La condizione umana e il sapere
Viviamo tutti a contatto con l’arte, a volte letteralmente immersi nell’arte, soprattutto in Italia e soprattutto chi abita in una grande città d’arte. Io vivo, ormai da moltissimo tempo, a Firenze. Il fatto di vivere immersi nell’arte, però, non sempre significa che noi la “vediamo”, cioè la riconosciamo e l’apprezziamo come una fondamentale espressione dell’umanità. Infatti, venendo da fuori Firenze, ero passato a lungo davanti (direi “attraverso”) alle bellezze artistiche fiorentine alquanto ignaro e poco reattivo. Ma un giorno successe qualcosa.
Erano gli Anni ‘80 del Novecento, ero giovane (30 anni o poco più) e, non so perché, fui attratto da una mostra di opere di Mirò che si teneva presso la chiesa di Orsanmichele. Mi ricordo che i locali della mostra erano sopra l’ambiente dedicato al culto e che ci si arrivava salendo da una scala esterna in pietra. Appena arrivato in cima alla scala passai per la porta di ingresso e rimasi folgorato da un quadro, del quale non ricordo il titolo ma che penso appartenesse alla fase giovanile della produzione di Mirò. Era un quadro astratto e mi suscitò qualcosa che non era un’elaborazione mentale, bensì una reazione fisica. Avvertii una sensazione di calore in mezzo al petto, sullo sterno, come una spirale calda che si allargava lentamente. Non mi era mai successo; la sensazione durò a lungo e ancora la ricordo molto bene. Guardando il quadro (proprio “guardandolo”, senza osservarlo minuziosamente, un’occhiata) avevo attraversato un’esperienza estetica.
Ma cos’è, esattamente, un’esperienza estetica? Sono arrivato a chiedermelo molti anni dopo mentre studiavo, da un punto di vista scientifico, i processi cognitivi e il modo in cui gli esseri umani si rapportano al mondo, cioè all’ambiente (sia naturale che sociale) nel quale vivono. Non so se siano definitive, però alcune risposte le ho trovate. Ma procediamo con ordine.
Un’esperienza estetica è una reazione immediata, automatica e globale fatta di reazioni fisiche (sensazioni) seguite da elaborazioni cognitive. E’ “immediata” nel senso che non c’è alcuna mediazione da parte dei processi cognitivi consapevoli (scatta senza essere preceduta da alcun processo mentale logico o da alcun pensiero razionale). E’ “automatica” nel senso che, a seguito dello stimolo, parte da sé ed è probabilmente connessa, in qualche modo, alla parte inconsapevole o inconscia del nostro Sistema Nervoso Centrale (cioè non è connessa alla corteccia cerebrale ma ai centri più profondi del cervello, quelli che soprintendono alle funzioni vitali, il midollo allungato, il bulbo e via dicendo). La consapevolezza arriva dopo ed è connotata esteticamente in modo dicotomico, radicale: bello / brutto, senza vie di mezzo. E un’esperienza estetica è “globale” perché non coinvolge solo la percezione attraverso i sensi, ma l’intero organismo: una visita a una galleria d’arte o un concerto non si fruiscono solo con la vista o con l’udito, ma è l’intero organismo che “risuona” rispetto all’esperienza che stiamo facendo.
Ma l’arte e l’estetica possono essere oggetto di indagine scientifica? Non sono campi diversi, nei quali si impiegano approcci totalmente diversi e che portano a risultati così diversi da poterli considerare antitetici? L’estetica, per esempio, è un settore degli studi filosofici (il cui oggetto è la bellezza) ed è improbabile l’idea di poterla indagare esaustivamente con la sola razionalità; e l’arte è legata alle emozioni (tipo la mia, che ho descritto all’inizio), quanto di più lontano c’è dall’oggettività e dall’analisi scientifica. Dunque è possibile che la scienza possa approfondire l’arte con i suoi strumenti? Per certi aspetti no, ma per altri sì; andiamo a vedere.
Di tutti i filosofi e gli scienziati (e gli scienziati-filosofi, ce ne sono molti) che, in vari modi, si occupano di indagine scientifica del rapporto fra esseri umani e arte, tra quelli che conosco un po’ meglio ne scelgo due: Vittorio Gallese e Semir Zeki. Vittorio Gallese lavora all’Università di Parma e ha fatto parte del gruppo, guidato da Giacomo Rizzolatti, che ha scoperto (1991-92) i Neuroni specchio. Una sua conferenza molto interessante, e che dà un’idea di come lui affronti la questione dell’arte nel campo delle Neuroscienze, si trova su Youtube a questo URL: https://www.youtube.com/watch?v=zkb91Fjc-Tk . Gallese affronta la questione innanzitutto dal lato dell’espressività e, delle opere d’arte, enfatizza la capacità di comunicare “immediatamente e automaticamente” emozioni e stati d’animo agli osservatori. Oltre a questo parla dell’estetica come di un modo fondamentale di rapportarsi al mondo da parte degli esseri umani e lo storicizza: questa dimensione estetica sarebbe legata soprattutto all’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni e al predominio dell’immagine rispetto ai testi scritti nella comunicazione sociale. In più riconosce il fatto che le opere d’arte non si godono con i singoli sensi ma sono all’origine di esperienze globali perché è il corpo dell’osservatore che reagisce; la fruizione di un’opera d’arte non è un fatto mentale ma un fatto complessivo, che implica una profonda, pervasiva partecipazione del corpo dell’osservatore. Gallese ha coniato un’espressione, “sistema cervello-corpo”, per sottolineare la caratteristica di globalità che hanno le nostre interazioni con il mondo.
Da parte sua, Semir Zeki è docente di Neurobiologia allo University College di Londra e, nel 2001, ha fondato l’Istituto di Neuroestetica presso l’Università di Berkeley. C’è una sua conferenza su Youtube, intitolata “La neurobiologia della bellezza”, nella quale descrive i correlati neuronali della bellezza (e della bruttezza, si trova all’URL: https://www.youtube.com/watch?v=NlzanAw0RP4): osservazioni sperimentali (scansioni via TAC) sul cervello di fruitori di opere d’arte ha portato alla scoperta di alcune aree del cervello che si attivano con la percezione di qualcosa di bello, mentre altre con la percezione del brutto. La cosa più interessante è che, sul percorso dei segnali, c’è un tratto comune seguito da una specie di bivio e, ancora, non si è capito come fa il segnale, a fronte dell’osservazione di una stessa opera d’arte da parte di più persone, a indirizzarsi verso l’una o l’altra area. Infatti è normale che, sulla base delle condizioni di contesto, come anche dello stato e delle caratteristiche generali dell’organismo (è l’organismo nel suo complesso che “risuona” in un’esperienza estetica), persone diverse apprezzino una stessa opera in modi molto diversi o, addirittura, opposti.
Dunque è possibile investigare scientificamente le esperienze estetiche e risalire alle loro origini, alle loro “cause”? Evidentemente lo è. Ma basta la scienza attuale a capire bene di cosa stiamo parlando? E proviamo a pensare alla differenziazione delle esperienze: se l’esperienza estetica ha le caratteristiche di immediatezza, automaticità e globalità che abbiamo esaminato sopra, non è che reazioni di questo tipo ma non legate all’osservazione (o all’ascolto) di un’opera d’arte, possono essere definite allo stesso modo? Per esempio la reazione a fronte della degustazione di un cibo o di una bevanda, o quella di fronte a un fenomeno naturale (albe, tramonti, paesaggi…) o al gesto prestativo di un/una atleta. Le mie risposte sono le seguenti: è possibile l’indagine scientifica delle esperienze estetiche ma la scienza attuale non basta a capire bene di cosa stiamo parlando. E sulla differenziazione, sì: il rapporto degli esseri umani con il loro ambiente (sia naturale che sociale) si caratterizza, in prima battuta, come un’esperienza estetica. La razionalità non è scomparsa, però arriva dopo e ha caratteristiche particolari. Ma, anche qui, procediamo con ordine.
Nel 2015, insieme al gruppo di ricerca del quale faccio parte1, abbiamo dato anche noi un piccolo contributo a questo tipo di indagini scientifiche. Abbiamo studiato la fenomenologia dell’interpretazione dei testi scritti (come fanno, in concreto, le persone a dare un significato a ciò che leggono) e i risultati sono stati pubblicati e sono disponibili a questo URL: https://peerj.com/articles/1361/. In estrema sintesi, abbiamo scoperto che la decodifica dei simboli alfabetici (quella che impariamo a scuola) è solo l’inizio di qualcosa di molto più complesso: in realtà le persone decodificano tutto ma vengono colpite solo da alcune delle parole lette, e cioè quelle parole che fanno scattare in loro una reazione immediata, automatica e globale del tutto analoga a un’esperienza estetica. E questo non vale solo per i testi “artistici” in senso proprio (la letteratura), i quali sono proprio destinati a suscitare emozioni, ma per qualsiasi documento: la nostra ricerca l’abbiamo fatta utilizzando messaggi scambiati da due interlocutori in ambito di lavoro e aventi come oggetto questioni di lavoro. Dunque, di fronte a una qualsiasi esperienza, innanzitutto c’è una reazione immediata e automatica a livello dell’intero organismo; poi arriva il pensiero razionale il quale, però, ha dei vincoli e delle condizioni, per il suo manifestarsi, che qui non posso approfondire. In ogni caso questo è lo standard, gli esseri umani si rapportano al loro ambiente (naturale o sociale, non c’è differenza per il soggetto) sempre in questo modo: prima reagiscono e poi pensano, è un processo di natura estetica. La cosa non finisce qui e, in verità, una riflessione più distaccata, più oggettiva sull’esperienza è possibile; però questa non è automatica, e bisogna essere addestrati a farlo. E mi devo fermare per non andare troppo fuori tema.
Qui bisogna aprire una parentesi, perché le questioni già complesse che ho introdotto sono inserite in un quadro molto più vasto e profondo. Innanzitutto dobbiamo chiarirci sul cervello (o, meglio, sul Sistema Nervoso Centrale): molti (anche molti scienziati) considerano il cervello come un computer, una centrale di comando che elabora le informazioni provenienti dal mondo esterno e, in base alle sue elaborazioni, invia ordini a tutto l’organismo. Lo dico drasticamente: questa concezione è sbagliata (cioè non corrisponde a quanto di più avanzato si sa oggi). Ci sono nuove teorie che coinvolgono il corpo in tutti i processi vitali (compresi quelli mentali), le teorie cosiddette embodied (cioè “incarnate”), che sono molto più in linea con le osservazioni più recenti e con le evidenze sperimentali oggi disponibili, ma devo limitarmi a enunciarle, non c’è lo spazio per parlarne nemmeno brevemente. Ma, a parte questo, c’è un semplice calcolo che getta una luce nuova su tutto il Sistema Nervoso Centrale: si stima che i neuroni umani siano 100 miliardi, e che ognuno di loro stabilisca una media di 10.000 connessioni (con altri neuroni o con specifici organi); il totale è 1 milione di miliardi (1.000.000.000.000.000, cioè 1015 in notazione scientifica) di connessioni. Sono troppe perché ci sia una sola centrale di comando su tutti gli organi, che sono relativamente pochi; la cosa più probabile è che tutto sia collegato con tutto e che l’organo principale che dobbiamo prendere come riferimento quando pensiamo al Sistema Nervoso Centrale sia la RETE, la rete delle connessioni neurali. E questa rete è plastica, cambia in continuazione, e i suoi cambiamenti sono influenzati anche dalla vita psichica, non solo da quella fisica.
Perché è importante questa osservazione? Perché ci fornisce la base biologica sulla quale sostenere un concetto che oggi è condiviso da molti ma che mancava di questo concreto supporto: l’unitarietà dell’organismo umano. L’interazione degli esseri umani con il proprio ambiente può essere studiata da molti punti di vista, il comportamento umano può essere sezionato molto finemente (soprattutto per effettuare esperimenti di laboratorio); tuttavia, nelle interazioni reali l’organismo si comporta come un tutto unico. Se uno si chiedesse attraverso cosa, del suo organismo, l’essere umano interagisce con il proprio ambiente (naturale come sociale), la risposta dovrebbe essere “tutto”. L’unità di interazione con l’ambiente è l’organismo nel suo complesso, vita fisica e vita psichica fuse in modo che i loro apporti sono indistinguibili. E questo viene realizzato grazie alla rete.
Detto questo, dobbiamo anche introdurre una questione generale legata all’indagine scientifica della realtà. Concettualmente, metodologicamente, noi continuiamo a studiare il mondo con gli strumenti di Galileo (il determinismo, o meccanicismo, per il quale vale il principio di non contraddizione e ogni effetto che osserviamo ha sempre una causa). Ma questo “paradigma”2 è in discussione da più di un secolo3 e, oggi, forse ne intravediamo uno nuovo. Mi riferisco al paradigma della complessità, che inquadra i fenomeni naturali con un’impostazione diversa dal paradigma determinista, e in conseguenza del quale la legge causa-effetto andrebbe ripensata. Questo nuovo paradigma può spiegare molte cose che il determinismo lascia inspiegate. Anche qui devo tralasciare ogni approfondimento e mi limito ad aggiungere che una delle cose che vengono agevolmente spiegate dal paradigma della complessità (e non lo sono da parte del paradigma determinista) è come una serie di fenomeni spontanei possa dare origine a risultati che sembrano progettati in funzione di un fine anche se non lo sono4.
Queste due “parentesi” mi consentono, immodestamente, di proporre un paio di riflessioni rispetto ai lavori di Gallese e Zeki. Non si tratta di critiche, ovviamente, perché entrambi hanno evidentemente ragione; però i concetti da loro proposti possono essere estesi o integrati. Nel caso di Gallese propongo un’estensione che riguarda proprio il concetto centrale, cioè la reazione estetica globale (“l’estetica del mondo”, la chiama) che è una base del comportamento umano. Questa non è legata solo alla fruizione dell’arte e non deriva solo, storicamente, dal fatto che viviamo nella società dell’immagine, nella quale le immagini hanno sostituito i testi scritti. La reazione estetica è lo standard del comportamento umano, il nostro organismo si comporta così in ogni circostanza. Per quanto riguarda il lavoro di Zeki, propongo una semplice integrazione dicendo che non si riesce a spiegare, però si può comprendere, la difficoltà di risalire a ciò che fa scegliere ai segnali, quando arrivano al bivio, la direzione del “bello” o del “brutto”. Il punto è che non c’è una “causa” alla quale si possa risalire perché, grazie alla rete, tutto l’organismo è impegnato nel processo di valutazione e l’esito dipende da un’infinità di caratteristiche e di circostanze, da un complesso scambio di segnali nella rete del quale non si riuscirà mai a risalire all’origine, dunque alla causa.
Ma, in tutto questo turbinio di automatismi, la ragione c’è ancora? E dove sta? Tranquilli: la ragione c’è ancora e ha un ruolo fondamentale; solo che arriva dopo. Cioè il primo contatto con il mondo ha quelle caratteristiche di immediatezza, automaticità e globalità che abbiamo detto; la razionalità, il ragionamento, si innestano su questa reazione. L’essere umano prima reagisce e poi pensa, e anche in questo non è diverso dagli altri animali; però ha qualcosa in più. Questo qualcosa è basato sull’eccezionale sviluppo (eccezionale anche rispetto alle scimmie antropomorfe, quelle che ci sono più vicine evolutivamente) dei suoi lobi frontali, che gli consente di ritornare a distanza di tempo (pochi minuti, un’ora o giorni o settimane / mesi) sulle esperienze passate e di guardarle in modo più distaccato, come “dall’esterno”. In tal modo può fare altre valutazioni, più oggettive, e può preparare piani per eventuali attività future. Solo che questo non è automatico, bisogna essere addestrati a farlo, e sono molto pochi quelli che sono in grado di farlo spontaneamente. Sarebbe il compito dei sistemi educativi delle società avanzate (intesi nel senso più ampio possibile, a cominciare dalle famiglie) ma, purtroppo, anche questi attraversano una grande crisi, in questo momento, con livelli di efficacia progressivamente in calo.
Per concludere ripartirò dal cambio di paradigma scientifico accennato sopra; ho già detto che non posso entrare nei dettagli ma c’è comunque qualcosa che va aggiunto in proposito. Il paradigma corrente, il determinismo, è ben rappresentato dalla seguente citazione di Galileo:
La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
Dopo Galileo, la scienza è stata identificata soprattutto con ricerche di tipo quantitativo: ciò che non può essere espresso con i numeri è irrilevante o non esiste o non si può capire. Ma il paradigma della complessità riapre i giochi e considera anche la conoscenza analogica (in condizioni che siano adeguatamente controllate, naturalmente) come una forma legittima di sapere. Per motivi che non posso approfondire qui (ma sto raccogliendo materiali per parlarne più diffusamente) è in atto, in questo momento, una convergenza dei saperi che può portare a una sorta di riunificazione. Ovviamente non è che spariranno le specializzazioni e i “numeri”, non si va verso una sostituzione delle conoscenze quantitative da parte di quelle analogiche; in realtà servono entrambe e si andrà verso una coesistenza delle due linee di pensiero. Però il campo del sapere si allarga, e l’arte può essere una forma di ricerca della verità accettata anche in ambito scientifico. Può sembrare strano ma esiste un’estetica della scienza, e qualcuno molto più importante di me ne parla da molto tempo.
Owen Gingerich è un Professore emerito di Astronomia e Storia della scienza ad Harvard. Nel 1993 ha pubblicato un articolo (“L’astronomia all’epoca di Colombo”) su Le Scienze (edizione italiana di Scientific American) del mese di gennaio. In questo scritto l’autore tratta del periodo nel quale si preparava la rivoluzione astronomica, con il passaggio dalla concezione geocentrica alla concezione eliocentrica, e spiega che, sostanzialmente, i calcoli basati sul vecchio sistema tolemaico erano errati (i pianeti non si trovavano dove erano previsti, le eclissi avevano durate diverse dall’atteso e via dicendo) ma non fu questo che portò a cambiare la concezione dell’Universo. Le misure erano troppo grossolane e gli stessi dati si potevano applicare ugualmente bene al sistema geocentrico come a quello eliocentrico. E’ vero che il sistema eliocentrico poteva spiegare fenomeni inspiegabili per quello geocentrico, come l’apparente moto retrogrado di Marte, Giove e Saturno, ma non era sufficiente per buttare alle ortiche un sistema adottato da molti secoli. Sentiamo l’autore:
Di fatto, Copernico non disponeva di alcuna osservazione che comprovasse la sua nuova concezione… L’astronomo polacco era invece guidato da una visione estetica: ciò che voleva era una “teoria gradevole alla mente”…
Digges [il primo traduttore in inglese del libro di Copernico “De revoutionibus orbium coelestium”] e numerosi suoi contemporanei… cercarono a lungo prove empiriche che confermassero la disposizione eliocentrica dei pianeti, ma invano. Per coloro che comprendevano l’unitarietà del sistema eliocentrico, esso rimase un atto di fede, oltre che un’irresistibile attrazione estetica.
Come dire: la filosofia, l’arte e la scienza ricongiunte dall’estetica, nel segno dell’umanità.Immagine articolo Astrociti dell’ippocampo. Santiago Ramón y Cajal (1852-1934)
Note:
- 1. Gruppo di ricerca A.L.B.E.R.T. (ARPA-Firenze APS Landmarks on human Behaviour Experimental Research Team), interno all’Associazione culturale ARPA-Firenze APS.
- 2. Il termine è stato coniato nel 1962 da Thomas Kuhn nel suo libro “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”. Kuhn ha osservato che, mentre siamo abituati a pensare alla scienza come a un processo sociale che procede linearmente da uno stato di massima ignoranza a uno stato di massima conoscenza, il percorso reale della scienza è diverso, procede a balzi. Cioè, dopo la rivoluzione scientifica di Galileo (il “paradigma determinista”, prima parte del 1600), la scienza progredì sulla base della sua impostazione in un modo ordinario (scienza “normale”, la chiama Kuhn). Ma a un certo punto i paradigmi entrano in crisi perché il progredire delle osservazioni evidenzia aspetti della realtà che non sono più in linea con il paradigma corrente. Oggi siamo a un punto di questo tipo perché il paradigma determinista è in crisi e uno nuovo sta faticosamente cercando di emergere.
- 3. L’inizio della crisi può essere ricondotto a Werner Heisemberg e al principio di indeterminazione. Oggetto di pubblicazione nel 1927, confuta il principio di non-contraddizione, dato che moltissimi fenomeni naturali (oggi potremmo dire “tutti”) hanno doppie o multiple valenze (l’assioma “O sei A o sei B, tertium non datur”, non è valido).
- 4. L’esempio più usato è quello dell’evoluzione naturale (Darwin, 1850): sembra (sottolineo “sembra”) che tutto il processo sia orientato, in particolare sia finalizzato alla specie umana come punto di arrivo, come essere vivente più perfezionato, più evoluto. Ma non è così, perché un’analisi più distaccata dei dati disponibili e l’abbandono del pregiudizio antropocentrico portano a concludere che la specie umana era solo una delle possibilità, e il suo affermarsi è dovuto a una serie irripetibile di circostanze relative non solo alla specie, ma a tutto il contesto generale nel quale si è sviluppata.