Materie prime, fitofarmaci, trattori e semi sono in mano a 13 società: mentre 1,6 miliardi di produttori si spartiscono il 15% dei ricavi.

 

L’alimentazione  costituisce il 17% della spesa di una famiglia occidentale, e ben il 40% di una di un Paese povero. In altre parole il 40% del tempo di un abitante di un paese povero è dedicato a mettere da parte le risorse necessarie per sfamare se stesso e la propria famiglia.

Quando ci riesce.

 

L’equivalente della popolazione di ben 24 (Spagna, Polonia, Romania, Paesi Bassi, Belgio, Grecia, rep. Ceca, Svezia, Portogallo, Ungheria, Austria, Danimarca, Finlandia, Slovacchia, Irlanda, Croazia, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia, Cipro, Lussemburgo, Malta e sette regioni dell’Italia del nord) dei 27 paesi europei messi insieme quest’anno non ci riusciranno. Secondo stime di Oxfam altre 263 milioni di persone (soprattutto donne e bambini) adesso rischiano la fame. Tra queste, 65 milioni è il conto della guerra in Ucraina.

A fine 2022 ci saranno, in definitiva, 827 milioni di persone in povertà estrema, il 10,5% degli 8 miliardi di abitanti del pianeta

Un “bel” bilancio per i fautori della globalizzazione come panacea per lo sviluppo del benessere del pianeta.

Globalizzazione che proprio nel settore agroalimentare ha raggiunto risultati abnormi.

Cargill, Chem China, Archer Daniels Midland, Jbs, Bayer, Anhauser nomi poco conosciuti che insieme a poche altre realtà governano il settore agroalimentare. Governano, forse è meglio dire dominano, o forse ancora meglio, sfruttano il bisogno alimentare degli abitanti del pianeta.

Il 90 per cento è la quota di mercato dei cereali detenuta da 4 società (Cargill, Bunge, Adm e L. Dreyfus), che, insieme, controllano il 70 per cento delle materie prime agricole.

Il 66 per cento del mercato dei fitofarmaci (60 miliardi di dollari) è in mano a 4 gruppi e analoghe concentrazione in pochissimi gruppi riguarda il 60 per cento delle sementi (42 miliardi di dollari) e la metà del mercato della tecnologia agricola (126 miliardi di dollari).

 

Ci troviamo di fronte a un mercato “finanziarizzato”.

Adm, Basf, Bunge, Cargill, Corteva sono tra le più grandi imprese del pianeta. Gli azionisti? I grandi fondi.

La quota di mercato che rimane agli 1,6 miliardi di produttori agricoli è il 15 per cento.

Poche decine di nomi sono tutto il mercato mondiale del cibo; raccolgono cifre a nove zeri, mentre 1,6 miliardi di produttori fanno la fame nel sud del mondo o faticano a tenersi in piedi nel ricco Occidente, racimolando in media 15 centesimi ogni euro di prodotto venduto.

In un mondo dell’informazione mainstream (leggi “i giornaloni” o il “giornale unico”) che oggi denuncia le conseguenze della mancanza del grano ucraino e russo (non si capisce perché dovrebbe mancare anche quello russo) per trovare uno che denunci questa polarizzazione –che pure sta alla base di molte, delle più drammatiche, diseguaglianze globali – bisogna ascoltare quel Papa che (unico) ha  dato dei pazzi agli Stati che vogliono aumentare le spese per armi, Papa Francesco.

Questo è il suo appello del 16 ottobre 2021, quando il caro energia stava già svuotando le tavole dei più poveri tra i poveri: “Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari di smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane dell’affamato”.

“Il pane dell’affamato” infatti, e non solo quello delle panetterie-boutique delle nostre città, si fa col grano e il grano è in tutto quattro nomi Archer Daniels Midland (Usa), Bunge (Usa, Bermuda), Cargill (Usa) e Louis Dreyfus Commodities (Paesi Bassi). Circa il 90% del mercato globale dei cereali è intermediato da quattro multinazionali.

Gli stessi quattro nomi che controllano il 70% di tutte le materie prime agricole (oltre ai cereali, riso, olio di palma, zucchero, ecc.).

E non parliamo di bruscolini. Per intenderci bene: Cargill nell’anno fiscale che copre da giugno 2020 a giugno 2021 ha dichiarato 135 miliardi di dollari di ricavi, Adm 86 miliardi, Bunge 60 miliardi nel 2021 e Louis Dreyfus 50 miliardi: i profitti netti cumulati si aggirano sui 15 miliardi.

Qualunque sia il marchio sul pane, sulla bistecca di soia, sul riso che acquistiamo al supermercato quasi sempre dietro ci sono quei quattro nomi.

Una faccenda che ha ricadute enormi.

Se un pugno di aziende sono il mercato, sono loro a decidere il prezzo, a decidere chi vive e chi muore, cosa, dove e come viene coltivato: per questo, ci dice la Fao, in pochi decenni le grandi monocolture care alle multinazionali hanno ridotto del 75% la biodiversità sul pianeta, a non dire della deforestazione, che nel decennio 2010-2020 s’è mangiata una superficie grande come l’intera Spagna.

 

“Per fare un tavolo ci vuole il legno

Per fare il legno ci vuole l’albero

Per fare l’albero ci vuole il seme…»

cantava Sergio Endrigo.

 

Per fare un albero,  ci vuole un seme, si sa, e i semi di tutto il pianeta sono (dopo una serie di fusioni negli anni scorsi) nelle mani di quattro nomi:  ChemChina (che in Italia ha la maggioranza di Pirelli), Bayer, Corteva (ex Dow-Dupont) e il consorzio francese Limagrain controllano quasi il 60% delle sementi a livello globale, un mercato da 42 miliardi di dollari nel 2020.

Tre di questi 4 nomi valgono il 66% di un settore che fattura quasi 60 miliardi: i fitofarmaci per l’agricoltura. Tre sono gli stessi delle sementi, la quarta è la tedesca Basf al posto dei francesi di Limagrain.

Una creatura mostruosa a cinque teste da centinaia di miliardi di dollari di ricavi annui che fa il bello e il cattivo tempo sui contadini dell’intero pianeta.

E se ai 1.600 milioni di contadini del pianeta serve un trattore, una mietitrebbia o altri macchinari agricoli?

Questo mercato da 126 miliardi di dollari annui è per metà appannaggio di quattro imprese: Cnh Industrial (controllata dalla Exor degli Agnelli, con base fiscale in Olanda), le statunitensi Agco e Deere, la giapponese Kubota.

Pochi proprietari, molti produttori, miliardi di consumatori: lo schema funziona in tutti i recessi del mercato del cibo.

La carne è un compendio di come girano le cose nel settore agroalimentare e un esempio dell’irrazionalità del modello di produzione del cibo e della sua tendenza a creare enormi oligopoli (tanto più che una bella fetta della produzione agricola serve a produrre cibo per gli animali).

Negli Usa, ad esempio, quattro compagnie controllano l’85% del mercato: le statunitensi Tyson Food e (ancora) Cargill con le brasiliane Jbs e Marfrig.

Il colosso Jbs, per capire di quali quantità stiamo parlando produce in 15 Paesi dove macella 75mila bovini, 115mila suini, 14 milioni di polli, tacchini e galline e 16mila agnelli tutti i santi giorni.

La seconda in classifica, Tyson Food, prova a difendersi macellando “solo” 22mila bovini, 70mila maiali e 7,8 milioni di polli ogni 24 ore.

 

La Gdo, grande distribuzione organizzata

Secondo un dossier del 2017 di Coldiretti nella grande distribuzione i primi dieci grandi rivenditori di generi alimentari coprono il 30% delle vendite mondiali (dal colosso Walmart ai tedeschi di Schwarz Group, quelli di Lidl, fino ai francesi di Carrefour, in attesa della crescita scontata di Amazon).

Dati coerenti con quelli di un’inchiesta realizzata a fine 2021 dal Guardian con l’associazione Food&Water Watch: negli Stati Uniti quattro compagnie –Costco, Walmart, Kroger e Ahold Delhaize – controllano il 65% del mercato retail del cibo.

E anche i marchi produttori non sono da meno: quattro o cinque società pesano tra il 50 e il 70 per cento delle vendite dell’80% dei prodotti alimentari.

Bud®, Corona® e Stella Artois®; marchi multi-paese come Beck’s®, Castle®, Hoegaarden® e Leffe®; e marchi locali come Aguila®, Antarctica®, Bud Light®, Brahma®, Cass®, Cristal®, Harbin®, Jupiler®, Michelob Ultra®, Modelo Especial®, Quilmes®, Victoria®, Sedrin® and Skol® sono solo alcuni dei cinquecento marchi di birre di proprietà del colosso belga Anheuser-Busch InBev che domina il mercato della birra, anche con birre di nicchia (ad esempio la reatina “Birra del Borgo®) che gli appassionati vanno a cercarsi in negozi specializzati pensando di avere a che fare con un piccolo produttore.

 

Il gigante Kraft Heinz, quotata presso il NASDAQ, è la quinta multinazionale al mondo del settore alimentare e delle bevande (la seconda per ordine di grandezza nel Nord America), risultato della fusione, avvenuta nel 2015, tra Kraft Foods e H. J. Heinz Company.

La multinazionale gestisce oltre 25 marchi tra cui Kraft, Heinz, Planters, Grey Poupon, Oscar Mayer ed è conosciuta in Italia anche per i marchi Plasmon, Nipiol, Planters, Biaglut, Aproten, Cuore di Natura e Dieterba e compare dodici volte tra le società leader nella vendita di singoli prodotti che spaziano dagli insaccati al caffè fino ai succhi di frutta.

L’intero sistema è pensato per pompare utili verso azionisti e manager illudendo i consumatori (dei Paesi ricchi, ma non solo) di poter scegliere sulla base della propria irripetibile individualità, mentre si estrae valore sfruttando agricoltori, lavoratori e risorse naturali.

 

La produzione alimentare in mano alla finanza

Il cibo è una commodities come le altre, e si potrebbe dire che lo è sempre stata, ma oggi l’intera filiera dal campo allo scaffale è un prodotto finanziario ben più che fisico.

Questa slavina del cibo come commodities inizia negli anni Ottanta: il mercato finanziario del cibo, che ovviamente esisteva già, è stato deregolamentato insieme a tutto il resto, diventando via via sempre più astratto e attirando sempre più soldi.

Di fatto oggi il prezzo di materie prime come il grano ha più a che fare con la finanza che coi costi di produzione o con la domanda, tanto più che a metà del decennio scorso, per reagire a una fase di prezzi bassi delle materie prime agricole, tutto il settore è stato interessato da fusioni e operazioni societarie che hanno creato questi folli? immorali? ignobili? oligopoli che abbiamo appena descritto.

Lo spreco di cibo non è un accidente, ma un perno di questo sistema.

Una filiera così estesa e ricca (in Italia nel 2021 valeva 575 miliardi, il 32% del Pil) spartita tra poche società finisce per modellare il mondo: il loro potere rende obbligatori l’agricoltura e l’allevamento industriali standardizzati, che producono per la grande distribuzione e le mega catene di ristoranti.

Ma chi sono, dietro le società, i padroni del cibo che “finiscono col tenersi il pane dell’affamato”?

Chi sono coloro che rubano ala popolazione mondiale i beni della terra? Sono i soliti noti e puntano su tutti i giocatori: fondi come BlackRock, Capital Group, Sun Life Financial, State Street, Vanguard Group hanno partecipazioni in molte multinazionali del cibo, teoricamente concorrenti tra loro; ma al gioco partecipano anche grandi investitori privati (Warren Buffet controlla Kraft Heinz col fondo 3g Capital) e qualche banca (Crédit Agricole, Deutsche Bank).

Sono speculatori? Si, perché noi dobbiamo imparare a misurare l’economia in termini morali e non possiamo accettare né di fatto, né come giustificazione, che un sistema in cui i lupi decidono per gli agnelli diventi un motivo accettabile.

L’unico, vero, autentico, progresso é quello che mira a migliorare il benessere dell’umanità, contribuendo a equità e giustizia.

Il sistema mass mediatico economico, cioè la testata unica che della libertà di stampa si fa scudo per pubblicare solo quello che interessa al sistema economico che lo possiede (sto parlando, in Italia, di Corriere della sera, la Repubblica, il Messaggero, la Verità, Libero, il Foglio, il Sole 24 ore, il Giornale, il Mattino; nel mondo del Financial times, Le monde e Le figaro (Francia); El mundo, El Pais e ABC (Spagna); Der tagesspiegel e Bild (Germania), The times (UK) ecc.) ha iniziato a parlare della “crisi alimentare globale”.

Lo stesso sistema mediatico che è posseduto dalla finanza mondiale dove molti dei principali attori coincidono con i monopolisti del cibo che in quattro detengono il 90 per cento del mercato mondiale dei cereali.

E’ difficile pensare che non ci sia una relazione.