È la domanda che si sente fare più spesso oggi; la si rivolge ai conoscenti, agli esperti ma anche a se stessi. Infatti, è costatazione comune che, da un certo momento in poi, la nostra quotidianità, più o meno tranquilla, sia stata scossa da una variegata serie di novità, a dir poco, inquietanti. Possiamo iniziare dalla pandemia da sars-covid 19 per proseguire con la guerra nel bel mezzo dell’Europa per finire con le recenti gravi calamità meteo-climatiche. Il tutto “condito” dalle fosche notizie economiche sull’inarrestabile inflazione, dai continui e mal gestiti flussi migratori (con le annesse “tragedie del mare”), dalle violenze di genere ed etniche, dal proliferare delle baby gang ecc..
La domanda è quanto mai pertinente perché tali eventi hanno avuto ed hanno tutt’ora rilevanza globale. Come se ciò non bastasse, si profila nuovamente un arroccamento dei paesi del nord del mondo su posizioni competitive e conflittuali anziché cooperative, nella ricerca del cosiddetto “nuovo ordine mondiale”.
Naturalmente, i fatti citati sono interconnessi ed è estremamente articolato definirne i legami ma di cui esiste, anche sul web, ampia letteratura. Per grandi linee, la risposta a cui possiamo ricondurne la genesi è semplice: il modello di sviluppo. Le conquiste nel campo della medicina e della tecnologia degli ultimi due secoli hanno portato benessere e, quindi, hanno favorito l’accelerazione della crescita demografica; tuttavia, il modello perseguito dalle grandi potenze susseguitesi nei tempi è basato sullo sfruttamento indiscriminato delle limitate risorse naturali ed è accompagnato da un incessante produzione di rifiuti insalubri e non riciclabili.
A parte le interconnessioni citate e le critiche ormai note al modello di sviluppo perseguito, quello che vogliamo evidenziare è che, purtroppo, detta risposta è darwiniana, dove il “purtroppo” è relativo alla presunzione dell’uomo di essere un’entità distinta dalle altre specie animali; in particolare, per la peculiarità di potersi evolvere anche in controtendenza alla dinamica darwiniana del “sopravvive chi è adatto all’ambiente di azione”. E, come già detto, ciò grazie soprattutto alle miracolose possibilità offerte dalla medicina e dalla tecnologia. Per la specie umana, è la ricchezza che rende “adatti” all’ambiente d’azione. L’empatia, la cooperazione e la solidarietà sono sempre più spesso sostituite dalla competizione conflittuale e dall’individualismo. Siccome i nodi vengono sempre al pettine, da quando si è realizzato che dette risorse sono in progressivo esaurimento, l’istinto ha iniziato a prevalere sulla saggezza e, ad esempio, in tempi di ristrettezze, quando la domanda supera l’offerta, i beni primari come la sanità, l’istruzione, la sana e completa alimentazione sono possibilità che diventano privilegio per ricchi e, in senso lato, per il nord del mondo.
Nonostante i movimenti giovanili richiedano un inversione di tendenza, la forte inerzia di tale modello di sviluppo non lascia molte speranze; la situazione appare irreversibile e si prospetta un avvenire distopico. Per giunta, le superpotenze (che pur si pregiano di firmare accordi internazionali che sanno di non potere/volere rispettare), invece di riconsiderare il proprio atteggiamento nei confronti della natura, cercano di risolvere il problema delle risorse aggredendo i fondali marini e le calotte polari e guardando perfino al cosmo.
I merito ai movimenti giovanili, questi focalizzano soprattutto sul global warming e, al riguardo, in un’altra riflessione (il Caosmanagement n. 123) si è voluto evidenziare come l’enfasi che oggi, sia pur giustamente, si dà al global warming faccia, al contempo, correre il rischio di dare più risonanza all’effetto che alle sue cause, di gravità superiore, cioè la produzione generalizzata di rifiuti. Il global warming, attraverso lo scioglimento dei ghiacciai e gli eventi meteo estremi, ne è solo il “tracciante” più evidente: le vittime umane di eventi meteo-climatici sono molto minori di quelle, ad esempio, provocate dalle polveri sottili e, per gli animali acquatici, dalle microplastiche. E possiamo continuare parlando dei danni provocati all’ecosistema Terra dal continente di plastica formatosi nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, generato da rifiuti in gran parte di origine alimentare, dall’agricoltura estensiva, madre delle deforestazioni e dell’accumulo di diserbanti e di concimi chimici nelle falde acquifere, dagli allevamenti intensivi e dall’uso massivo dei combustibili fossili, responsabili della produzione dei gas serra. Costituisce un rifiuto potenzialmente micidiale anche l’ingente quantità di scorie radioattive stoccate che dovranno essere presidiate militarmente per i prossimi millenni. E, a proposito di cosmo, intorno alla Terra già orbitano oltre 30˙000 residui di satelliti, di dimensione maggiore di 10 cm, che schizzano ad una velocità superiore ai 36˙000 km/h .
Intorno al 1970, il medico, biofisico e chimico James Lovelock (scomparso lo scorso anno all’età di 103 anni), coadiuvato dalla microbiologa Lynn Margulis, formulò “l’ipotesi GAIA” (l’ecosistema Terra nella sua globalità) nella visione che il divenire della vita fosse imprescindibilmente legato alla stabilità del delicato equilibrio che si instaura con la componente non vivente. GAIA funziona alla stregua di una struttura dinamica complessa, con un proprio sistema omeostatico di autoregolazione ed una propria capacità autopoietica. Come abbiamo articolato in una precedente nota (Il Caosmanagement n.125), l’impatto antropico sta minando la stabilità di tale equilibrio e sono possibili due scenari, entrambi rappresentabili con la classica pallina nel fondo di una scodella. Se si dà un colpetto alla pallina, questa comincia ad oscillare per poi fermarsi, per attrito, di nuovo nella posizione precedente (in realtà, un sistema complesso ha fluttuazioni intrinseche anche indipendentemente da perturbazioni esterne). Cioè, è possibile che l’impatto antropico su GAIA, impennatosi negli ultimi due secoli, stia provocando solo una fluttuazione intorno alla stato medio sperimentato dall’origine della civiltà umana (circa 10.000 anni fa); ma, anche se trattasi di una fluttuazione, le situazioni sono imprevedibili. Però è anche plausibile pensare che il colpetto dato spinga la pallina fino superare il bordo superiore della scodella; la pallina troverà sicuramente un’altra scodella nella quale rotolare (la Terra non può essere distrutta dall’impatto antropico, forse …). Ma che equilibrio sarà quello nuovo? Vale la pena provare? È prevista la vita nel nuovo equilibrio?
Per concludere la nostra riflessione, facciamo una breve analisi dei recenti disastri avvenuti nelle Marche e in Emilia Romagna. Essi sono solo gli ultimi di una lunga serie di analoghi accadimenti, a livello globale, che hanno come concausa eventi meteorologici estremi, sia in durata che in intensità (per la precisione, anche l’assenza duratura di perturbazioni è da considerarsi un evento estremo).
Semplificando, il sistema Terra è una macchina complessa che va ad energia solare (e, in parte, ad energia geotermica): estrae “organizzazione” dall’energia incidente e poi la riemette verso lo spazio ad una qualità degradata. L’organizzazione “strappata” alla luce solare la ritroviamo in tutto ciò che sulla Terra è, appunto, organizzato: la “vita”, i movimenti atmosferici, i movimenti oceanici ecc.. Di regola, il flusso totale è nullo: tanta energia entra e tanta ne fuoriesce dal sistema Terra (anche se di minore qualità); tuttavia, da qualche tempo, la potenza radiante rilanciata nello spazio, a causa dei gas serra, è mediamente minore di quella incidente. A causa di tale, seppur minimo, sbilanciamento, l’atmosfera terrestre si sta gradualmente riscaldando e ciò sta modificando il regime delle correnti deputate alla ridistribuzione dell’energia acquisita e, al contempo, si stanno riscaldando gli oceani e i mari. Ma un’atmosfera più calda ed energetica consente una più capillare diffusione delle situazioni estreme mentre i mari, più caldi, offrono un maggior apporto di vapor d’acqueo alle correnti in transito su di essi. Come in tutte le cose della complessità, i due fattori non si sommano, si moltiplicano.
Abbiamo parlato di “concausa” perché è irrefutabile il fatto che buona parte delle alluvioni siano provocate dalle esondazioni di torrenti e fiumi in ragione di una cattiva gestione e tutela del territorio e delle acque irrigue. In buona sostanza, la perdurante e irragionevole mancanza di una coscienza ambientale ha generato sia il global warming che la condizione territoriale che ne aggrava le conseguenze.