Il linguaggio semplice dei liberisti contro quello della ragione

 

 

Chi pensa che in un dibattito tra persone, e ancor più televisivo, le solite farneticazioni siano più efficaci delle competenze; che la complessità è noiosa; o che le liste di pseudosinonimi con cui Salvini infarcisce i suoi discorsi; o che Trump, creerà benessere ai suoi cittadini perché il linguaggio che usa è al livello della seconda elementare (hanno spiegato i linguisti) e, dunque, raggiunge chiunque, non è pragmatico: è un liberista.

Forse non ideologicamente ma culturalmente: nel senso che ha ormai abbandonato ogni fiducia nella forza della ragione, del sapere, del buon senso, del rispetto per gli altri e persino della dignità e si è persuaso che l’unica cosa che conti sia il mercato, ovvero l’esercizio della violenza economica e pressione del potere sulle fasce più deboli e povere.

Un atteggiamento culturale che si avvantaggia delle reazioni “di stomaco” delle fasce più distratte e superficiali della popolazione non raramente indotte a un analfabetismo di ritorno dai media e dai sondaggisti.

È dagli anni Sessanta che incessantemente si sta promuovendo questa idea della politica e della società come spettacolo, della menzogna come altra dimensione della realtà.

Come vince il liberismo

Come vince il liberismo? Con la deregulation e con l’ignoranza e l’ignavia delle classi popolari.

La principale arma dei liberisti, oltre che sull’economia, agisce sulla morale e sulla cultura, sui codici e le aspettative, programmaticamente abbassate al livello minimo, quello dell’assoluta attualità, spacciata come unica realtà possibile.

In assenza di valori e di rispetto, cioè di storia e di progetti, si torna alle reazioni immediate, istintive, simili a quelle della mosca che torna incessantemente a sbattere sullo stesso vetro perché incapace di pensare alternative; e dunque si sviluppano i desideri e i bisogni prescritti dalla pubblicità, ci si emoziona non per quello che ci accade ma per le breaking news diffuse dai media e si vota per i candidati da loro indicati come i più telegenici.

Il trucco è ripetere ossessivamente che la gente non aspira a crescere e migliorarsi bensì, al contrario, desidera chiudersi nelle sue abitudini (indotte) e nella sua condizione di ignoranza e passività, terrorizzata o, peggio, irritata dalla sola prospettiva di avventurarsi al di fuori della sua comfort zone, “zona di agio”.

Così stanno trasformandoci in mosche: un testo più lungo di 140 caratteri è faticoso e comunque è meglio un’immagine; e pure le immagini devono essere leggere e veloci; un video di più di sei secondi rischia di far cadere l’attenzione. Ecco la ragione del successo di X o di Instagram.

È un versante molto pericoloso.

L’incompetenza, la superficialità, la cialtroneria, l’ignoranza non risolveranno i problemi del pianeta o dei popoli e neppure quelli degli individui; e oggi, a differenza che in passato, fallire può condurci all’estinzione.

Millantare il governo “dei migliori” a fronte di un consiglio di ministri di familiari e di “scappati di casa” è una responsabilità sociale enorme, probabilmente non un reato giuridico, certamente un reato etico.

Credere che per fermare il degrado sociale e ambientale, o anche solo quello economico, bastino le battute di chi sa bucare lo schermo è peggio che una manipolazione; è una tragica illusione: o, meglio, è una truffa.

Il liberismo è riuscito a ottundere le coscienze e a convincere tanti che sia solo questione di apparenze, di benessere economico individuale; ma i fatti restano immensamente più forti delle chiacchiere e la realtà è infinitamente più reale della virtualità mediatica, dell’abbattimento della coscienza sociale della popolazione.

Al di sotto della superficie si stanno accumulando enormi tensioni e il carico di rottura potrebbe venir raggiunto a breve.

Ormai solo un dio ci può salvare, disse un filosofo tedesco mezzo secolo fa, nel suo testamento spirituale.

Non è vero: nessun dio ci salverà ma dobbiamo e possiamo salvarci da soli.

Però non c’è molto tempo e siamo diventati troppo potenti e troppo sapienti per poterci permettere la stupidità. Tantomeno al potere.

Nell’etimologia della politica, il bene comune

Oggi noi tutti ci serviamo quasi quotidianamente in italiano dei termini “politica”, “geopolitica“, “filosofia politica”, “partito politico”, “rappresentanza politica”, “scienza politica”, “partecipazione politica”, “uomo politico”, “politiche culturali”, politiche sociali”. In inglese sono d’uso frequente “politics”, “policy”, “polity”, a seconda degli ambiti di appartenenza.

Ma quale parola è stata la madre di questi sostantivi e aggettivi? Quale lingua antica dobbiamo effettivamente ringraziare? Senza dubbio il greco antico, della civiltà ellenica e, in particolare, la parola “polis”.

Questo sostantivo è tra i più ricchi di significati all’interno del lessico greco e quello che crea più problemi d’interpretazione e traduzione agli studenti del liceo classico, giacché muta completamente significato a seconda del contesto nel quale si trova.

Il suo significato passa con disinvoltura da “città” a “città fortificata”, a “regione”, “cittadinanza”, “città a regime democratico”, “repubblica”, “condizione di cittadino”, “abitanti”, e via dicendo.

Nella civiltà ellenica, in particolare ad Atene, la” polis” era fondamentale non solo dal punto di vista politico, sociale ed economico, ma anche, e soprattutto, sotto il profilo psicologico ed etico-morale.

Cosa significava “polis” per un Greco?

Essere un “polites” cioè un cittadino, nel pieno dei suoi diritti e doveri, indipendentemente dagli avi che lo hanno preceduto, che ha la facoltà di prendere parte alle decisioni comuni, proponendo, attraverso la libertà di parola, quello che ritiene sia il consiglio migliore per la comunità.

Il “polites” si sente coinvolto nella gestione della vita della sua città in prima persona: soffre, ama, s’impegna con ardore per i suoi concittadini.

La meta finale della politica era infatti “il vivere bene”, dove gli interessi dell’individuo coincidono con quelli della comunità.

E il “vivere bene” non nasce dove e quando c’è un conflitto fra la società e l’individuo causato dalla distanza fra chi è al potere e chi è sottomesso.

Ognuno trova il proprio benessere e la propria realizzazione nella partecipazione alla vita collettiva e nella costruzione del “bene comune”.

Platone (428– 348 a.C.) intende la “polis” come un organismo educativo collettivo nei confronti del singolo: a capo di tutti e di tutto devono essere collocati i filosofi, cioè i saggi per eccellenza, coloro che sono in grado di agire a vantaggio del bene di tutti, nessuno escluso.

Fondamentale per Platone è la separazione della ricchezza dal potere, perché solo così si garantirà alla comunità piena e totale integrità morale.

Ed è sempre Platone che si lamenta che spesso si presti più attenzione nello scegliere con scrupolo un allestimento teatrale o l’equipaggio di una trireme, piuttosto che le persone che ci devono governare.

Vediamo come siamo messi

Il campione è Francesco Lollobrigida, ministro cognati causa. L’altro giorno da Pescara ci ha rivelato che medita di modificare l’art. 32 della Costituzione, “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” per inserire il tema della sovranità alimentare.

 

Altre perle: “i poveri mangiano meglio dei ricchi”; “Scegliere di portare la pasta italiana è una sfida alla space economy! Avremo una stazione sulla luna e su altri pianeti, senza rinunciare al grano dei nostri agricoltori!”; “Per fortuna la siccità colpisce il sud e non i vigneti del nord Italia”.

Memorabile la richiesta a Trenitalia, che obbedì celermente come avrebbe fatto con chiunque di noi, di fermare un treno ad alta velocità per farlo scendere. Ricordiamo con affetto quando respinse l’accusa di aver usato un’espressione neo-nazista, “sostituzione etnica”, ammettendo di non conoscerne il valore. Alla faccia dell’art. 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea del 2007 affermò con competenza scientifica che gli animali “non sono esseri senzienti”, quindi si possono mangiare (per sillogismo, ci ricorda Daniela Ranieri, possiamo mangiare pure alcuni ministri).

Menzione d’onore per la ministra al Twiga Daniela Santanchè, imputata per truffa aggravata allo Stato e acclarata imprenditrice di “(in)successo”.

Il ministro della presunta Giustizia Nordio vuole abolire intercettazioni, trojan e reato di abuso d’ufficio dopo aver pubblicamente dichiarato che un magistrato non deve entrare in politica neanche se in pensione; d’altronde per lui i magistrati sono psicopatici fino a prova contraria (il “test Minnesota”, superato dal ministro stesso, anche se con addebito).

Il presidente del Senato La Russa sostiene che i nazisti uccisi in via Rasella fossero “una banda musicale di semi-pensionati” e propone una “mini-naja di 40 giorni” per ragazzi che vogliano “partecipare alla vita militare”e “imparare cos’è l’amore per l’Italia”, convertibile in “punti per l’università” (vai col merito e la competenza).

Il ministro dell’Interno Piantedosi, passerà alla Storia per il decreto che ha spezzato le reni ai rave e, dopo la strage di Cutro, per aver rimproverato i genitori dei bambini morti, “irresponsabili” che non fanno abbastanza per il riscatto del loro Paese. D’altronde aveva definito i migranti “carichi residui”.

Per Valditara, ministro dell’Istruzione e nientepopodimeno che del Merito, gli studenti devono imparare l’umiliazione (ma voleva dire “umiltà”: sapere l’italiano è un dettaglio per il Ministro del Merito): sua l’idea del liceo del Made in Italy per “valorizzare e promuovere le eccellenze italiane”, un flop epocale con meno iscritti di una bocciofila di paese.

Notevole Genny Sangiuliano, ministro della Cultura: allo Strega vota i libri che non legge (ma promette che li leggerà); offre il Colosseo (o Pompei) a Zuckerberg e Musk per azzuffarsi in una location antica romana; sostiene che Dante sia “il fondatore del pensiero di destra in Italia”; colloca Time square a Londra. Cultura a tutto campo.

Vittorio Sgarbi coinvolto in due indagini delle forze dell’ordine: una sul quadro di Rutilio Manetti rubato nel castello di Buriasco (Sgarbi è indagato per riciclaggio), l’altra sul capolavoro di Valentin de Boulogne che stava per essere venduto all’estero, il che è valso a Sgarbi un’accusa per esportazione illecita di beni culturali, alle quali si aggiunge (1996) la condanna definitiva a 6 mesi e 10 giorni di reclusione e 700 mila lire di multa per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato.

Chiudiamo con prove di coerenza di Giorgia: “L’Europa è preoccupata a causa mia? È finita la pacchia”; “Niente scherzi! Gli aumenti previsti vanno bloccati e le accise esistenti vanno abolite”.

All’inizio si faceva chiamare “il Presidente”, poi ha ripiegato sul più casual “Giorgia”perché lei è “del popolo”: villona con piscina da 1 milione di euro a parte.

Non siamo messi proprio bene!