Nacqui in anni di guerra. Stanza interna alla casa, senza finestre, con due porte.
Una sulla vasta anticucina e l’altra sul corridoio di fronte all”entrata.
Grande, robusto legno di colore vivido i battenti della porta d’accesso alla grande casa.
Quando venni fuori dal ventre materno il silenzio della mia gola spaventò mia madre che gridò “la bambina non piange.” Certo, sì, è vero non piangevo, avevo dovuto lottare contro un cordone che mi impediva di svignarmela da quel luogo divenuto claustrofobico.
Così presi un sacco di botte neanche un attimo dopo esser venuta alla luce. Questo avrebbe dovuto farmi capire che razza di vita stavo per affrontare.
Per prima cosa ci fu la religione a farmi prendere nota delle stranezze del mondo. Caspita se non era strampalata l’esistenza. Fu subito chiaro per me che il mio cervello, forse a causa della mancanza di ossigeno dei primi attimi di vita, non sarebbe mai stato in grado di assoggettarsi all’idea miracolosa dell’esistenza di Dio. Senza una prova? Un minimo indizio? Un evanescente segnale?
C’era la natura, sì tutta quella bellezza di fiori alberi cieli e mari. Vedevo animali assassinati, abbandonati, torturati. Agnelli macellati, conigli scuoiati, maiali urlanti di terrore portati a morte.
E le bufere di vento che sterminavano piccole vite incolpevoli.
Alla scuola andai senza alcun entusiasmo. Un vialone e un giardinetto in cui a primavera apparivano tra fili d’erba esili timidi viole.
La scuola fu per me “campo di battaglia”. Scoprivo l’odiosità dell’autoritarismo e la faziosità del paternalismo. Prendevo le difese dei più deboli come fossi io una forza eroica. Da sola ho sempre viaggiato con sicurezza e ardore. La solitudine è stata sempre mio mentore e conforto.
Così ho incontrato le mie giornate da bambina esiliata in un giardino.
La mia prima famiglia fu quella dei nonni e degli zii.
Nonno Guglielmo e Nonna Filomena, Zio Giacomo che sposò Zia Tina e partì per l’Argentina a far fortuna, inutile viaggio: tornò più povero di prima. Zio Totonno, “l’ebreo errante, più vicino alle origini ebraiche di quanto questi ragazzi “Crudele”, ormai marrani, potessero immaginare.
Zia Nice, normanna negli occhi turchini, pallide efelidi e sorrisi nordici. Zio Cucuccio, temerario studente di veterinaria che con gli animali non aveva nulla a che vedere. Infine, Zia AnnaMaria, poco avvezza ai sacrifici necessari in quei tempi magri, vogliosa di trovar un buon marito.
C’erano poi Zio Alfonsino, già sposato e padre dei miei tre cugini e Zio Peppino, imprestato a vita in comodato d’uso a parenti più benestanti, senza prole.
La mia prima famiglia mi ha nutrita, curata, dato un tetto sulla testa e un giardino sotto i piedi, mia stanza dei giochi, regno di solitudine. Ricordi chiusi in anguste scatole sigillate.
La mia seconda famiglia è venuta a sradicare radici infisse in terre deserte, abitate da Fate Morgane con visioni di azzurri orizzonti lontani.
Erano i miei genitori e le mie sorelle, nuove città case scuole. Sempre in bilico tra due sentimenti: realtà e fantasia, sempre più sola, quasi invisibile, una Fata Morgana senza miraggi.
Regole che ordinavano giornate ed eventi, per me dimenticanza di vita. Adolescente ingrata, senza miti da adorare, senza luoghi di ristoro. Novella rompiscatole, imbronciata e nevrotica.
La mia terza famiglia l’ho quasi pretesa. Ho cercato di conquistarla come si fa in battaglia.
Per appropriarmi di un bottino che ritenevo meritato.
La famiglia di Alfredo, i suoi genitori e i suoi fratelli. Ma non avevo messo in conto la necessità della guerra di lasciare vittime sul campo. E lì che ho perso: sono stata lasciata sola a piangere i miei morti, per loro meritavo l’oblio.
La mia quarta famiglia mi ha spalancato le braccia, una casa antica, un giardino pensile, un vicolo e una città.
Era la famiglia di Laura e Alfredo. Era la mia casa, mio marito, gli amici, i suoni, le cene, i libri, le complicità e i sorrisi. Il fondo del mare, i venti e le onde. “Amico, la vita è l’arte dell’incontro”.
Poi la casa riportata alla luce poco per volta dalle rovine del dolore, della rabbia, dell’ingiustizia: Alfredo lontano da tutto, dal mondo, dal suo mondo. Alfredo e tre cani, nostri compagni di viaggio.
Ed ecco la quinta famiglia: Laura con Laura, Laura insieme alla sua anima in una solitudine a lei nota già dalla prima infanzia: sua complice, sua amica, suo conforto.
Lontani suoni, pensieri, rivincite, vittorie; una lista che è una sorta di ” bilancio incrociato”:
Nulla: guerra, strade, palazzi, giardini, fontane.
Nulla: affetti, amicizie, disillusioni, abilità, talenti. Paure e Coraggi.
Nulla: scoprire che tutto ha una data di scadenza.
L’abbandono di mio nonno e del paese, lasciati con dolore infantile e per questo ancora più tagliente.
La perdita dei miei genitori, della mia stessa carne, del mio stesso sangue da adulta e per questo un dolore più crudo.
Il prezzo pagato al desiderio di essere accettata e amata inutilmente.
La tenerezza per il mio “sposo” devastato dal male, l’orgoglio per la sua forza, l’ammirazione per il suo talento.
La consapevolezza che da tutte queste famiglie io abbia ricevuto qualcosa che mi ha formata, aiutata a diventare nel bene e nel male quella che sono: un vecchio, solitario animale selvatico.