servizi online, accettando quelle clausole di servizio che non leggiamo mai, in realtà regaliamo informazioni su di noi ai gestori che, poi, ne fanno quello che vogliono. È così? È così. Secondo un detto diffuso: quando il servizio è gratis, allora il prodotto sei tu. Ovviamente questo non sorprende perché, in un sistema capitalista a carattere liberistico avanzato, il “gratis” non esiste.
Domanda 5 – Cosa implica per i comuni cittadini (in che modo li coinvolge)?
Rimanendo sulla gestione dei nostri dati disponibili online, i “grandi” di Internet ricevono trattamenti super-privilegiati sia da parte delle compagnie telefoniche che da parte delle agenzie governative. Esiste una sproporzione di potere e di informazione tra questi soggetti e i comuni cittadini che non si era mai vista prima.
Proviamo a concretizzare meglio i possibili effetti di questa situazione perché, finché i comuni cittadini non percepiscono direttamente un qualche disagio, un qualche effetto negativo di questo andamento delle cose, nessuna correzione sarà possibile. C’è qualche esempio? Al momento, per l’utente finale ci sono più vantaggi che svantaggi. Per esempio, se prendiamo Google News5, troviamo che Google propone le notizie che rientrano nella visione del mondo dell’utente, che gli possono piacere. Basta un tocco e troviamo le notizie prefiltrate secondo le nostre credenze; però prefiltrate da un altro che, in realtà, ha i propri obiettivi. Comunque l’utente ha una percezione di vantaggio da questi “consigli per gli acquisti” personalizzati. In prospettiva, se le reti arrivano vicine alla saturazione, i privilegi conferiti ai “grandi” (la precedenza dei pacchetti, la maggiore qualità del servizio) possono ridurre significativamente la qualità di servizi ormai fondamentali (la posta elettronica, per esempio) per i comuni cittadini.
Ma il vantaggio si percepisce solo se si dimentica una cosa: che c’è qualcuno che interpreta le informazioni per me. Questo mi pare inquietante; non pare anche a te? Beh, sono processi gestiti da intelligenze artificiali, è una prospettiva diversa dal concentrarsi su di un determinato individuo. Nel data mining si fanno ricerche mirate al reperimento di informazioni specifiche su temi specifici anche per anticipare trend futuri su larga scala. Nel trattamento dei cosiddetti big data con apparati basati sull’intelligenza artificiale vengono trattate automaticamente grandi masse di dati, non si punta al singolo individuo. Ciò non toglie che, se si vuole screditare qualcuno (per esempio una persona scomoda dal punto di vista politico) queste tecnologie consentono di rilevare i suoi gusti, i suoi orientamenti e, se ce li ha, i suoi scheletri nell’armadio.
Ma la condizione è che quegli eventuali “scheletri” li abbia messi online? Spesso capita; facciamo un esempio. È notizia di qualche giorno fa che il cartello di Sinaloa, una delle organizzazioni messicane più potenti nel campo dello spaccio di stupefacenti, usava un sistema di comunicazioni online criptato e molto difficile da decifrare; il fornitore di questo sistema è stato arrestato. Questo è un caso chiaro perché era in atto una patente violazione della legge e si è proceduto con l’arresto. Ma ci sono situazioni molto meno definite, aree grigie tra legale e illegale; per esempio in Siria, in Iran, in Cina, dove le libertà fondamentali sono incerte e si può parlare di una maggiore “oppressione” in rete, di una molto maggiore intrusività dei poteri centrali rispetto a quella esistente nelle democrazie avanzate. In queste ultime si usa più il sistema della persuasione occulta, per così dire; però se, a un certo punto, qualcuno nuoce a qualcun altro, l’uso delle tecnologie per attacchi personali è possibile. In sé tutto questo non è una novità; va tenuto presente che il bullismo e il mobbing non sono eventi associati alle tecnologie ma le precedono di molto. Tuttavia le tecnologie offrono, anche in questi ambiti, potenzialità inaudite rispetto al passato.
Sto cercando di capire gli effettivi (e nuovi) pericoli di queste potenzialità tecnologiche e me ne viene in mente un altro: le informazioni ognuno dovrebbe sceglierle da se stesso anche per verificare le proprie idee e, eventualmente, modificarle; ma se i sistemi dai quali dipendiamo più o meno tutti ci pre-selezionano le informazioni in base ai presunti nostri gusti, il risultato non sono l’appiattimento generalizzato e il conformismo? Vedo un problema di democrazia perché la democrazia è basata sul controllo a posteriori: ti sanziono se violi le regole ma lo devo anche dimostrare, che le hai violate. Non c’è il rischio, se qualcuno ha il potere di scegliere prima e al posto mio, che si instauri, di fatto, un sistema autoritario il quale, oltretutto, è gestito da privati, nemmeno da governi nazionali? In effetti il problema è proprio il controllo, e da due punti di vista: da un lato, una maggiore omogeneità consente di fare previsioni più precise sulle tendenze di comportamento delle popolazioni. Per esempio, nelle recenti tornate elettorali a livello mondiale, le previsioni sui risultati sono state più precise che in passato, e non si usavano ancora i big data in modo massiccio. Dall’altro lato, l’omogeneità è più facile da controllare della diversità che pure, almeno finora, è stata il fulcro dei sistemi democratici. Più è ampio il bacino dei dati e più ridotto è lo scarto fra i comportamenti attesi, oppure indotti, e i comportamenti effettivamente agiti a livello sociale.
Questo, in sé, non è direttamente legato alla net neutrality ma indirettamente sì; la differenziazione nella QoS (quality of service) in base alle tariffe crea asimmetrie che si prestano ad usi distorti di molti tipi. La net neutrality, invece, garantisce la parità di trattamento (maggiore equilibrio nella diffusione di informazioni, maggiore stabilità nella trasmissione dei dati) anche alle reti peer-to-peer6, che seguono un po’ l’idea originale di Internet, cioè che ogni terminale potrebbe diventare un server garantendo la democraticità della rete. Al contrario, oggi, dopo il trionfo dell’informatica diffusa, con Internet si sta tornando ai vecchi sistemi basati su mainframe, che sono vantaggiosi perché, nel complesso, consumano meno energia, però sono meno democratici. Per inciso, ogni tanto ce lo dimentichiamo ma i devices elettronici consumano energia elettrica; a livello individuale i consumi appaiono molto bassi ma, se gli utenti sono miliardi, diventano enormi. Per andare ancora più sul concreto, si tenga presente che un computer “serio”, con una potenza di calcolo che si presti ad usi professionali avanzati o istituzionali di una certa importanza, è tipicamente collocato non lontano da una centrale elettrica da almeno 500 Megawatt. Efficientare i consumi energetici diventa una necessità.
Vediamo se ho capito: ciò che connette indissolubilmente la net-neutrality in senso stretto con la raccolta dei dati online è l’attuale esagerata asimmetria fra le possibilità dei fornitori (che la vogliono mantenere, questa asimmetria) e quelle dell’utente? È così, effettivamente.
Domanda 6 – La normativa sulla “Net neutrality” (Obama la impone, Trump la elimina): Puoi dire quali sono la tua opinione e la tua posizione in merito?
Per questo devo approfondire brevemente il discorso sulle reti peer-to-peer. Queste si sono sviluppate quando molti PC erano piuttosto potenti e molto diffusi, rispetto ai sistemi basati su mainframe (sui server centrali); si parlava di “calcolo distribuito” ed erano stati ideati interi progetti basati su questo paradigma. Tale configurazione ha consentito a molti di cominciare a distribuire anche prodotti (trasmissibili online, come filmati e musica) protetti dal diritto d’autore (per esempio, il famigerato Napster). Si sono prodotti eccessi che, in alcuni casi, hanno portato anche al fallimento di alcune case discografiche; c’è stata una diffusione veramente capillare grazie a software come Emule o Torrent. Il controllo, di fatto, non era più centralizzato; da un punto di vista filosofico si può dire che si stavano diffondendo comportamenti anti-capitalisti (su certi siti si potevano vedere bandiere anarchiche o il jolly roger dei pirati). Ora, finché si tratta di incentivare la vendita di macchine [“pezzi di silicio” è l’espressione che usa l’intervistato], il capitalismo può lasciar correre; però se si tratta di organizzare una vita basata sul digitale, il controllo diventa un fattore cruciale. Oggi il controllo è sostanzialmente tornato in mano agli ISP (Internet Service Providers, i fornitori di servizi Internet) e le leggi contrarie alla net-neutrality puntano all’eliminazione delle reti peer-to-peer; peccato perché questo toglie uno spazio di libertà agli utenti.
Dunque tu sei favorevole, diciamo così, al vecchio sistema, quello del calcolo distribuito con il suo accompagnamento di pirateria digitale su opere protette dal copyright? No, assolutamente no; chiarisco il mio pensiero. Usciamo dalla dicotomia pro/contro e cerchiamo di capire bene il problema. Fare il “pirata di canzonette” può essere (o essere stato) anche divertente per qualche ragazzino e/o smanettone; però può avere conseguenze gravi come quelle di mettere delle persone sul lastrico. La visione romantica del file-sharing non la condivido e non ho alcuna nostalgia per quei tempi. Dico solo che una quindicina di anni fa (preistoria, dati i ritmi dell’evoluzione tecnologica) gli utenti avevano maggiore libertà; oggi, con lo streaming e con il cloud, dominano logiche oligopoliste. Se mettiamo la questione in termini dicotomici, non so dire se era meglio prima o se è meglio oggi; trovo difetti gravi in entrambi i casi e penso che ci vorrebbe una via “altra”, nuova, che però non è seguita dalla massa, almeno al momento.
Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che il fenomeno che stiamo osservando a livello sociale non è nuovo nella Storia; intendo dire il fenomeno di un’innovazione tecnologica che fa leva sulla credulità della gente per ottenere obiettivi economici o politici. Dal Dottor Goebbels (la radio) a Donald Trump (Twitter), passando per i “persuasori occulti” (la televisione)7, l’influenzamento degli orientamenti delle masse è un fenomeno antico. Un aspetto interessante è proprio il fatto che la resistenza delle masse alle influenze (soprattutto quelle negative) appare molto scarsa. La mia idea è che non si possa fare una divisione rigida tra “cattivi” (le grandi aziende dei servizi informatici) e “buoni” (gli utenti, sempre e solo povere vittime dei cattivi); alla fine, la gente sceglie. Già il solo scegliere di usare un sistema o sottoscrivere un abbonamento a un servizio online è un atto politico; chiudersi in casa a guardare ore e ore di serie TV su Netflix (con la possibilità di recuperare tutte le puntate precedenti eventualmente perse) ha importanti componenti di scelta, quasi come nel caso dell’uso delle droghe.
Però, in definitiva, una persona comune che legge questa intervista si può chiedere: ma mi devo allarmare? E perché? Finché mi posso godere i servizi, che mi importa? Mettiamo pure da parte l’allarme; tuttavia, secondo me, stiamo parlando di qualcosa che ci riguarda, che ci tocca da vicino e sulla quale è meglio essere informati che non esserlo.
Ma ci può danneggiare? Secondo me sì, ci può danneggiare. Usare strumenti senza capire niente di come funzionano e di quali conseguenze possono avere è una costante nella storia dell’umanità ma è anche qualcosa che andrebbe evitato; non si tratta di diventare tutti tecnici informatici ma di acquisire almeno quelle conoscenze di base che ti consentono di comprendere i vantaggi evitando gli svantaggi. Facciamo il paragone con le armi da fuoco: una pistola può servire a commettere un crimine o a salvarsi la vita ma, perché produca del bene e non del male, va saputa usare. E non è solo una questione tecnica (allenarsi al tirassegno); per possederla senza mettere in pericolo impropriamente se stessi e gli altri bisognerebbe essere addestrati, almeno a un livello base, a conoscere e valutare le circostanze di utilizzo e le persone con le quali si potrebbe avere a che fare.
Qualsiasi strumento è ambivalente, la rete e le tecnologie digitali non fanno eccezione. Per non mettere a rischio se stessi e gli altri (cosa che capita con una certa frequenza, ce lo ricorda continuamente la cronaca) bisogna avere un’idea di come funziona il mercato dei servizi online, farsi un’opinione fondata su questioni come la net-neutrality, imparare a difendersi dai pericoli connaturati alla rete (virus, attacchi informatici) e sviluppare consapevolezza sulle scelte da fare nell’immissione online delle informazioni che riguardano ciascuno di noi e chi gli è vicino. Capisco che è un’idea destinata all’impopolarità, dato che associa ciò che è percepito come puro divertimento a del serio lavoro di informazione e formazione. Ma l’alternativa qual è? L’alternativa è continuare a fare finta che sia tutto e solo un divertimento mentre si tratta di ben altro. Possiamo anche far finta di vivere nel Paese dei Balocchi (molti servizi si prestano ad essere interpretati in questo modo); dovremmo solo ricordarci che dal Paese dei Balocchi si esce trasformati in asini destinati al macello.
In definitiva, la rete è uno specchio della società; come fa ad essere veramente neutrale?
Domanda 7 – Cosa CONVIENE ai cittadini (alle “persone comuni”)?
Distinguiamo ciò che converrebbe alla gente da ciò che la gente vuole, chiede. Per quel che si capisce, oggi il cittadino vuole cose utili e divertenti sempre disponibili, di uso semplice ed a basso costo. Può anche averle, almeno entro certi limiti; tuttavia non possiamo evitare di chiederci quanto costa, a livello sociale, il soddisfare questa richiesta. Tutto sommato, anche la civiltà industriale, con altri tipi di prodotti, puntava a soddisfare una richiesta simile; i prezzi che stiamo ancora pagando sono l’inquinamento ambientale, il riscaldamento globale e altro ancora. Oggi, con l’avvento della società dei servizi, con l’affermarsi del “terziario avanzato” e con l’Industria 4.0 e le stampanti 3D, abbiamo anche, per esempio, la delocalizzazione di massa e la Gig-economy.
GIG-economy? E cosa c’entra con la net-neutrality? La GIG-economy sono i lavoretti8, per esempio le consegne a domicilio gestite attraverso apps per cellulari; uno sfruttamento che si avvale, tra l’altro, delle difficoltà della legislazione e del sistema-giustizia a stare dietro all’innovazione tecnologica. E c’entra moltissimo con la net-neutrality perché passa tutto dallo smartphone, il quale ha bisogno di essere collegato: ultimamente si parla di 5G (quinta generazione) per i collegamenti, di un incredibile flusso continuo di dati. Chi controlla questo flusso?
Vediamo se ho capito: un provider potrebbe avvantaggiare un concorrente rispetto a un altro? E magari nemmeno con accordi sottobanco ma solo differenziando le tariffe? E’ evidente. Ci sono casi giudiziari noti su questo. Il potere contrattuale dei “grandi di Internet” è enorme, e le scappatoie sono, in sostanza, difficilissime da contrastare. Per esempio i nostri dati, che noi spensieratamente regaliamo a Facebook e agli altri social networks, diventano (legalmente, la cosa è segnalata nelle informative che noi accettiamo tipicamente senza leggere) di proprietà di Akamai o di altri grandi gestori insediati altrove. Se avviene qualche illecito, un giudice può fare poco, a posteriori, perché la giurisdizione è un’altra. Le tecnologie digitali sono globalizzate, i sistemi giudiziari no.
Sul mercato ci sono già offerte commerciali ispirate allo squilibrio, invece che alla net neutrality: se vuoi una data qualità del servizio, per esempio per guardarti filmati in Ultra-HD sullo smartphone, allora paghi di più. Per inciso va notato che questo stato di cose va a strozzare le start-up (l’andamento è documentato). Questo, con la Gig economy, è un altro mito delle società digitali, che spingono i giovani, data la carenza di lavori di altro tipo, a farsi la propria aziendina. A parte il fatto che il tasso di successo delle start-up è bassissimo, la politica del favorire i grandi strozza i piccoli il cui successo, nella maggior parte dei casi, alla fine consiste nel farsi acquisire da uno dei grandi.
Dunque, alla fine, a livello sociale sembrerebbe più conveniente la neutralità della rete, no? Sembrerebbe, per esempio perché una maggiore pluralità è più consona a sistemi politici pienamente democratici. Poi però la gente sceglie, e le scelte divergono: qualcuno si chiede perché non dovrebbe avere privilegi di qualità del servizio se può pagare di più; una società di mercato ha le sue logiche. Teniamo presente anche che, da quando Internet si è spostata dal testuale al visuale (ormai si parla di “visual computing”), i volumi dei dati scambiati sono aumentati a dismisura. Dunque: che vuol dire “Internet gratis”, come propugna l’Europa? Per quali servizi? Forse per mandare documenti che corrispondono a quantità di dati limitate, ma non per altro. E di nuovo le persone scelgono: scelgono cosa guardare e a che livello di flusso di dati. Non solo: se si va a vedere bene, non esistono connessioni Internet completamente libere. Anche i “free-wifi” che troviamo in molti esercizi pubblici, ormai tutti o quasi, hanno sistemi per controllare gli accessi, e il filtraggio è compiuto da qualcuno (amministratori) in base a criteri di sua scelta.
In sostanza, se non ho capito male, tu dici che la neutralità della rete è ed è sempre stata un’utopia perché un qualche filtraggio degli accessi c’è sempre e comunque. Allora mi chiedo, e ti chiedo: dove sta la presunta differenza radicale fra l’approccio di Obama e quello di Trump? Non sono un esperto di politica ma, in estrema sintesi, direi questo: Obama si potrebbe considerare come incline a idee di tipo social-democratico (sia pure sempre all’interno di una concezione capitalistica americana, quindi profondamente liberista) mentre Trump si potrebbe considerare come un alfiere del capitalismo svincolato da qualsiasi limitazione, del liberismo estremo, della deregolamentazione selvaggia. Forse la differenza si capisce meglio se facciamo riferimento alle idee di tipo economico che traspaiono dalle loro prese di posizione. Nemmeno di economia sono un esperto ma, chiaramente, Obama puntava molto sulla digitalizzazione, manteneva legami forti con le grandi aziende informatiche (anche amicizie personali, a quanto pare). L’assunto sembrava essere che, con il globalismo e il terziario avanzato, si dovesse privilegiare la società della conoscenza, piuttosto che quella della produzione; anche perché la produzione si può delocalizzare dove costa meno. Non credo sia un caso che sia stato proprio Obama a dare impulso allo sviluppo dei droni per usi militari (non più boots on ground, tanto per capirsi, perché dal Deserto del Nevada si può colpire il nemico in qualunque parte del mondo9). In questo contesto, la net neutrality è una componente di liberalismo che il sistema si può permettere e che può essergli utile.
Trump appare il contrario, cioè orientato a privilegiare l’industria pesante, la produzione di stampo tradizionale (l’acciaio, il carbone); infatti una consistente parte dei suoi voti vengono da operai (che sono sempre meno ma non sono ancora scomparsi). Il suo protezionismo in economia è coerente con questa visione mentre, per quanto riguarda la net neutrality, non ho idea se abbia fatto dei calcoli specifici in merito, se abbia disegnato strategie; però certo è che il bloccarla, o almeno l’ostacolarla, rientra nelle sue logiche, nel suo modo di pensare (considerato da molti esperti piuttosto arretrato), nel privilegiare chi può spendere di più. Anche nel campo della proprietà intellettuale Trump è molto più protezionista ed è riuscito ad infrangere la prassi del dover cedere i progetti al governo cinese per i prodotti realizzati nella Republica Popolare. Su questo argomento l’amministrazione precedente ha sempre “chiuso ben più di un occhio” e i danni economici causati alle industrie occidentali sono stati tutt’altro che irrisori. Luci ed ombre si alternano continuamente, dunque.
E, per quanto riguarda il discorso del “cosa conviene ai cittadini comuni”, possiamo aggiungere qualcosa a quanto hai detto poco fa, cioè che dipende dal punto di vista che si assume? Questo è sicuramente vero se consideriamo i cittadini singolarmente, come individui; ma se li consideriamo come un’entità collettiva, con interessi non solo individuali ma anche comuni, forse le cose cambiano, no? Dal punto di vista della democrazia si può considerare conveniente l’opzione della net-neutrality perché è più egualitaria, garantisce la parità di diritti nell’accesso alla rete e, secondo me, favorisce lo sviluppo di una società della conoscenza nella quale le conoscenze si scambiano davvero. Certo che, come torno a ripetere, se poi domina l’impulso emotivo del guardarsi lo sport in Full-HD sul cellulare, bisogna tenere di conto anche le necessità ed il livello di educazione dei cittadini, cercando di orientare in senso sostenibile le loro scelte.
Ecco, a proposito di questa sostenibilità: poiché, alla fine, i dati, tantissimi dati, viaggiano su reti fisiche il cui potenziamento non può stare al passo con la velocità delle innovazioni nei servizi digitali, non si pone un problema di saturazione di queste reti fisiche? Riducendo la questione ai suoi termini essenziali, chiunque disponga di un router collegato alla rete è “amministratore” di un servizio Internet e le sue scelte incidono sulla funzionalità della rete stessa. Però, naturalmente, è diverso se uno amministra la rete locale del suo ufficio o amministra milioni di terminali sparsi per il mondo. Alla fine c’è sempre un cavo perché è vero che ci sono anche i satelliti, ma hanno bande passanti bassissime. Ci sono progetti nuovi come, per esempio, l’uso di grandi droni per farli funzionare come ripetitori dei segnali e, per certi versi, oggi siamo in una situazione interessante: c’è una corsa in parallelo fra i costruttori di hardware, che lo rende sempre più potente ed avido di connessioni, e chi cura le reti fisiche, che cerca di mantenere il passo. Un collo di bottiglia si crea sempre nel grande flusso dei dati; ciò che conta è chi investe e quanto investe, ed investono gli Stati come investono i privati. Questi ultimi, oggi, sembra stiano investendo molto sul wireless (non solo i grandi ISP); solo che il moltiplicarsi delle antenne e l’aumento del flusso dei dati attraverso di esse crea una specie di selva sempre più complessa da amministrare. Anche la FCC (Federal Communication Committee, l’ente americano che amministra le frequenze) aggiorna continuamente le sue indicazioni variando le frequenze utilizzabili da parte degli utenti. E la IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers, associazione professionale anch’essa americana) sforna in continuazione protocolli ed aggiornamenti con annessi su annessi su annessi.
Ma c’è modo di capire a che punto siamo? Questa corsa in parallelo fra una fame crescente di connessioni e velocità e le tecnologie di rete che la dovrebbero soddisfare, si può capire se e dove andrà a finire? Su questo potremmo avere delle sorprese; per esempio, a livello delle tecnologie domina ancora il silicio mentre un giorno potremmo passare al grafene. La capacità creativa e innovativa, unita alla ricerca di sempre nuove opportunità da parte dei grandi capitali, perennemente a caccia di profitto, non sappiamo dove ci porterà. Ci possiamo chiedere: ma il PIL delle nazioni, riuscirà a crescere sempre? Certo è che viviamo in un mondo finito e dotato di risorse vaste ma limitate; come sarà gestita questa situazione?
Credo che qui siamo sul punto fondamentale. La contraddizione fra il modo di produzione capitalista tradizionale, basato sulla “spinta in avanti” illimitata e sfrenata, e un pianeta che ha dimensioni e risorse finite, a un certo si porrà (secondo me si sta già ponendo da diversi decenni) come problema da affrontare direttamente e il punto critico sarà: chi decide sulla soluzione? Ora pare che decidano le grandi compagnie dell’informatica, di certo non decidono le persone comuni, per quanto queste scelte riguardino il loro futuro; mi pare che in pericolo sia la democrazia, è così? Sembrerebbe di sì, ma come al solito il cittadino non è vittima ma parte integrante di un sistema. Per quanto piccole, le sue scelte hanno sempre un peso.
Domanda 8 – Un tuo commento finale, grazie.
Consideriamo che nessuno, in realtà, è obbligato a cambiare cellulare ogni anno e a guardare immagini e pagine web e trasmissioni in Full-HD sullo smartphone in continuazione: non lo impone la legge, non lo prescrive il medico. Prendiamo coscienza del fatto che le tecnologie ci offrono grandi opportunità ma che questo è diverso dal diventarne succubi o vittime. Anche nella vita sociale non c’è neutralità; c’è un altro detto che recita: “ogni dollaro che spendi è un voto”, cioè è un atto politico, anche se non sembra. Bisognerebbe starci attenti.
- Il curatore di questo lavoro si è interrogato, insieme all’intervistato Dottor Fiaschi, sull’uso di questa espressione, che potrebbe sembrare svalutativa rispetto alle persone alle quali ci si riferisce o che potrebbe essere loro sgradita; si è pensato anche di usare il corrispondente inglese ordinary people, forse più gradevole, almeno come suono. Alla fine il curatore ha optato per mantenere l’espressione “persone comuni” con la precisazione che non solo essa non ha niente di detrattivo ma, anzi, va intesa come un forte apprezzamento nel senso che, in definitiva, la Storia la fanno le persone comuni, anche se può non sembrare e se non c’è lo spazio per approfondire qui la questione.
- In proposito si veda, a titolo di esempio, questo servizio video-giornalistico (in lingua inglese) disponibile su Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=eViswN602_k .
- L’”allucinazione consensuale” del Cyberspazio funge da tema centrale del capolavoro della fantascienza “Neuromancer”, di William Gibson.
- La National Security Agency (NSA, Agenzia per la Sicurezza Nazionale), è l’organismo governativo degli Stati Uniti d’America che si occupa della sicurezza nazionale e, a questo fine, di sorveglianza globale. Suo il sistema ECHELON.
- In sintesi è l’equivalente per lo smartphone del giornale quotidiano, un’App integrata in Android.
- Letteralmente “da pari a pari”; per ulteriori dettagli si veda la risposta alla domanda seguente (la n. 6).
- “I persuasori occulti” è un libro del 1957 scritto dal professore universitario statunitense Vance Packard; vi si evidenziava l’influenza, che operava nascostamente, dei messaggi pubblicitari sui comportamenti sociali, in particolare i comportamenti di acquisto. Edizione originale: Vance Packard, 1959, The hidden persuaders, Pocket Books. In italiano c’è un’edizione nei Tascabili Einaudi del 2005.
- “Gig” (pronunciato “ghig”) è un termine slang anglosassone che significa, appunto, “lavoretto”.
- “Boots on ground”, letteralmente “scarponi sul terreno”, è la frase che indica l’impiego diretto di truppe per svolgere operazioni militari nello scenario prescelto. La tecnologia può essere usata (ancora non si sa bene fino a che punto e con quale grado di successo) per evitare di mandare soldati laddove, appunto, si possono mandare macchine. Un’idea realistica delle potenzialità (e anche dei limiti) dell’uso delle tecnologie per scopi militari (lotta al terrorismo internazionale, nel caso specifico) la si può trovare nel film “Eye in the sky” (letteralmente “L’occhio nel cielo”, Gran Bretagna 2015, prodotto da eOne Films, Moonlighting Films, Entertainment One Features e Raindog Films, diretto da Gavin Hood), distribuito in Italia con il titolo “Il diritto di uccidere”..