Il tema dell’innovazione è sempre più centrale nell’orientare le politiche industriali. Non l’innovazione tout court, ma la sua forma attuale, resa necessaria nel traghettare il mondo delle imprese verso un’economia post-pandemica. Per affrontare il tema dell’innovazione, però, occorre ricordare un sociologo dell’economia come Joseph Schumpeter, che di tale concetto è stato uno dei massimi studiosi. Per Schumpeter l’innovazione è la spinta propulsiva che consente ad un sistema economico di funzionare al massimo della sua efficienza. È qualcosa di fondamentale, a cui non si può prescindere, quando si parla di sviluppo economico. Con il tempo però l’innovazione muta la sua fisionomia e i suoi attributi, come pure muta il sistema economico che gli dà forma. Da qui un dibattito di grande attualità: il sistema capitalistico, dove per Schumpeter l’innovazione prende corpo, è ancora quello di ieri? Il ruolo dello Stato, di cui si sente sempre più l’esigenza – specie nel contesto pandemico che stiamo vivendo -, è compatibile con la creatività innovativa?
Iniziamo col dire che Schumpeter è un sociologo dell’economia, e come tale mette in evidenzia gli aspetti istituzionali e storici del processo produttivo. Anche se si è formato sotto l’egida della scuola austriaca, e risente degli assunti neo-classici, le sue influenze sono molteplici, arrivando ad includere Marx e Weber. Per tale motivo è uno studioso sui generis, difficilmente catalogabile con una corrente di pensiero particolare. Forse è la sua estraneità verso le teorie mainstream che ne fa un’interprete originale della contemporaneità. Per Schumpeter l’economia, oltre che di numeri, è fatta anche di abitudini e di forme di comportamento come il governo, la proprietà o l’impresa privata. L’innovazione stessa è vista come un tipo di imprenditorialità, guidata dall’audacia e dallo spirito di iniziativa: doti, queste, necessarie per stimolare quella “distruzione creativa” che consente al capitalismo e esistere e di progredire [1]. Un capitalismo, è bene ricordarlo, che si basa sull’innovazione concessa dal credito bancario, e non dal semplice possesso di beni e ricchezze come avveniva in epoche anteriori.
L’innovazione per Schumpeter si innesca grazie all’introduzione di nuove combinazioni dei mezzi di produzione, non solo tecnologiche ma anche organizzative, commerciali o di acquisizione di fonti di approvvigionamento. L’innovazione è legata ad un processo creativo che spinge le imprese più creative a svilupparsi e quelle antiquate a ristrutturarsi o a uscire dal mercato. È anche un processo ciclico, che non procede regolarmente ma a balzi [2]. Quando un’innovazione si estende sul mercato, poi – essendo riprodotta dai concorrenti -, cessa la sua funzione dirompente e cede il passo a una nuova combinazione dei mezzi di produzione. Nel progresso del capitalismo i cicli economici sono di tre tipi: il ciclo di Kitchin è di 40 mesi, quello di Juglar di 9/10 anni e quello di Kondratieff è di 50/60 anni [3].
La creazione creativa di Schumpeter implica un’economia basata sulla concorrenza. Con il passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello trustificato, tipico della sua epoca, l’innovazione non viene più prodotta dai singoli imprenditori ma nei laboratori di ricerca e sviluppo di grosse corporation burocratizzate. Ne viene fuori un processo di razionalizzazione della vita economica che spegne la creatività innovativa. Al posto degli imprenditori-innovatori subentrano i manager, che utilizzano le conoscenze possedute e le abitudini consolidate. Ciò determina la causa principale della crisi del capitalismo, il cui posto verrà preso da una pianificazione centralizzata. Per Schumpeter si tratta di un assetto corporativo, foriero di politiche anticapitalistiche.
Il capitalismo per Schumpeter crolla per il venir meno dell’innovazione, e non per eccesso del macchinismo, come credeva Marx. Una prospettiva distante anche dalla tesi di Keynes, suo contemporaneo, più propenso verso la stagnazione del capitalismo. Fatto sta che oggi si torna a parlare di fine del capitalismo, sebbene le cause siano differenti. L’economia post capitalistica si caratterizza per l’ampliarsi delle relazioni tra organizzazioni economiche integrate globalmente: basti pensare al ruolo ricoperto dalle città globali [4] o dalle catene globali del valore [5]. Le relazioni economiche diventano più importanti del processo produttivo in sé [6]. Le imprese non potranno più operare come delle realtà autonome e indipendenti, come nel vecchio capitalismo, ma dovranno legarsi tra loro entro una trama di rapporti economici globali.
Con la quarta rivoluzione industriale e l’impresa 4.0 il quadro si è evoluto. Le piccole imprese non sono scomparse, e non tutti i manager sono dei burocrati. L’innovazione di Schumpeter, pertanto, pur mantenendo la sua funzione dinamica di motore dell’economia, cambia radicalmente. Diventa open innovation [7]. L’innovazione si lega agli ecosistemi produttivi, diventando inclusiva. Non è più caratterizzata dalla chiusura e dall’isolamento di singole imprese, ma si apre alla condivisione dei propri processi produttivi ai fornitori, ai clienti e in alcune circostanze anche ai concorrenti. Gli ingegneri e i tecnici non sono più relegati ai centri di ricerca e sviluppo: l’innovazione si apre alle università, alle start-up, agli spin-off, ai laboratori di imprenditorialità e al contesto territoriale di appartenenza, oltre che alle comunità web in un’ottica di sharing economy.
Si tratta di un cambiamento radicale, che la pandemia ha accelerato. L’economia post capitalista è già visibile in diverse aree metropolitane. Non solo negli USA o in Europa, ma anche in Asia. Inoltre, essa può assumere anche forme particolari, di tipo collettivo e pubblico. Il ruolo dello stato torna ad essere decisivo, anche in risposta alle esigenze create dalla crisi pandemica. Non si tratta di uno stato dirigista ma di stimolo e di indirizzo, volto a promuovere dei sistemi complessi di “innovazione nazionale”. L’economista Marianna Mazzucato [8], in quest’ottica, è andata oltre la concezione mercato-centrica dell’innovazione, per rivalutare il ruolo imprenditoriale dello stato nello sviluppo. In un’economia dominata dall’incertezza, come quella attuale, è lo stato che può fornire quel “capitale paziente” che difetta in un’economia di mercato, sostenendo progetti di sviluppo a lungo termine. È lo stato innovatore che consente di promuovere quegli investimenti strategici verso le reti innovativo-imprenditoriali, tipiche del post capitalismo, che qualificano le nuove frontiere della ricerca scientifica.
NOTE:
[1] Schumpeter J. A. (1977), Capitalismo, Socialismo e Democrazia”, Milano, Etas Libri [1942].
[2] Schumpeter J. A. (1977), Teoria dello sviluppo economico, trad. di L. Berti, V. Spini, Firenze, Sansoni [1912].
[3] Schumpeter J. A. (1977), Il processo capitalistico. Cicli economici, Torino, Boringhieri [1939].
[4] Sassen S. (2008), Una sociologia della globalizzazione, Torino, Einaudi.
[5] Greco L. (2017). L’impresa nel mercato mondiale. Le catene globali del valore, in Barbera F. e Paris I, Fondamenti di sociologia economica, Milano, Egea.
[6] Gentili L. (2018), Economia Liquida. Lo sviluppo nell’instabilità, Roma, Armando Editore.
[7] Chesbrough H. W. (2003), Open innovation: the new imperative for creating and profiting frontechnology, Boston, Harvard Business School.
[8] Mazzucato M. (2013), The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths”, London-New York, Anthem Press.