Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire.”

JEAN-PAUL SARTRE

Sotto l’assedio mediatico della guerra in Ucraina mi veniva di pensare alla crisi greca del lontano, ma non inattuale, 2009; alle sue cause, a come venne gestita dall’Eurocrazia, alle conseguenze economiche e sociali che ne derivarono nonché all’implicito monito, dell’epoca, per tutti gli altri paesi dell’Unione Europea (UE).

Andiamo brevemente all’origine dei due eventi critici.

Il primo è storia: il dissesto dei conti pubblici della Grecia, reso noto nell’ottobre 2009, quando George Papandreou (esponente del Pasok movimento socialista) apre ufficialmente la crisi, rivelando che i governi precedenti avevano falsificato i dati di bilancio dei conti pubblici per far sì che la Grecia entrasse nella zona euro. 

La crisi della repubblica ellenica del 2010 è causata dalla congiuntura generale negativa, dall’ambiente economico debole e della scarsa produttività, ma soprattutto è il risultato della cattiva gestione dei fondi pubblici e insufficienti pratiche di reporting sulla spesa pubblica1. La crisi sarà di lunga durata, dall’ottobre 2009 (quando Il governo greco aggiorna le proiezioni di finanza pubblica, portando il rapporto deficit/Pil dal 3,7% al 12,7%) al 22 giugno 2018 con lo storico accordo, dopo un interminabile negoziato, dell’Eurogruppo che “promuove” la Grecia, in quanto il governo ha approvato tutte le riforme richieste. In questi anni, stando alle parole del commissario europeo per gli Affari economici e finanziari Pierre Moscovici, la Grecia ha messo in atto 95 delle 110 riforme che le erano state imposte dalla troika. Dunque, la Grecia dopo 12 anni si libera della Troika, ma rimangono le macerie. Per anni, il sistema dell’Eurogruppo ha monitorato le diverse riforme a cui si è dovuta sottoporre Atene in seguito al “piano di salvataggio dal default” delineato da Bruxelles. Si è concluso così un ciclo di austerity sotto il controllo della Troika, che ha portato la Grecia a rispettare «duri impegni», come sottolineato dal primo ministro Kyiriakos Mitsotakis: tasse alte, tagli a salari e pensioni, all’istruzione pubblica e alla sanità2. Insomma, c’è un prima e dopo l’intervento di Bruxelles, che ha causato ferite che inevitabilmente faranno fatica a rimarginarsi.

Due considerazioni intermedie sono da farsi.

La prima, a livello politico, la Grecia e la sua economia non erano pronte ad entrare nell’Eurozona dell’epoca. Lo affermò anche Euclides Tsakalotos, il successore di Varoufakis, quando affermò, nel contesto della crisi: “permettetemi di essere schietto: non si può avere una valuta, con alcuni Paesi che vanno avanti e altri no, alla fine il giocattolo si romperà”. Arriviamo sempre allo stesso punto: c’è il Nord e c’è il Sud, che hanno approcci differenti alle cose. Continua Tsakalotos “se si vuole una valuta comune, occorre avere “convergenza” e per averla, occorre averne nel processo decisionale e fare in modo che i nordeuropei capiscano che ci sarà solidarietà solo attraverso politiche fiscali e politiche di stabilizzazione; è nella logica di una moneta unica”3.

La seconda, a livello etico, è che i Paesi membri dell’Unione hanno avuto un comportamento discriminatorio e poco solidale, molto lontano dagli ideali del Manifesto di Ventotene, uno dei testi fondanti dell’Unione europea (UE). D’altronde lo stesso Jean-Claude Juncker, ex Presidente della Commissione europea, ha affermato di recente che “il modo in cui l’Unione europea ha trattato la Grecia non è stato tra i migliori”. In particolare, continua Juncker: “ho sempre considerato che la distribuzione degli sforzi tra ricchi e poveri non fosse abbastanza equilibrata”.

A quest’ultimo proposito bisogna considerare una cosa importante, che in parte assolve i governi ellenici dell’epoca.

La crisi economica della Grecia è parte della crisi del debito sovrano europeo in quegli anni. Ma la crisi del debito sovrano nell’area euro trova le sue radici nella crisi del settore dei “mutui residenziali” statunitensi. Infatti, In seguito alla crisi subprime, numerosi istituti di credito europei hanno sperimentato gravi difficoltà e sono stati salvati da interventi pubblici.  Questi ultimi hanno esacerbato gli squilibri di finanza pubblica dei Paesi più vulnerabili (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) concorrendo a provocare una consistente contrazione del Pil, a livello globale, nel 2009. La crisi ha avuto epicentro nei paesi periferici dell’eurozona (Portogallo, Irlanda e Grecia) per poi estendersi nel corso del 2011 a Spagna e Italia4. D’altronde, il caso greco fu considerato, dall’Unione europea, una questione molto importante vista la possibilità che tale situazione si ripercuotesse negli altri mercati della zona euro5.

Di fatto, l’annosa crisi greca ha cambiato, tra le altre cose, la concezione stessa di Europa nella coscienza di tutti i suoi cittadini. Così come la stessa cieca adesione, e incondizionata, dei paesi europei alla guerra contro la Russia, lascia perplessa buona parte dell’opinione pubblica, in particolare l’Italia. Bisogna ancora ricordare che non ci sono guerre giuste? Che la stessa Ucraina non era parte dell’UE? E meno che mai della NATO? Che la stessa Europa è danneggiata più degli USA dalla guerra e dall’assenza di una soluzione negoziata, che riporti ordine in un contesto nel quale le responsabilità non sono, a detta di molti osservatori, unilateralmente attribuibili.

Se questa è, come detto, storia veniamo alla cronaca, alla guerra in corso tra Ucraina e Russia.

L’”operazione speciale” di Putin si è trasformata progressivamente in resistenza del paese “aggredito”, solidarietà Europea, forniture di armi dell’Occidente a Zelens’kyj, sempre meno difensive e più offensive. Oggi non si può negare che la Nato e la stessa UE sono in guerra con la Federazione Russa. Dunque, riemerge a distanza dal 26 dicembre 1991, data della dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’obiettivo di ridimensionare la rinascente autocrazia russa che, recuperata la sua identità e solidità economica con Putin, intende a sua volta difendere i suoi confini dall’espansione militare della NATO nell’Europa Orientale e della stessa UE, che tende inesorabilmente a inserire nella sua orbita paesi (ex satelliti dell’URSS) a basso grado di sviluppo economico, diversità culturale, nazionalismi crescenti e deficit democratici evidenti.

D’altronde non bisogna dimenticare che le ragioni per cui l’Ue e la NATO tendono ad inglobare i paesi ex sovietici sono diverse tra loro, mentre la radice comune dell’attrazione di questi paesi all’Occidente è il desiderio di entrare nel “bazar capitalistico”. In particolare, il richiamo per l’Eurozona è considerato in Europa Orientale principalmente una fonte di status e di finanziamenti. Mentre per quanto riguarda la NATO, sopravvissuta impropriamente all’omologo Patto di Varsavia, è testimonianza della maggiore rilevanza del vincolo militare con gli Stati Uniti d’America, rispetto a quello politico con Bruxelles, sempre tra i paesi ex-sovietici.

In ogni caso l’espansione a Est della Nato è inevitabilmente una fonte di preoccupazione per la Russia, che ora – a differenza dei tempi della guerra fredda – confina direttamente con paesi legati a un’alleanza militare nata proprio per contenere Mosca6. Considerando anche Le guerre illegali della Nato7, come documenta con rigorosa chiarezza lo storico Daniele Ganser in questo libro. Negli ultimi settant’anni sono stati i paesi della NATO – la più grande alleanza militare del mondo, guidata dagli Stati Uniti – ad aver avviato in molti casi guerre illegali per garantire e ampliare il predominio dell’impero americano, ignorando il divieto dell’uso della forza stabilito dall’ONU e riuscendo sempre a farla franca.
Ganser, attraverso l’analisi puntuale di tredici di questi conflitti – Iran, Guatemala, Egitto, Cuba, Vietnam, Nicaragua, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia, Ucraina, Yemen e Siria – e delle loro disastrose conseguenze per i popoli, evidenzia come la NATO abbia sistematicamente sabotato le regole delle Nazioni Unite, trasformandosi da alleanza locale con finalità difensive in un’alleanza aggressiva globale, fino a diventare un pericolo per la pace nel mondo.

Questo spiega in buona parte l’”operazione speciale” in Ucraina di Mosca insieme alle ragioni storiche del contrasto tra questi due paesi. La guerra del Donbass è un conflitto iniziato nel 2014 tra forze separatiste del Donbass ucraino, appoggiate dalla Russia, e forze governative ucraine, che ha lasciato sul terreno migliaia di morti, da sempre sottaciuti dall’Occidente. Ma perché Putin vuole i Donbass? È sempre stato un «cuscinetto di sicurezza» essenziale per Putin, nell’ipotesi d’un allargamento della Nato in Ucraina, ma anche per le sue risorse agricole e minerarie. E perché l’Ucraina vuole uscire dall’orbita della Russia? Alla base c’è la rivoluzione ucraina del 2014, nota anche come rivoluzione di Maidan, che ha avuto luogo nel febbraio 2014 a conclusione delle proteste dell’Euromaidan, quando scontri violenti tra i manifestanti e le forze di sicurezza nella capitale Kiev culminarono con la fuga in Russia del presidente eletto Viktor Janukovyč.  Nel cambio di regime si è passati da un Governo filorusso, con Viktor Janukovyč, a uno filoccidentale, con Petro Oleksijovyč Porošenko, a sua volta sostituito dal comico televisivo V. Zelensky, che lo ha sconfitto al ballottaggio con il 73,7% dei consensi e gli è subentrato nella carica. In mezzo c’è l’annessione alla Russia della Crimea (tramite il referendum sull’autodeterminazione del 2014) e gli accordi di Minsk (firmatari: Vladimir Putin e Petro Porošenko; mediatori: Francia e Germania) che avrebbero dovuto sanare la guerra “a bassa intensità” combattuta nelle regioni del Dombass. Questi prevedevano un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l’impegno, da parte dell’Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk. Se l’Ucraina proponeva una riforma dello Stato in senso federale, il governo russo pretendeva che le repubbliche di Donetsk e Lugansk avessero, tra le altre cose, un proprio corpo di polizia e un sistema giudiziario separato. Da qui emerge quella che forse è la ragione principale del fallimento degli accordi di Minsk. Insomma, un groviglio di interessi, ambiguità delle parti (compresi i mediatori), referendum e annessioni non riconosciute a livello internazionale, elezioni politiche che diventano golpe e viceversa. Come sempre in questi casi l’appartenenza ideologica delle parti in conflitto confonde verità e propaganda.

Ma i motivi fondamentali sono le posizioni filoeuropee dell’Ucraina e la possibile annessione dell’Ucraina alla NATO. In questo senso la possibilità di avere uno stato confinante facente parte della NATO però è bastato per mettere in allarme la Russia e farle percepire la minaccia di una sgradita espansione occidentale nel suo campo di influenza geopolitica. Anche se al momento l’allargamento verso Est della Nato, dalla caduta del muro di Berlino in poi, è cosa compiuta e si configura come una “NATO nella NATO”, una vera e propria alleanza anti-Urss che ora vuole arginare Putin.

C’è poi da considerare che dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) i leader dei maggiori paesi della Nato avevano promesso a Mosca che l’Alleanza atlantica non sarebbe avanzata verso Est «neppure di un centimetro». Una promessa smentita dai fatti, visto che da allora ben 14 paesi sono passati dall’ex impero sovietico all’alleanza militare atlantica8. Per tutta risposta, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ripetuto quella che per anni è stata la linea difensiva di Washington sull’allargamento a Est della Nato: «Nessuno, mai, in nessuna data e in nessun luogo, ha fatto tali promesse all’Unione sovietica». Una dichiarazione smentita dal settimanale tedesco Der Spiegel con uno scoop clamoroso, destinato a lasciare il segno. L’inchiesta, intitolata «Vladimir Putin ha ragione?» e ripresa integralmente negli Usa da Zero Hedge (blog anonimo statunitense su argomenti di finanza e geopolitica), si basa su un’ampia ricostruzione storica dei negoziati tra Nato e Mosca che hanno accompagnato la fine della guerra fredda. Tra i documenti citati, spicca per importanza quello scovato nei British National Archives di Londra dal politologo americano Joshua Shifrinson, che ha collaborato all’inchiesta del settimanale tedesco, basata su di un “verbale desegretato nel 2017”, in cui si dà conto in modo dettagliato dei colloqui avvenuti tra il 1990 e il 1991 tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania sull’unificazione delle due Germanie, dopo il crollo di quella dell’Est. Il colloquio decisivo, riporta Der Spiegel, si è svolto il 6 marzo 1991 ed era centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, guidata allora da Michail Gorbaciov”9. Ancora “di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti dei quattro paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest), impegnati con Russia e Germania Est nei colloqui del gruppo «4+2» (Trattato sullo stato finale della Germania), concordarono nel definire «inaccettabili» tali richieste”.

Tra cronaca (Ucraina e Russia) e storia (Grecia e paesi membri dell’UE), tutte e due “deformabili” e “interpretabili” a piacere, c’è di mezzo la questione dei costi monetari (i soli valutabili) dell’Occidente riguardo il mantenimento dello status quo dell’Unione europea (all’epoca) e dell’asse USA-NATO-UE (oggi e in futuro).

Ma quanto ci è costata a livello finanziario la crisi del debito sovrano della Grecia?

La Grecia non è più commissariata.

Salvarla è costato più del Pil del Portogallo10. Alla fine, il valore dei tre bailout (da stati membri dell’UE e FMI) della Grecia toccherà i 310 miliardi di euro (o 360 miliardi di dollari), valutazioni sempre difficili da fare in quanto i finanziamenti non comprendono gli effetti indotti della crisi sul capitale umano e sociale di un paese.

E quanto ci sta costando, sempre a livello monetario, l’incondizionato appoggio a quella che è oramai senza ombra di dubbio una guerra a “media intensità” tra USA e Russia, tramite la NATO, con la servile e dannosa partecipazione dell’EU. Solo per l’Italia, a gennaio 2023, la guerra in Ucraina è già costata 76 miliardi di euro11. Si tratta oltretutto di una stima per difetto, in quanto non considera i costi in termini di perdita della produttività delle imprese, di erosione dell’economia reale e del potere d’acquisto delle famiglie. E questo ragionamento vale per tutti i paesi coinvolti per cui le cifre successive sono sempre approssimate per difetto. Ma tra inflazione, caro-bollette, crollo del Pil, decreti vari, aiuti all’Ucraina e maggiori spese militari, la guerra avrebbe generato, in particolare, per l’Italia dei costi superiori ai 191,5 miliardi a noi destinati dal Pnrr.

E l’Unione Europea?

Dall’inizio della guerra di aggressione della Russia, l’UE, i suoi Stati membri e le sue istituzioni finanziarie, nell’ambito di un approccio Team Europa, stanno mettendo a disposizione 37,8 miliardi di euro per sostenere la resilienza economica, sociale e finanziaria complessiva dell’Ucraina, sotto forma di assistenza macro-finanziaria, sostegno al bilancio, assistenza emergenziale, risposta alle crisi e aiuti umanitari.

Inoltre, le misure di assistenza militare ammontano a circa 12 miliardi di euro, di cui 3,6 miliardi di euro sono stati mobilitati nell’ambito dello “strumento finanziario europeo per la pace”.

Ciò porta a circa 50 miliardi di euro il sostegno totale messo finora a disposizione dell’Ucraina dall’inizio dell’aggressione russa. Inoltre, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sta attivamente lavorando a un contributo di 1 miliardo e mezzo di euro al mese per favorire almeno le spese correnti dell’Ucraina12

Ma c’è da considerare anche il contributo complessivo di USA e Gran Bretagna.

A dodici mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti si confermano come il primo contributore mondiale al governo di Kiev in termini di aiuti militari, finanziari e umanitari. L’amministrazione Biden e il Congresso hanno mobilitato risorse pari a oltre 73 miliardi di euro, la cifra più alta13.

E la Gran Bretagna?

Londra, in misura minore, si assesta a fine 2022 a 4 miliardi, conservando però un rilevante ruolo strategico di “cinghia di trasmissione” con gli USA.

C’è poi da considerare la varietà nella composizione degli aiuti all’Ucraina da parte dei singoli paesi e delle aree geopolitiche di loro appartenenza. Aiuti finanziari, armi e sistemi di difesa, addestramento di truppe, logistica, sanzioni alla Russia e quant’altro concorre a rinforzare la coalizione di Zelens’kyj impegnata in quella “guerra occidentale” che paradossalmente Putin continua a chiamare a suo danno “operazione speciale”.

Facciamo i conti?

A quanto mi risulta la questione Grecia ha mobilitato risorse finanziarie per 310 miliardi di euro (360 di dollari). Mentre l’attualità Ucraina tra impegni monetari nazionali dei paesi UE e internazionali (USA e Gran Bretagna) ammonta a 203 miliardi, mescolando tre monete (euro, sterlina e dollaro) di unità monetarie diverse ma convertibili in una sola (quale che sia tra le tre).

Cui si somma la previsione della Banca Mondiale – al primo giugno del 2022 – per la ricostruzione dell’Ucraina, con costo stimato, all’epoca, di 349 miliardi di dollari, secondo lo sperimentato modello “produzione e distruzione”, inquietanti fratelli gemelli del capitalismo.

Costo totale, a guerra non ancora finita, pari a 552 miliardi (di unità monetarie diverse ma assimilabili); circa il doppio del salvataggio greco (finalizzato al recupero dei crediti delle banche tedesche e salvaguardia dell’affidabilità dell’area euro).

In fin dei conti ci è costato, complessivamente, meno umiliare un paese come la Grecia, patria dei valori della civiltà europea, salvando, in ogni modo, l’area dell’euro in gravi difficoltà, che finanziare una guerra tutta americana alla Russia per portare in Europa, e non è la prima volta, un paese come l’Ucraina a bassa intensità democratica e futuro fedele amico della NATO, in un contesto attuale geopolitico non definibile e a rischio nucleare (per la sola Europa).

1Associazione Nazionale Enciclopedia della Banca e della Borsa (ASSONEBB).

2L’INDIPENDENTE, venerdì 17 Febbraio 2023.

8START MAGAZINE, 26 Febbraio 2022,  https://www.startmag.it/mondo/nato-est/

9Ibid.

12Commissione europea, Solidarietà dell’UE con l’Ucraina, https://eu-solidarity-ukraine.ec.europa.eu/eu-assistance-ukraine_it

13Kiel Institute for the World Economy, centro di ricerca indipendente con sede in Germania, https://www.dire.it/24-02-2023/876861-guerra-in-ucraina-ecco-la-spesa-per-le-armi-usa-e-ue-primi-per-gli-aiuti/