“In principio era il Verbo”, dice Giovanni Evangelista. “Un’immagine vale più di mille parole”, dice Mao Ze Dong. Ma in principio era il brodo primordiale e in moti casi una parola vale più di mille immagini.
L’uomo ha creato prima le immagini, poi le parole, o almeno le parole scritte. Il concetto stesso di preistoria implica civiltà non ancora capaci di raccontarsi con parole scritte, anche se capaci di fare tante altre cose. La scrittura a sua volta nasce da immagini sempre più stilizzate che rappresentano cose, persone, idee, e che poi diventano simboli grafici abbinati ai suoni del linguaggio parlato, suoni che esprimono emozioni, informazioni, ricordi, conoscenze. Si manifestano così le due tendenze del linguaggio, analogico quando cerca di imitare forme, colori, suoni, digitale quando li rappresenta con simboli astratti di qualità (lettere) e quantità (numeri). Ed è singolare che l’ambivalenza del linguaggio fra analogico e digitale dalla più remota antichità arrivi fino alle ultime frontiere della tecnologia informatica e robotica.
L’immagine è analogica, rappresenta la cosa cercando di assomigliarle. La parola è digitale, descrive la cosa con simboli. La relazione fra l’aspetto della cosa e la sua denominazione simbolica è convenzionale, e popoli diversi l’hanno espressa in modi diversi, scambiandosi radici linguistiche e modi di dire con le loro migrazioni, i commerci, le guerre.
L’immagine di una mela ci fa pensare alla mela, la parola “mela” lo fa solo se siamo italiani. L’immagine può aggiungere informazione alla parola: un’immagine satellitare ci fa vedere meglio un percorso rispetto alla sua descrizione. La parola può aggiungere informazione all’immagine: della mela possiamo dire che è una renetta della Val di Non, che è coltivata con antiparassitari chimici, che pesa tre etti e costa un euro. Ma poiché la relazione fra parole e immagini è convenzionale, le informazioni possono essere manipolate sia dalla parte dell’immagine, sia da quella della parola.
Da questa manipolazione deriva la comunicazione strategica, persuasiva, pragmatica, che spinge a modificare convinzioni e comportamenti in funzione di uno scopo auspicato dal comunicatore. Il professore, il formatore, il consulente, il terapeuta, il governante, l’ìimprenditore, il manager, si servono di tale manipolazione, a volte in buona fede e animati dalle migliori intenzioni, altre volte con l’intento, dichiarato o nascosto, di tirare l’acqua al proprio mulino.
Ciò che vediamo si combina con ciò che sappiamo. Proviamo a guardare una foto priva di qualsiasi didascalia, come questa bella montagna. Se la mostriamo a chi non conosce le montagne, ci dirà che è una montagna innevata. Un amante della montagna, o un cittadino di Zermatt, ci dirà che è la vetta del Cervino. Un alpinista ci dirà che quella in ombra è la parete nord, e che proprio al centro di essa corre il tracciato della via Bonatti. Uno storico dell’alpinismo ci dirà che Bonatti aprì quella sua celebre via nel 1965, cento anni dopo la prima salita fatta da Whymper, da solo, in inverno, in quattro giorni e quattro notti in cui dormì in un’amaca sospesa, e questa sua memorabile impresa fu l’ultima di alpinismo estremo, da cui si ritirò all’età di 35 anni. Un giornalista infine ci direbbe che l’impresa fu ripetuta in un giorno e una notte da Simon Messner (figlio del “re degli ottomila”) e Martin Sieberer nell’ottobre 2021 in omaggio a Bonatti. Tutto ciò serve solo a dare un’idea di quanta informazione verbale si può aggiungere all’informazione visiva della foto. E abbiamo tralasciato geografi e geologi, che ci avrebbero detto che il massiccio è di granito, la vetta raggiunge i 4478 metri, la montagna è stata “scolpita” dall’azione combinata di più ghiacciai, e così via.
Ma quello che sappiamo influisce su quello che vediamo. Se per esempio leggiamo un articolo di cronaca nerae guardiamo la foto del sospettato, magari tratta da un documento di identità, ci sembra che abbia una faccia da delinquente. Al proposito Ando Gilardi studiò l’effetto criminalizzante delle fototessere, che secondo lui veniva accentuato dal fondo bianco spersonalizzante e dalla perdita di qualità dovuta a fotocopie e riproduzioni con retini a grana grossa, come avveniva con i giornali dell’epoca (La “Storia sociale della fotografia” fu pubblicata da Gilardi nel 1976). Come esempio ho provato a criminalizzare me stesso, con questi risultati.
Nella prima foto sono un bonario nonnetto, nella seconda comincio a destare qualche sospetto, nella terza sono l’inquietante indiziato di reato.
Sui social network girano immagini con didascalie che suscitano interesse o scalpore, ma spesso sono il risultato di combinazioni arbitrarie, specialmente quando affrontano temi sensibili per l’opinione pubblica. Quando Virginia Raggi era sindaca di Roma comparvero foto di rifiuti urbani per deplorare le carenze del servizio di raccolta, ma spesso le foto provenivano da altre città. Le foto di rifiuti che appaiono ora (magari le stesse di allora) servono a una parte politica a dimostrare che i rifiuti ci sono ancora, all’altra parte che ci sono perché non c’è ancora l’inceneritore. E si tratta sempre delle stesse foto che si prestano ignare all’una e all’altra interpretazione!
Uno stimatissimo formatore mio amico ha condiviso la foto di quattro matite, tre con la punta consumata e una con la punta intatta, per incitare a mettersi in gioco e sporcarsi le mani facendo e rischiando di sbagliare. Io mi sono divertito a rovesciare il significato proposto da lui, mettendo a confronto la stessa immagine con due didascalie diverse, la prima originale, la seconda “rovesciata” da me. Ho aggiunto alla foto solo gli emoticon a sottolineare come la matita appuntita nel primo caso è “cattiva”, nel secondo è “buona”.
L’esempio delle matite mette quindi a confronto la stessa foto con due didascalie diverse che ne rovesciano il significato, trasformando il virtuoso in vizioso e viceversa. La foto è “innocente” e si presta ad ambedue le interpretazioni, ma anche a molte altre, tutte legittime. La punta è bella e raffinata, ma è fragile. La matita appuntita è perfezionista e ossessiva, le altre si lasciano vivere con maggiore relax. Le matite sono tutte uguali ma una è più uguale delle altre. E così via.
Ma anche le stesse parole possono assumere significati diversi a seconda delle immagini con cui sono abbinate. “Amiamoci come fratelli” ha un significato ben diverso se viene messa in bocca al Papa o ad una ragazza che mette in discussione il rapporto con il suo partner. In più, anche la scelta dei caratteri può accentuare visivamente la differenza di significato. Il Baskerville tutto maiuscolo ha la solennità delle epigrafi, delle dichiarazioni ufficiali. Il Comic minuscolo è fumettistico, colloquiale, adatto alla conversazione fra i due giovani.
L’immagine contestualizza l’enunciato verbale, mostrando la situazione e l’ambiente in cui si trova il “qui ed ora” di ciò che si dice. L’invito ad amarsi come fratelli può suggellare e rinforzare l’amicizia esistente fra due compagni di scuola, oppure invitare a cambiare registro se parla un intermediaro che fa da paciere fra i due antagonisti che si guardano minacciosi.
Da tutto ciò deriva il fascino e l’interesse di quadri, fotografie, film, romanzi, poesie, dove parole e immagini ci fanno ridere, piangere, sognare insieme con i personaggi delle storie. Ma si presta anche alla manipolazione persuasoria della pubblicità, della propaganda, per arrivare fino alle deprecate fake news.
Ho trattato i problemi di comunicazione verbale e visuale dedicando un intero settore del mio sito alla gestione a vista, a cui corrisponde un settore del mio Atlante di Problem Solving. Riguardo al tema specifico del rapporto gra parole e immagini, qui parlo di visualizzazione delle idee e verbalizzazione delle immagini:
https://www.problemsetting.it/mapping/gestione-a-vista/visualizzazione-e-verbalizzazione/
Qui parlo del visual thinking, dalla tecnica per pensare immagini mentali al metodo di visualizzazione di Dan Roam, utilissimi per tutti quelli che vogliono comunicare col supporto delle immagini, evitando di fare quelle noiose slide in cui si proietta la stessa frase che si dice a voce:
https://www.problemsetting.it/atlante-di-problem-solving/gestione-a-vista/visual-thinking/
Qui infine parlo della “scala dell’astrazione” di Samuel Hayakawa, uno strumento per passare da concetti astratti difficili da visualizzare a cose concrete facili da trasformare in immagini:
https://www.problemsetting.it/atlante-di-problem-solving/comunicazione/scala-dellastrazione/