Quando si cerca di immaginare come sarà quando la pandemia che stiamo vivendo finirà, emergono due visioni opposte, e una intermedia. Gli apocalittici dicono che nulla sarà come prima, gli integrati scuotono la testa e dicono che tutto tornerà come prima, perché l’umanità non vede l’ora di tornare alle sue abitudini, alle sue poche virtù e ai suoi tanti vizi. I moderati dicono che qualcosa cambierà, qualcosa tornerà quasi come prima, qualcosa andrà irrimediabilmente perduto, ma emergerà qualcosa di nuovo.
Anche in natura esistono due forze contrastanti che si contrastano e si combinano: l’omeostasi, ossia la tendenza a tornare nello stato precedente, e l’evoluzione, ossia la tendenza a trasferire la mutazione di un elemento ad altri elementi del sistema.
Per esempio, la tendenza a cambiare porta noi stessi a crescere, diventare adulti, invecchiare, mentre la tendenza a conservare o ripristinare le cose fa sì che crescendo conserviamo la stessa fisionomia, lo stesso colore di capelli o di occhi, perfino lo stesso neo o lo stesso tic nervoso.
L’esperienza che stiamo vivendo, per la prima volta nella storia condivisa dai cittadini di tutto il mondo, è così straordinaria che i cambiamenti bruschi della nostra vita sono sotto gli occhi di tutti noi. Le piazze vuote, i cieli non più solcati dagli aerei, il traffico fermo, le poche persone distanti l’una dall’altra e con la mascherina in faccia, hanno talmente caratterizzato la nostra vita che, guardando film e serie tv pre-pandemici, ne avvertiamo la diversità, i tempi in cui si andava al ristorante o in palestra, ci si abbracciava, si camminava l’uno vicino all’altro.
Anche se lo scenario generale è decisamente angosciante, ne abbiamo potuto cogliere alcuni aspetti positivi. Gli animali padroni delle strade, i cieli, i mari e i fiumi limpidi e calmi in assenza di veicoli, il silenzio, paesaggi naturali e urbani non inquinati dalle macchine e dalle folle vocianti, il tempo di leggere, di pensare, di osservare, la riduzione dei tassi di inquinamento, il lavoro da casa evitando gli stressanti spostamenti pendolari, sono tutti aspetti positivi. La straordinarietà della situazione ha evidenziato le debolezze del nostro sistema socio-economico, il modello di sviluppo consumistico e predatorio, la scarsa resilienza del mondo globalizzato, le differenze crescenti fra ricchi e poveri, malati e sani, garantiti e non garantiti.
Per semplificare il ragionamento, limitiamoci al modo di lavorare, comprendendovi il lavoro dipendente e autonomo, e l’apprendimento, in un ambito che va dall’amministrazione pubblica all’impresa privata, dalla formazione manageriale alla scuola dell’obbligo.
Restando in Italia, forse il dato più eclatante è il brusco passaggio dai 500.000 agli 8.000.000 di persone che lavorano a distanza. Finita la pandemia, quante di queste persone torneranno al vecchio posto di lavoro, e quante continueranno a lavorare in modo smart e agile?
Consideriamo che purtroppo a questa pandemia ne seguiranno altre, insite nella globalizzazione stessa, perché un virus che in tempi passati impiegava anni o mesi per propagarsi, ora in una settimana si propaga in tutti gli hub aerei, e arriva perfino nelle più sperdute isole oceaniche, purché raggiunte da una linea aerea. Abbiamo visto come la diffusione del contagio sia più forte nelle zone più ricche, più trafficate, più inquinate. Quindi ai piani di prevenzione e cura delle epidemie, che dovranno essere aggiornati con più frequenza e dotati di maggiori fondi per la ricerca e per la gestione, onde evitare pandemie globali contenendole in epidemie più circoscritte, andranno aggiunti piani di cambiamento del modello di sviluppo che ormai è giunto al punto di non ritorno.
La minaccia più grave sarà sempre di più quella ambientale, perché i cambiamenti climatici porteranno a nuovi imponenti flussi migratori e a sconvolgimenti economici e sociali. Basti pensare alla fuga da tutte le zone costiere, che avverrà fra pochi anni in seguito all’innalzamento del livello dei mari, di cui fanno parte sia piccoli borghi come Amalfi, sia megalopoli come Los Angeles. Nella serie Netflix “Bloodline”, del 2015, ambientata nelle Keys, l’arcipelago della Florida che si inoltra nel Golfo del Messico, l’albergatrice non riesce a vendere il suo albergo perché l’agente immobiliare le dice che “non vale nulla, dato che fra dieci anni sarà tutto sotto il mare”. Non si tratta più di previsioni di climatologi, ma di opinione comune da tv popolare!
Telelavoro e telepresenza dovrebbero diventare la normalità, per ridurre l’inquinamento da traffico e spostamenti pendolari. Bar e ristoranti che si basavano sul lavoro in presenza, invece di lamentarsi e invocare il ritorno alla precedente normalità, dovrebbero adattarsi ai nuovi scenari, come ogni bravo imprenditore sa e deve fare.
Dovrebbe fortemente cambiare il management, non più basato sul controllo e sulle urgenze, ma su obiettivi ben definiti e condivisi, e verifiche degli output, più che dei processi. Non mi interessa quante ore lavori, ma che mi consegni martedì mattina, come avevamo stabilito, la cosa fatta, corretta e funzionante. Dovrà essere curata di più la motivazione, senza la quale non sarà possibile condividere obiettivi e risultati. Cambieranno le relazioni umane, le dinamiche di gruppo, i concetti di tempo libero e tempo occupato. Andrà rivista tutta la formazione, dalla scuola dell’obbligo alla formazione manageriale. Non sarà più necessario insegnare disciplina e obbedienza, ma auto-organizzazione, responsabilità e affidabilità.
Se lo smart working diventerà la normalità, e si lavorerà in presenza solo quando non se ne potrà fare a meno, ne deriveranno importanti cambiamenti nell’urbanistica e nell’architettura, che dovranno ridisegnare quartieri e case per renderli più confortevoli, passando dal formicaio da cui scappare per andare a lavorare, alla città giardino in cui restare per lavorare e per vivere. Si dovranno sviluppare politiche di reddito e salario minimo garantiti, per distribuire meglio le risorse e tutelare non tanto i lavoratori, quanto le persone che possono anche non lavorare, dato che l’automazione non avrà bisogno che lavorino tutti. Si dovrà sviluppare la tecnologia delle reti ad alta velocità e capacità, e rivedere logistica e sistema dei trasporti.
Che cosa invece si dovrà conservare e preservare? Beni comuni come l’acqua e l’aria, il paesaggio, il patrimonio artistico e culturale. La diversità biologica, tradizioni gastronomiche, strumenti e conoscenze che funzionano. Il diagramma di Gantt ha più di un secolo, ma è sempre lo strumento migliore di pianificazione tempi.
L’antinomia fra la conservazione e l’innovazione traspare anche dai nomi dell’imponente programma di finanziamento europeo con cui si pensa di fronteggiare la crisi pandemica. Come si chiama, recovery fund o next generation fund? A che cosa deve servire, a recuperare il passato per confortare i nonni (recovery) o a preparare il futuro per figli e nipoti (next generation)?