Inutile girarci attorno. L’archetipo delle nostre paure a proposito di Intelligenza Artificiale è lui: il perfido, enigmatico, ostile HAL 9000 di Odissea nello Spazio.
Ma, in realtà, possiamo andare ancora più indietro. Sempre l’uomo ha temuto la hybris implicita in ogni sfida che l’ingegno lancia ai limiti imposti dalla natura alla fragilità umana. Ogni distopia partorita negli ultimi sessant’anni a proposito della guerra possibile, o forse inevitabile, fra «macchine» impazzite e fuori controllo e la nostra imperfetta intelligenza, in fondo, si inquadra in un immaginario collettivo plasmato da miti antichi e nuovi, da Prometeo a Faust, fino a Terminator, Matrix o Black Mirror, e oltre.
Non lo nego: ho sperimentato, come moltissimi, Chat GPT, e, prima ancora, Midjourney e DALL-E. per la creazione di immagini. Ho scritto i miei prompt1 maldestri, ho persino ribattezzato la voce artificiale che rispondeva alle mie domande, cercando di fornirle una parvenza di identità. Mi sono entusiasmata, mi sono annoiata, mi sono preoccupata. Ho provato, spinta soprattutto dalla mia curiosità di docente per le potenzialità insite in queste tecnologie algoritmiche. Ho letto le generalizzazioni della stampa mainstream, le semplificazioni, gli allarmi. Ho constatato la consueta polarizzazione fra «apocalittici» e «integrati» (ne parlerò in seguito). Sono arrivata a poche, incerte conclusioni che proverò a condividere in questa sede.
Prima di tutto: indietro non si torna. Che il cosiddetto «uomo della strada» se ne renda conto o meno, la tecnologia algoritmica pervade ormai ogni aspetto delle nostre vite connesse: ognuno di noi produce giornalmente e, soprattutto, inconsapevolmente, una quantità impressionante di dati, dati che vengono analizzati, manipolati, indirizzati, utilizzati attraverso procedure automatizzate in grado di processarli per gli scopi più diversi, finendo per impattare direttamente sulla qualità della nostra esistenza (per esempio, e si tratta solo degli aspetti meno problematici, attraverso la personalizzazione dell’esperienza dell’utente in contesti disparati, come le ricerche online, le raccomandazioni su servizi di intrattenimento tipo Netflix o Spotify o sui siti di e-commerce, la costruzione dei nostri feed sui social media, etc).
In secondo luogo. Quanti di noi conoscono l’effettivo significato dell’acronimo GPT? Domanda forse banale, ma essenziale. ChatGPT appartiene alla grande famiglia dei Large Language Model (LLM), nello specifico al gruppo dei Generative Pre-Trained Transformer (GPT, appunto), ovvero «modelli di linguaggio altamente capaci, addestrati su enormi quantità di testo per comprendere e generare linguaggio naturale». Chi me lo ha detto? Ma ChatGPT, naturalmente. E qui si tocca un aspetto fondamentale. Il timore si genera a partire dall’ignoranza. Ma l’ignoranza non partorisce solo paura e complottismi annessi e connessi. L’ignoranza genera manipolazione. Se non sappiamo, almeno a un livello basilare, come effettivamente funzionano strumenti che stanno diventando rapidamente sempre più potenti (al punto che molti nemmeno conoscono il significato del loro nome), se non pretendiamo trasparenza sul funzionamento del codice (che non è una formula magica al modo degli incantesimi di Harry Potter!) e sui dati utilizzati per l’addestramento dei modelli, rischiamo che i danni, in ultima analisi, superino i benefici.
Terzo punto. E allora che si fa? La risposta è davvero scontata. Si studia. E si condividono i risultati dello studio e dell’approfondimento. E qui, lo ammetto, parla la prof che è in me. Quello che vedo, e purtroppo lo vedo da tempo, nella scuola, italiana e non solo, sono, da un lato, un entusiasmo privo di riflessione critica sulle magnifiche sorti e progressive connesse all’innovazione ad ogni costo, dall’altro, una sconfortante tendenza repressiva. Gli smartphone sono il male. I social network sono il male. Internet, luogo di insidie, minacce e cyberbullismo, è il male. In altri termini, si ripropone in modo automatico la dicotomia usuale fra apocalittici e integrati, fra laudatores temporis acti e tecnoentusiasti senza se e senza ma. Nel frattempo, tuttavia, il mondo va avanti. L’intelligenza artificiale è qui, ed evolve rapidamente. Forse fin troppo rapidamente. Gli studenti e le studentesse avranno a che fare con questi meccanismi durante tutto l’arco della loro vita: impatteranno (e già lo fanno) sulle loro opportunità lavorative, sul loro modo di divertirsi, sui loro gusti estetici, sulla loro cultura, sulle loro relazioni interpersonali. Quello che occorre, a questo punto, è lavorare per promuovere la consapevolezza critica dei loro effetti e delle loro potenzialità. In altre parole, integrare consapevolezza algoritmica e conoscenza. Non proibire, ma insegnare usi corretti, limiti e responsabilità. Discutere. Sperimentare. Approfondire. Ragionare con i ragazzi e per i ragazzi di tutela dei dati, di privacy, di verifica delle fonti, e anche, perché no? di che cosa significa «pensare», che cosa vuol dire «apprendere», che cosa vuol dire «creare».
E qui tocco l’ultima delle mie (provvisorie) considerazioni. Come cambia la creatività ai tempi di Midjourney e ChatGPT? Mi sono stupita nel vedere i meravigliosi e inquietanti risultati che qualcuno riesce ad ottenere utilizzando i sistemi TTI (Text to Imagine) o TTV (Text to Video). Ho letto, pensosa, elaborati scritti su ChatGPT che avrei stentato a distinguere dai temi dei miei migliori studenti. So che si può produrre narrazione, poesia, musica, video, linee di codice, a partire da prompt ben costruiti. Tutto straordinario e sorprendente. Le macchine saranno in grado di sostituirci anche in quei compiti che riteniamo specificatamente umani? La cultura, l’arte, la bellezza. Il romanziere del futuro non sarà un uomo, ma un algoritmo? Io credo di no. Perché quello che manca, in un sistema che ragiona per probabilità e apprende da grandi quantità di dati, è, appunto, lo scarto creativo rispetto alle attese: che poi è l’essenza dell’arte. Voglio ancora credere che l’essere umano non sia una macchina. I sistemi automatici si basano, in fondo, sul conformismo. Rispecchiano l’omologazione del gusto e dei contenuti che sembra, oggi più che mai, così pervasiva. Ma il pensiero laterale, il rovesciamento delle aspettative, la sorpresa, la violazione delle regole, il gesto anarchico che mette in discussione quello che pare indubitabile, ci appartengono. In questo senso, le tecnologie sono strumenti non diversi da un pennello, uno scalpello, una macchina fotografica, una penna, un word processor. Tutti possono impararne gli usi basilari. Tutti sono in grado di apprendere la tecnica: come si scrive correttamente, come si costruisce la prospettiva, come si regola l’otturatore di una fotocamera. Persino Chat GPT o Midjourney. Ma quello che mettiamo dentro la tecnica, talvolta fino a stravolgerla, spetta a noi: o almeno a quei pochi che sono in grado di andare oltre, di spingere lo sguardo al di là delle barriere che ci chiudono nel già visto, già letto, già sperimentato. In questo senso, le Intelligenze Artificiali possono sì aiutarci nello svolgimento delle routine più ripetitive, ma non possono sostituirsi, almeno non ancora, al modo imprevisto in cui la cultura può interagire con la nostra individualità. In definitiva, siamo noi che scriviamo i prompt. Impariamo a porre le giuste domande, e non accontentiamoci delle risposte.
1 il termine “prompt” si riferisce a un’istruzione o una richiesta che invita una persona o una macchina ad agire o a rispondere in base alle circostanze o al contesto specifico.
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