“Cuncè fa freddo fuori? ” “Te l’ho detto Lucariè : fa freddo, fa freddo, fa freddo”. Vado citando “Natale in casa Cupiello” mentre cammino verso la cucina e la mia tazza di caffè fumante, illudendomi che così il gelo vada via, ma le parole descrivono non agiscono. Oppure si!

Scrivere è un gesto antico e intimo: si tiene una penna stretta tra le dita, pollice, indice e medio arroccati intorno ad un bastoncino di plastica. Amo scrivere così, come una scrittrice dell’ottocento, far fluire le lettere, cancellare e riprovare. Cercare il giusto elemento: il sinonimo di un verbo, di un aggettivo che dia aria alla frase. una finestra aperta. Ricordo il manoscritto del “Infinito” di Leopardi, conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, come un cimitero di parole listate a lutto. La scrittura per me è il legame più autentico tra il corpo l’immaginazione e la creatività della mente. Tutto il mondo è dentro quel gesto.

Il mio pensiero si scioglie, divaga, si espande, esonda con un semplice atto fisico racchiuso dentro la mano. Scrivo seduta su di una di quelle poltrone “rotabili” da ufficio davanti ad una scrivania antica, proveniente dalle stanze di un palazzo avito nel salernitano, appartenuta ai genitori di Alfredo e che lui “ereditò” quando arredammo questa casa in Paradiso. Pile di libri coprono il set di questo sceneggiato il cui cast presenta nobili figure di “attori”.

Vittorio Viviani, che incontrandomi in Via Carducci a Napoli nei giorni di metà novecento, mi diceva “Tu sì ‘o positivismo” salutandomi con affetto, dopo millenni non so ancora a che cosa si riferisse. Erri De Luca per il quale provo una venerazione da “adultscente” ( sic! l’ho scritto davvero ?). Lorenzo Marone, giovane amico il cui talento è stato barattato con la vendibilità da una editoria mercantile.

Guardo il verde di alberi bulimici che il vento forte fa piegare lì davanti a me nello spazio di una porta finestra, come un luminoso trompe- l’oeil. E’ il mio giardino segreto, bosco incantato, pensile babilonese nel centro di una Napoli di vicoli e scale. Che ha i colori dei luoghi descritti da Patroni Griffi. Che ha i suoni delle voci di Tullio De Mauro bambino. Questa è la mia terra, la mia casa, la mia lingua.

Sì, le parole agiscono: di fronte al quadro “Donna nuda su una poltrona rossa” di Picasso alla Tate Gallery londinese “sò rimasta carica è meraviglia” colpita dalla Sindrome di Stendhal.  Termini che confessano scelte sconsiderate, parole come “specista” che determinano alla lunga la sterminata scomparsa di esseri viventi, di specie animali, di alberi secolari dentro foreste amazzoniche. C’é chi nel ” cisgender” si riconosce al contrario di me che da adolescente comprimevo il petto perché simbolo indigesto della crescente femminilità.

Le parole agiscono e si fanno spazio in una folla giustamente furente contro la ferocia: “Donna, vita, libertà”. Nel brutto acronimo ” LGBTQ+” ci sono corpi che cercano di parlare, di farsi sentire…di scandire le proprie fisicità. L’acronimo li nasconde e li zittisce in qualche modo. Ne svilisce la carica rivoluzionaria, ne impoverisce la poeticità. Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, Transgender, Queer + = “Stessi diritti nella Diversità “.

Ieri è morto Salvatore Di Domenico, un vecchio signore malato da tempo. E’ morto solo come un cane. Ore nel suo letto prima che la porta fosse forzata dai vigili del fuoco. Povero, malandato: homeless con un tetto sulla testa. Era un vicino di casa, era un amico; aveva sei fratelli, persone mai viste, mai presenti. Per lui c’è stata, sempre e solo, la Solidarietà del vicinato.

Dall’agorà di Piazza S. Gaetano nella Neapolis appena eretta scoppia l’Hybris, sonorità di un fiore raro, orchidea bianca dal profumo di vaniglia. Hybris canta al contrario l’arroganza, la tracotanza, la prevaricazione. Hybris è nelle mani di chi colpisce per annientare i diritti di tutte le Mahsa Amini della Terra. Hybris è la violenza sugli animali chiusi in fabbriche di bistecche. Hybris è nelle menti di chi vede solo se stesso e i suoi interessi, di chi opprime, uccide, tortura e discrimina. Hybris è chi considera la donna una sottospecie, un diavolo in gonnella, una nemica da eliminare…

E’ dal corpo morente della Sirena Partenope, distesa su di una spiaggia ai piedi di Monte Echia che nasce Echidna, simbolo della lotta millenaria della donna per diventare Persona. Echidna è il nome di un ornitorinco dal lungo becco, animale in via di estinzione. Ma è anche un’antichissima divinità greca, metà donna e metà serpente. Bellissima fino ai fianchi con code di serpi al posto delle gambe. Rappresentazione della donna ancora divisa, dimezzata. Non del tutto consapevole di sé, della sua complessità, della sua splendida Diversità.

All’acronimo citato si aggiunga la lettera D per Donna. Echidna è un ibrido di bellezza e animalità . C’é nell’asprezza del suo corpo il segno indelebile di secoli di violenze da parte di chi la teme, di chi la considera sempre e soltanto madresorellasposa.  E’ la forma identitaria di un’Eva scampata all’Eden costretta ad affrontare gli stereotipi della Realtà. In Echidna c’è tutta la forza delle lotte combattute fino ad oggi dalle donne per poter trasformare quei serpenti in agili gambe.

Sì, le parole agiscono. Ogniqualvolta una parola viene dimenticata , non più usata, persa; ogniqualvolta una parola viene negata si crea un vuoto di libertà.