La pandemia ha avuto dei riflessi diretti sul nostro comportamento, sulle nostre abitudini, e in qualche modo ci ha obbligato a riflettere di più su cosa siamo e cosa vorremo essere, almeno per me è stato così…
Già nel mio articolo “Le gabbie” mi chiedevo perché costruiamo la nostra vita nel modo in cui lo facciamo, e quanto pesano le costrizioni sociali su tutti noi.
Dovendo rimanere in casa, lavorando in casa, vedendo pochissime persone, ho continuato a pormi delle domande.
Da molti anni ho iniziato naturalmente a staccarmi dalle cose materiali. Dover cambiare casa e paese tante volte, ti forza a capire che anche gli spazi per te più intimi, la tua camera da letto, il tuo living, con i tuoi mobili, le tue cose, non sono parte di te! puoi vivere ugualmente bene in altri spazi, con altri mobili, con altre caratteristiche.
Se ci pensate seriamente non è una cosa banale. Tutt’altro.
Ognuno di noi ha bisogno di sentirsi accolto, di sentirsi sicuro. È la sicurezza che tentiamo di dare ai nostri figli (non sempre riuscendoci bene), ai nostri animali, a tutti quelli che dipendono da noi. Ossia, parliamo di affetto, parliamo di emozioni, di convivenza, di amore dato e ricevuto. E questo si trova in qualsiasi posto noi siamo, potremo essere e saremo, un giorno.
Certo, noi siamo il contenitore che ha ricevuto negli anni di tutto: educazione, divertimento, paura, amore, astio, vite straordinarie, e giorno dopo giorno abbiamo assimilato quello che siamo stati capaci di raccogliere, come se un filtro autonomo composto dalla nostra intelligenza, sensibilità e capacità di comprensione abbia fatto pulizia e si sia tenuto il meglio per sé.
Chiuderci nel nostro conosciuto ambito di sicurezza (la cosiddetta confort zone) in questo momento di pandemia, è la cosa più naturale. È quello che ci è stato imposto per la sicurezza di tutti, ed è quello che abbiamo fatto perché era l’unico modo per venirne fuori. Ma saremo capaci di uscirne? Quanti di noi avvertono un’incertezza a tornare a vivere come prima?
Nell’ultimo mese mi sono trovata ad organizzare incontri con delle amiche, che non si sono mai realizzati, perché alla fine nessuna di noi ha fatto la mossa finale, ci si accontenta di videochiamate, di “call”, e si va avanti nel nostro piccolo mondo intimo e sicuro.
Il contenitore del quale ho parlato prima, ossia noi stessi, ha avuto dei filtri potenti che sono dettati dalle emozioni sentite e il tempo è determinante per la valutazione nella nostra memoria. Più passano gli anni, più dimentichiamo alcune cose, rimangono perse in un angolo nascosto e c’è bisogno di qualcosa di molto particolare per farla venire fuori. Ci sono, invece, emozioni alle quali basta una piccolissima associazione mentale per farle riaffiorare, con tutta la loro forza, causandoci la stessa allegria o dolore di un tempo.
Vorrei lasciare molto dietro di me la visione di tutti questi morti, questa sofferenza, l’impotenza del non poter condividere. Vorrei che fossero sepolti e vorrei poter credere in un futuro libero da gel e mascherine e distanziamento obbligato.
Tornando alle mie domande, grazie ad una mia amica, ho visto un video semplice, corto ed illuminante, “Filosofia di vita dei Mapuche”. È in spagnolo, ma quello che bisogna sapere per capirlo è molto poco.
I Mapuche (termine composto dalle parole mapudungun Che, “Popolo”, e Mapu “della Terra”) sono un popolo amerindo originario del Cile centrale e meridionale e del Sud dell’Argentina. Gli Spagnoli hanno chiamato i Mapuche “araucanos”. Il termine si usa per denominare l’etnia che comprende vari e diversi gruppi che hanno in comune strutture sociali, politiche ed economiche con un’economia di sussistenza basata sull’agricoltura, con un venerato rispetto per la terra come dal proprio nome. Sono organizzati socialmente in famiglie estese, sotto la direzione di un “lonco” o capo, ed in tempi di guerra possono scegliere un “toqui” (portatore d’ascia) per guidarli.
Nel video viene messo al centro del circolo il soggetto, Iñ che: “IO”, nell’alto a sinistra i nonni materni, nello spazio sotto a sinistra si trova nostra madre, nello spazio in alto a destra si trovano i nonni paterni, nello spazio sotto a destra nostro padre. Fuori dal circolo in alto ci sono il segno della luna e del sole, in inverno (pukem ko) inizia a scorrere l’acqua, le piogge iniziano un processo di pulizia e di energia; segue Mapu (terra) kewu (primavera) tempi dove tutto germoglia, rinasce, rinfiora, e andiamo verso il wualung (estate) per festeggiare l’abbondanza di frutta, verdure, ed è il tempo del caldo; segue l’autunno (rimu) il tempo per raccogliere tutto quello che si ha seminato e contemporaneamente il vento si porta via tutte le impurità e lascia il terreno pronto per permettere ancora una volta all’acqua a ricominciare il ciclo…
Mi sembra una cosa saggia, e credo noi essere umani dobbiamo anche passare per diversi cicli per pulire, preparare, seminare e raccogliere il meglio della nostra convivenza prima di tutto con noi stessi e come conseguenza anche con gli altri…
Prepararsi a vivere meglio aiuta concretamente a vivere meglio!!!