Organizzazione mondiale del commercio  e ineludibilità di una riforma

 

 

I)- La WTO e l’ammissione della Repubblica Popolare Cinese

La World Trade Organization – WTO è stata istituita il 1 gennaio 1995, assumendo il ruolo precedentemente proprio del GATT  (General Agreement on Tariffs and Trade). All’Organizzazione intergovernativa, con sede a Ginevra, aderiscono 164 Paesi, Italia compresa.

Obiettivo:  l‘abolizione o la riduzione delle  barriere tariffarie al commercio internazionale avendo riguardo non solo ai beni commerciali ma anche – a differenza del GATT – ai servizi e alle proprietà intellettuali. In sintesi garanzia del libero scambio.

Il funzionamento è demandato a:

  una Conferenza dei Ministri (c.d. Ministeriale), ove sono rappresentati tutti gli Stati membri, con riunioni almeno biennali, che costituisce il massimo livello decisionale;

– un Consiglio Generale che svolge le funzioni della Conferenza nell’intervallo delle varie riunioni biennali e  si riunisce quando si deve intervenire nelle risoluzione delle controversie;

– un Segretariato affidato al Direttore Generale, figura chiave dell’Organizzazione;

– un sistema di enforcement in virtù delle  procedure di risoluzione delle controversie, che in caso di  condanna possono autorizzare il Paese ricorrente ad applicare misure di ritorsione.

 

L’11 dicembre 2001 anche la Repubblica Popolare Cinese, dopo 15 anni dalla richiesta di adesione, è stata ammessa nella WTO.

L’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha segnato una svolta epocale sul percorso della globalizzazione, dalla quale sono  nate per  il mondo occidentale aspettative, poi  deluse, di poter avvicinare il Paese alla democrazia, che invece hanno agevolato la crescita  esponenziale dell’economia cinese (tasso medio annuo del 10% circa fino al 2018)  e consentito alla ricchezza nazionale del Paese (nel 2001 il PIL era di 1,3 trilioni di dollari ) di toccare il traguardo di  23 trilioni di dollari (stime W.B.) e divenire la c.d. “fabbrica del mondo”.

L’ammissione  della  RPC  origina  per un verso dalla considerazione che la sua partecipazione – vistone lo  sviluppo – potesse contribuire ad una più ampia rappresentatività dell’Organizzazione;  per altro verso, da parte di Pechino in funzione dei suoi ambiziosi disegni di sviluppo, dalla considerazione dell’utilità strumentale di far parte del sistema globale degli scambi.

La Cina fu ammessa con il limitato  status di “non market economy” (NMES), per un periodo di sperimentazione della durata di 15 anni, lasso di tempo che le ha consentito nel frattempo di accordare sussidi all’esportazione, sfruttare agevolazioni procedurali per le controversie interne alla stessa WTO e una maggiore impermeabilità del proprio mercato di fronte a ingerenze estere. Tutto ciò anche se al tempo stesso ha permesso, specie a Stati Uniti e UE,  di applicare misure antidumping,  cioè misure contro la pratica di esportare merci a prezzi  inferiori al loro “valore normale” (intendendosi tale il prezzo del prodotto sul mercato nazionale o il costo di produzione) specialmente grazie a sussidi  statali.  

Una volta scaduto il periodo  di sperimentazione, alla  RPC  avrebbe potuto essere riconosciuto lo status MES, cioè il “Market Economy Status”- Paese ad economia di mercato, che  equivarrebbe a far cadere i dazi  sui  prodotti cinesi.

Il Ministro Tremonti fu all’epoca l’unico politico occidentale a mettere in guardia  sui  pericoli derivanti dall’ammissione della Cina nella WTO e sulla competizione impossibile con Pechino. Sul  punto  che la Cina non fosse  un’economia di mercato l’industria italiana è sempre stata assertiva.

USA e UE negli anni hanno sempre cercato di difendersi con misure antidumping.  Quando sono apparsi  ormai irreversibili  gli effetti del dumping cinese e la sottovalutazione iniziale, specie da parte degli Stati Uniti, delle conseguenze dell’ammissione alla WTO e delle ricadute per  interi sistemi produttivi di paesi terzi, non capaci di competere con la concorrenza cinese, si sono alzate le barriere da parte UE, USA e Giappone.

Con il Regolamento 1225/2009 del 30 novembre 2009  (Difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di paesi non membri UE)  il Consiglio UE  fissava cinque criteri indispensabili per verificare l’osservanza dei parametri di economia di mercato. Introduceva anche  una nuova metodologia per calcolare i margini di dumping delle importazioni da Paesi terzi  in presenza di modelli economici guidati dallo Stato.

ll cosiddetto metodo del “Paese analogo” adottato dall’Unione Europea prevede di utilizzare, nelle procedure anti-dumping relative ai prodotti importati dalla Cina, i prezzi (normalmente più alti) di un Paese terzo e quindi di applicare margini di correzione tariffaria anti-dumping diversi  rispetto a quelli che sarebbero praticati se fossero considerati solo i prezzi o i costi interni cinesi.

 

II)– La rinuncia della Cina al  riconoscimento dello status di “economia di mercato”

Con Risoluzione  in data 12 maggio 2016, il Parlamento europeo giudicando   che solo uno dei criteri fosse stato rispettato – l’assenza di interventi statali nelle operazioni di privatizzazione delle imprese – decideva di rinviare l’avvio della relativa procedura negando a Pechino il riconoscimento dello stato di economia di mercato.

Il Governo cinese ritenendo, in base all’interpretazione dell’art. 15 del Protocollo di adesione alla WTO,  che lo status MES dovesse essere automatico alla scadenza del quindicennio  e adducendo al riguardo il riconoscimento già ottenuto da un gran numero di Paesi (130 al 2013), contestava  come unilaterale la fissazione dei cinque criteri UE, in quanto  non rispondenti  alle caratteristiche cinesi dello sviluppo dell’economia. Avviava quindi la relativa controversia  davanti alla WTO, accusando i membri dell’Organizzazione di non rispettare gli impegni internazionali  (cioè gli obblighi assunti  con l’art. 15 del Protocollo) e di voler ritornare  al protezionismo commerciale.

 

Tuttavia, inopinatamente dopo quattro anni la controversia è cessata senza pronunciamenti ufficiali,  perché il Governo  cinese stesso, prima della decisione  ufficiale,  a sorpresa  si è  ritirato  lasciando scadere i termini procedurali del 15 giugno scorso e ha di fatto rinunciato così al riconoscimento di  paese ad economia di mercato.

A questa decisione del Governo cinese possono aver concorso varie motivazioni.

– Pechino era  già  a conoscenza  (v. agenzia di stampa Bloomberg) o comunque consapevole di andare  incontro ad una pronuncia  completamente sfavorevole, quindi umiliante per il Paese,  per cui memore del passato  non ha voluto  subirne lo smacco all’interno e fronteggiare il clamore di motivazioni negative di fronte all’opinione pubblica mondiale, specie in un periodo in cui  la RPC,  e Xi in prima persona, deve già affrontarne la percezione negativa sull’origine della pandemia da Covid-19.

– Il peso del  mancato, o quanto meno il ritardato,  conseguimento degli obbiettivi, anche  simbolici,  della “moderata”  prosperità programmata entro il 2021 e del promesso raddoppio del PIL pro capite rispetto ai numeri del 2010 : infatti,  secondo la Banca Mondiale mentre il PIL  del Paese sarebbe oggi pari al 19% circa del prodotto mondiale,  sotto il profilo del PIL pro-capite la Cina è ancora un Paese relativamente povero, al 71mo posto nel ranking della Banca Mondiale, con poco più del ctv. di 8.800 dollari contro i 60 mila degli Stati Uniti.

– L’accentuarsi di problemi interni, come quello demografico, l’aumento dei prezzi al consumo e del tasso di disoccupazione,  il rapporto di Pechino con Hong Kong e Taiwan.

– Il Paese oggi non è più quello che aderì alla WTO nel 2001, ma da allora è divenuto  una delle due superpotenze mondiali, quindi in grado di subire meno le ricadute negative di misure antidumping, specie in ragione dell’attuale maggior orientamento ai consumi interni piuttosto che all’export e della nuova politica economica dello sviluppo duale.

– Con il  multilateralismo  in crisi  la RPC   può puntare molto di più su accordi regionali, ad es. con l’ASEAN, divenutone il primo partner commerciale scalzando UE e USA, o bilaterali (Giappone, Corea).

– La consapevolezza della profonda crisi della WTO e la prospettiva di poter decisamente intervenire a proprio vantaggio in una  riforma della stessa, dimostratasi ormai inevitabile, superando la questione MES.

 

III)- La paralisi indotta del meccanismo di risoluzione delle controversie

In ambito WTO la risoluzione delle controversie tra i Paesi membri si articola in un meccanismo complesso: quando uno dei membri si ritiene danneggiato dal comportamento di un altro Stato può avviare un sistema di risoluzione delle controversie e il Dispute Settlement Body (DSB) – organo collegiale di cui fanno parte i rappresentanti di ciascun Stato Membro –  dispone la costituzione di un apposito Panel di giudici, il cui  Rapporto (Panel Report) finale è adottato dal Consiglio Generale quale organo di risoluzione della controversia. E’ consentito allo Stato  soccombente ricorrere all’Appellate Body, organo permanente a tanto deputato per la decisione finale, composto di 7 membri nominati “per consenso” dal DSB, in carica per 4 anni rinnovabili  e articolati  in Sezioni con collegi composti da un minimo di tre membri a rotazione.

Vige il principio un Paese un voto. Ogni Membro dispone nell’ambito del DSB del potere di veto quando si tratta di nominare o confermare un componente dell’Appellate Body.

Per i Paesi riconosciuti come  parte lesa sussiste la possibilità di imporre misure di ritorsione in un lasso di tempo alquanto  breve.

Dal 1995 al 2019 sono state presentate 596 richieste di risoluzione delle controversie e adottate più di 350 decisioni, appellate per  il 68%. Dal 2004 al 2018 alla  WTO sono state presentate 41 denunce contro la Cina.

Le preoccupazioni di Washington sotto la presidenza di George W.Bush, riemerse sotto la presidenza di Barack Obama e soprattutto con l’amministrazione Trump,  si sono tradotte nel reiterato mancato consenso alle nuove nomine e alle riconferme dell’Appellate Body, operando  in particolare dal 2016 un costante ostruzionismo, che ha portato progressivamente alla paralisi e al congelamento dell’Organo di appello: da ultimo erano infatti rimasti in carica solo tre giudici, di cui due in scadenza il 10 dicembre 2019. Essendone venuta a mancare la nomina ne è conseguito che l’Organo collegiale, rimasto con un solo membro in carica, ha smesso di funzionare dalla fine del 2019 e qualsiasi futura eventuale disputa tra Membri al momento non può trovare soluzione finale in sede WTO.

Per sopperire, almeno temporaneamente a tale blocco,  il 30 aprile scorso l’UE e altri 18 membri (tra cui Cina, Australia, Svizzera…ma non gli Stati Uniti) hanno comunicato formalmente alla WTO un accordo provvisorio per un organo interinale di appello, Multi-Party Interim Appeal Arbitration Arrangement, MPIA – aperto all’adesione degli altri Paesi  della WTO – che prevede una procedura arbitrale di appello  (pool di 10 arbitri permanenti), adottata dai Paesi aderenti  fin quando l’Appellate Body non  potrà tornare operativo. L’accordo sul nome dei 10 arbitri del pool è stato notificato formalmente alla WTO il 31 luglio scorso: originano da Cina, UE, Brasile, Svizzera, Cile, Canada, Messico, Singapore, Nuova Zelanda, Colombia.

 

 

IV) –Dimissioni anticipate e  successione di  Azevedo

In questo scenario sono intervenute le dimissioni anticipate  dell’attuale  Direttore Generale  Azevedo (il sesto dal 1995), in carica dal 2013, il quale annunciava il 14 maggio u.s. che avrebbe lasciato la posizione  il 31 agosto 2020, cioè un anno prima della scadenza  naturale.  Le dimissioni anticipate, oltre a gettare ulteriore ombra sul multilateralismo, hanno fatto nascere anche il problema della nomina del successore.

Azevedo ha motivato la sua uscita anticipata con la volontà di agevolare un percorso di revisione dell’Istituzione,  in tempo utile prima della Ministeriale del 2021 (la dodicesima,  prevista per giugno 2020 e rinviata  all’anno prossimo) ed evitare la sovrapposizione tra la  sua sostituzione e la  predisposizione di detta riunione, ritenuta vitale per la stessa sopravvivenza della WTO, favorendo invece  il decoupling dei due processi.

Azevedo non ha mancato di richiamarsi  alla necessità  di cambiamenti significativi nel meccanismo di risoluzione delle controversie,  auspicando per la riforma un approccio generale che possa salvare il multilateralismo.

E’comunque  innegabile la ricaduta dell’uscita anticipata del Direttore Generale, intervenuta nel momento più delicato per la sopravvivenza dell’Organizzazione.

(N.B. – Azevedo  assumerà nella multinazionale PepsiCo Inc. il ruolo di  chief corporate affairs officer e membro del  comitato esecutivo).

 

La procedura per la successione  è stata  rapidamente avviata e il Consiglio Generale ha stabilito  di estendere il mandato dei quattro vicedirettori generali fino a quando non sarà selezionato il nuovo Direttore Generale.  Alla  decisione si è dovuti giungere  dopo il fallimento delle consultazioni per designarne uno come Direttore Generale ad interim fino all’entrata in carica del nuovo nominato. Il che costituisce un ulteriore sintomo delle difficoltà che attanagliano attualmente l’Organizzazione.

Si può presumere  che anche in questo caso abbiano pesato frizioni tra Cina e Stati Uniti e che la designazione by consensus del successore di Azevedo – che temporalmente va ad incrociarsi con il momento più caldo delle  elezioni americane – possa  andare incontro a tempi dilatati.

Entro l’8 luglio scorso è già avvenuta la nomination dei candidati  (otto, ora già ridotti a cinque sulla base della preferenze dei Membri): da Nigeria, Kenya, Arabia Saudita, Repubblica di  Corea, Regno Unito. Questa fase di consultazioni si concluderà entro il 6 ottobre.

Subentrerà quindi la terza fase    nell’arco di due mesi – nella quale il Presidente del Consiglio Generale D. Walker, della Nuova Zelanda,   avvierà consultazioni di massima riservatezza con i Membri  onde  vagliarne “l’ampiezza” del sostegno,  ridurre progressivamente le candidature a soli due competitors   e arrivare alla nomina “per consenso”, evitando così il ricorso alla votazione considerata last resort.

 

Tenuto conto delle procedure anzidette e delle esperienze passate  appare improbabile che la nuova nomina possa avvenire prima della fine del corrente anno, anche perché la scelta del candidato rappresenterà per i Membri l’occasione per  cercare poi di orientare  l’Organizzazione in una direzione piuttosto che un’altra.

 

Non è da escludere che la precarietà in cui versa  la WTO, possa protrarsi anche a lungo, quanto meno  fino alla prossima  Ministeriale che secondo i commentatori internazionali potrà rappresentare il “momento della verità” per l’Organizzazione,  quando i suoi membri dovranno affrontare il tema annoso, complesso  e divisivo  dei sussidi alla pesca.

 

V) – Quale futuro per la WTO?

E ’ indubbio che la WTO  appare oggi come  una Organizzazione decisamente  al tappeto, che ha visto minate le sue principali funzioni, tra cui quelle di organismo per  la risoluzione delle controversie e di forum negoziale per le normative del commercio internazionale a garanzia del “ libero scambio.”

Sembra non essere lontana dalla situazione che Azevedo trovò al suo ingresso nel 2013, per cui ebbe a definirla “sull’orlo del baratro”. Si è ormai spento l’ottimismo per un sostanziale progresso con il quale all’epoca fu accolta la creazione di un  soggetto Istituzionale  in luogo di un semplice accordo, quale il GATT.

 

La manifestazione più apparente della crisi dell’Istituzione  è data, dopo Nairobi (2015, che aveva determinato la cancellazione dei sussidi alle esportazioni agricole), dal congelamento di fatto del negoziato multilaterale del Doha Round, con la contemporanea crescita del bilateralismo e la proliferazione di  accordi preferenziali in costante aumento dall’inizio del 2000. Anche le prospettive ventilate nella Ministeriale di Buenos Aires del 2017 non hanno trovato riscontri.

 

L’Ambasciatore della RPC presso la WTO, Zhang Xingchen, in una recente intervista ha ammesso che l’Organizzazione deve affrontare la “mancanza di leadership e la deviazione della fiducia dei membri”.

 

Molte delle critiche mosse dagli  Stati Uniti nei confronti del sistema WTO sono condivise da altri  Membri, in primo luogo  per i tempi troppo lunghi  di risoluzione delle controversie.

Ad. es. nel 2004 gli Stati Uniti (amministrazione George W. Bush) hanno accusato l’allora Comunità Europea e i cinque Paesi del Consorzio Airbus (Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Portogallo) per  aver concesso dal 1970 aiuti di stato – illegittimi in  base al GATT  – per oltre 22 md. di dollari destinati a sostenere lo sviluppo dei modelli Airbus a danno della statunitense Boeing. Da parte europea nel 2005 è stato presentato alla WTO un ricorso speculare contro gli aiuti illegittimi che gli Stati Uniti avrebbero elargito alla Boeing per 23 md. di dollari.

Ma sono trascorsi ben quindici anni affinché il 2 ottobre  2019 la WTO (European Communities and Certain Member States  Measures Affecting Trade in Large Civil Aircraft)  autorizzasse  come “giusta ritorsione“ da parte degli USA l’imposizione di dazi compensativi per 7,49 md. di dollari su esportazioni europee (coinvolgendo in tal modo anche i Paesi UE estranei al Consorzio, come l’Italia,  su prodotti come il Parmigiano, il Grana,  mortadella,  salumi, ecc. )

Per contro non risulterebbe  ancora definitivamente conclusa la contro-causa UE contro gli aiuti alla Boeing, che potrebbe a sua volta  comportare  altrettante ritorsioni da parte europea.

 

Il 98% del commercio mondiale si svolge entro le regole della WTO,   con il tempo rivelatesi ormai inadeguate rispetto all’evoluzione del commercio internazionale,  ma mentre  esiste un consenso generalizzato  sulla indefettibilità di una riforma,  indubbiamente  impegnativa per tempi e contenuti, non si riscontra una linea comune per indirizzarla.

Resta da  vedere se  le attuali regole vadano del tutto accantonate o vi sia spazio per  operarne il sostanziale miglioramento/aggiornamento.

 

Nel febbraio scorso l’ufficio di Ginevra US Trade Representative (USTR), Robert Lighthizer, ha  predisposto un voluminoso Rapporto nel quale vengono mosse durissime accuse  alla gestione WTO, elencando  tra l’altro  tutte le singole violazioni che da parte statunitense sono state contestate nell’arco degli ultimi 20 anni.

L’amministrazione statunitense imputa all’organo di appello l’allontanamento dalla  propria  funzione  istituzionale, l’essere  andato oltre la semplice risoluzione delle controversie  e mediante la valenza del proprio corpus giurisprudenziale aver assunto una funzione sostanzialmente  normativa. Il comportamento dell’Organo di appello avrebbe quindi trasformato l’Organizzazione da forum di discussione e negoziazione in forum di contenzioso.

 

I  tentativi fatti  dall’UE,  ma anche da Giappone,  Canada e altri,  per modifiche sul funzionamento  o sul meccanismo  di nomina o sulla   durata del mandato dei membri dell’Appellate Body, si sono finora infranti contro l’opposizione statunitense, che su questo punto è assolutamente drastica come  attestato dal Rapporto anzidetto : “…..This will require WTO Members to engage in a deeper discussion of why the Appellate Body has felt free to depart from what Members agreed to. Without this understanding, there is no reason to believe that simply adopting new or additional text, in whatever form, will solve these endemic problems”.

 

Un’analisi  critica di come si è  modificata  nel tempo l’attività  dell’Appellate Body  si rinviene nel discorso di commiato pronunciato nel  marzo scorso da Thomas  R. Graham (membro dell’Appellate Body dal 2011 fino alla scadenza del 10 dicembre 2019 ),  che  ritiene l’Organo non più ricostituibile nelle attuali forme.

Tuttavia, pur se la risoluzione delle controversie è momento essenziale del sistema multilaterale,  non  si tratta solo di rimettere in funzione l’Appellate Body o una entità  simile, ma piuttosto di riconsiderare l’intero quadro della WTO  ritenuta, in varie sedi, anche strutturalmente non in grado di poter porre freno alle pratiche commerciali scorrette in particolare della Repubblica Popolare Cinese.

 

La “Global Business Coalition” – Associazione che raggruppa le Organizzazioni imprenditoriali dei Paesi del G20 (6,8 mil. di imprese) – in data 13 maggio  2019 ha lanciato un appello per la salvaguardia delle regole esistenti, per adeguare la WTO alla realtà del commercio del XXI secolo, come l’e-commerce, e superare lo stallo nel sistema di risoluzione delle controversie.

 

Tra i temi sui quali la riforma dovrà certamente misurarsi vi sono i suddidi, i trasferimenti di tecnologie e la tutela della proprietà intellettuale, le regole per il commercio digitale, i meccanismi per la risoluzione delle controversie, ma dovranno anche essere approfondite le evidenze messe in luce dal World Trade Report 2019 sul tema dei servizi, che costituiscono una quota crescente del commercio in molte economie in via di sviluppo. La quota dei paesi in via di sviluppo del commercio globale di servizi è cresciuta di oltre 10 punti percentuali dal 2005, anche se in modo non uniforme tra i paesi. 

I servizi generano più di due terzi della produzione economica e secondo il WTO Global Trade Model sono desinati a crescere del 50% entro il 2040. Rappresentano più di due terzi dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e i quattro quinti dell’occupazione in quelli sviluppati.  

 

Poiché  si tratterà di riscrivere le “Regole del gioco”   è fin d’ora evidente  che l’impostazione della  riforma   si svilupperà in uno scenario influenzato dall’evoluzione dello  scontro sino-statunitense, sempre più strutturale, se non con connotati di guerra fredda, e dal dover nel contempo conciliare  diverse posizioni di paesi sviluppati e  paesi emergenti con le pressanti e indifferibili istanze dei  paesi più poveri (non esiste definizione WTO di paesi sviluppati o in via di sviluppo,  ma sono i Paesi stessi che si autodefiniscono tali). 

La tensione sarà ancora maggiore dopo la recente censura da parte del Panel WTO sulla imposizione statunitense dei dazi alla Cina,  a fronte della quale l’amministrazione Trump  ha ancora una volta duramente reagito ribadendo  le proprie  contestazioni sulla totale inadeguatezza della WTO nei confronti delle pratiche scorrette della Cina. E lasciando sostanzialmente intendere di non considerare valida la decisione , tra l’altro  di fatto non ricorribile presso l’Appellate Body  per il blocco dell’Organo.

 

Non  mancano commentatori internazionali (come il Prof. James Bacchus della University of Central Florida, già membro del Congresso per il partito Democratico, componente ed  ex Presidente dell’Appellate Body) i quali assumono che  qualsiasi  riforma non potrà vedere  la luce fin quando durerà la Presidenza Trump, strenua sostenitrice della  sovranità americana.

 

In ogni caso, anche se dopo le elezioni di novembre venisse ammorbidita   la policy hit first-talk late, l’amministrazione che si insedierà a Washington dovrà per quanto concerne il confronto con la Cina tener nel dovuto conto del sentimento di diffidenza , se non  di ostilità,  che  si è ormai instaurato in via bipartisan in due terzi della popolazione degli Stati Uniti.

 

Quale  futuro per il  commercio :  multilaterale o bilaterale?

A questo interrogativo, punto chiave di una riforma,  ha tentato di rispondere il Vice Direttore Generale della WTO Alan Wolff, intervenendo l’11 agosto scorso ad un evento virtuale organizzato dell’Associazione americana degli esportatori e importatori.  Secondo Wolff il sistema commerciale multilaterale e gli accordi commerciali regionali e bilaterali sono complementari e devono condividere la funzione di regolare il commercio globale.

L’impostazione attuale dell’amministrazione statunitense è riassunta nell’intervento dell’ Ambasciatore Lighthizer in occasione  del suo intervento sulla Politica commerciale USA , tenutosi presso il CSIS – Center for  Strategic & International Studies (18 nov. 2018) : “we prefer bilateral trade agreements to the plurilateral and multilateral trade agreements……….

I  happen to agree with the president. Not only can you negotiate better agreements but you can enforce them more easily, because usually inmultilateral or plurilateral agreement it’s difficult to enforce the agreements because you’re disrupting . In a bilateral agree I think you can.”

 

Nel corso del colloquio telefonico di commiato avuto con Azevedo, lo scorso 13 agosto, il Ministro del Commercio cinese Zhong Shan ha inteso ribadire che la tendenza della globalizzazione economica e del multilateralismo è inarrestabile,  che  la Cina sosterrà la globalizzazione economica e il sistema commerciale multilaterale, assumerà una posizione chiara contro l’unilateralismo e il protezionismo e spingerà per un’economia mondiale aperta.

 

Il Presidente Conte il 31 gennaio scorso, nel suo intervento per il centenario della Confagricoltura, ha  sottolineato  come  si sia  atteso troppo tempo per avviare il processo di riforma e quanto sia  necessario salvaguardare il multilateralismo a beneficio di tutti gli stakeholder.

Per quanto possa attualmente  apparire un’ipotesi utopistica,  le negoziazioni per la riforma della WTO potrebbero avere un ruolo di starting point anche per circoscrivere le dispute sino – statunitensi nel contesto  di un sistema multilaterale di cooperazione con gli altri membri dell’Organizzazione, in primis UE, Canada, Giappone e (?) Russia.

Giova pertanto richiamare, in quanto attuali e condivisibili,  gli auspici formulati da  Azevedo nel febbraio 2017 al momento del rinnovo del suo mandato quadriennale: ”We must not take the multilateral trading system for granted. We must work together to strengthen it further and ensure it is more inclusive, so that the benefits of trade can be spread as far and as wide as possible. “