Parlare della forza delle donne è doveroso per sfatare quello stato di inferiorità che, così dicono, le ha volute fragili, indifese, non adatte a ruoli istituzionali e imprenditoriali perché in alcuni giorni del mese sono nervose, intrattabili, vaghe, spossate e la resa è scarsa, restano incinte, devono allattare, accudire, curare ecc.
Un’opinione che non ha fondamento perché le donne hanno dimostrato un’ eccezionale capacità di agire e di muoversi nelle varie incombenze quotidiane in maniera accorta, mettendo in moto una tale carica di energia da consentire loro di portare a termine qualunque attività. La straordinaria resistenza fisica e morale ha permesso loro di attraversare i secoli con le braccia sollevate per sostenere il cielo, altrimenti il mondo sarebbe andato in frantumi.
La forza d’animo, unica, profonda, tenace, caparbia, è stata, e sta, nella capacità quotidiana di far trovare sul tavolo del cibo per sfamare i propri cari, i fiori sul balcone perché profumino e diano gioia all’animo, di mettere impegno e competenza nel lavoro, ottenendo qualità e risultati, il tutto spesso rubando ore al sonno.
Le donne hanno sempre cercato la collaborazione con gli uomini, non per competere, primeggiare o superare, ma per raggiungere degli obiettivi rivolti al bene comune, e la loro costante presenza ha segnato nella storia dell’umanità tappe importanti in tutti i campi: scienza, arti, cultura, assistenza e tanto altro.
Peccato che i loro nomi siano stati spesso omessi. Amo parlare di donne, di quelle semplici, quotidiane, che hanno vissuto nell’anonimato, che hanno reso possibile un cambiamento epocale di mentalità e hanno aperto strade di progresso e di emancipazione.
Vivendo nella zona mineraria del Sud Sardegna e conoscendo -per averle ascoltate- le vicissitudini delle donne di miniera so quanto hanno contribuito nel territorio al cambio di rotta verso l’emancipazione e migliori condizioni di vita.
L’industria mineraria nel Sud Sardegna
Con l’avvento dell’industria mineraria, nella metà dell’Ottocento, le donne sono entrate a lavorare nei piazzali per la cernita del minerale e nelle laverie spinte dal fatto di poter avere un lavoro che garantiva una paga, le affrancava dalla povertà secolare e concedeva loro indipendenza e libertà laddove i pregiudizi e l’arretratezza erano segno di sudditanza maschile.
Una forza che ha pervaso centinaia di donne giovani e meno giovani, convincendole ad uscire dalle pareti domestiche per essere riconosciute come lavoratrici, parte attiva e produttiva della comunità: da Montevecchio ad Ingurtosu, da Buggerru a Bacu Abis, da Monteponi a Masua, a Rosas, a Gonnesa, a Tinì, a Monte Scorra, da Villasalto a Lula a Gadoni, a Carbonia, a Su Zurfuru, all’Argentiera.
In quei luoghi di fatica esse hanno acquisito competenze, linguaggio, padronanza di sé, consapevolezza dei loro diritti e hanno lottato per una giustizia sociale.
Il loro esodo da casa alla miniera creò imbarazzo e disappunto nelle comunità, perché si trattava di un luogo riservato ai maschi in quanto la promiscuità era un incombente pericolo e la perdizione una conseguenza, ma non tornarono indietro, facendo crollare muri d’ingombro, andavano verso la parità senza timore. Nei libri di storia, nelle relazioni degli archivi minerari non vengono citate, ma esse sono state la forza propulsiva di questo “passaggio epocale” e da quel momento la loro storia è iniziata. Non importa se la paga era metà di quella degli uomini, se lavorano quanto loro e anche di più, se facevano dodici ore come loro e tornavano a casa a piedi nudi mentre loro avevano scarponi, se poi a casa dovevano accudire i figli, preparare la cena e anche accontentare il marito.
La cosa importante era essere entrate a far parte del mondo del lavoro. Determinate, hanno preso possesso dei piazzali delle miniere e delle laverie e ne hanno fatto il loro quartier generale, unendo forze e idee per cambiare le ingiustizie riservate ai lavoratori e in questa loro lotta erano inclusi maschi e femmine.
Le lotte dei primi anni del ‘900
Nel 1903, il primo sciopero della miniera di Montevecchio, 1500 gli addetti ai lavori. Troviamo le donne nei piazzali con le braccia incrociate insieme ai minatori a chiedere un aumento di paga, un orario che non superi le otto ore, l’abolizione delle multe, il controllo dei prezzi nelle cantine, ecc.
Donne solidali che non hanno paura di interloquire con i maschi e lottare in nome della giustizia.
Nel 1904 a Buggerru, nel piazzale davanti alla palazzina del direttore Giorgiades, protestano con i loro mariti per le ingiustizie perpetuate in miniera e poco dopo piangono sui corpi di minatori caduti sotto il piombo dell’esercito.
Maggio del 1906, lo chiamarono “la primavera del 1906”, solo che alla fioritura stagionale crescevano i morti ammazzati per la repressione delle lotte contro il caro pane. A Gonnesa muore ammazzata Federica Pilloni, cernitrice, rivoluzionaria e femminista che sventola un drappo rosso, simbolo del lavoro e del riscatto sociale. Nel 1906 a Cagliari le tabaccaie scioperano in massa per far valere i propri diritti. Nessuna manca all’appello.
Il maggio del 1920, ad Iglesias, vede altre ribellioni e altri morti ammazzati. Le donne davanti al municipio chiedono che il tragico evento non passi impunito. Nelle piazze dei paesi minerari le donne con il fazzoletto bianco in testa sono in prima fila a protestare e le loro voci fanno tremare gli uomini di potere. Ai fazzoletti bianchi si sostituiranno i fazzoletti rossi al collo e a Guspini sfileranno compatte centinaia di donne comuniste per manifestare la partecipazione attiva alla politica. Contageranno altre donne e la loro forza sarà quella di essere unite, solidali, determinate. Saranno le prime a entrare in politica e sapranno conciliare pubblico e privato mantenendo un equilibrio straordinario.
Il 9 marzo 1952, per la prima volta nella storia della Sardegna, tremila donne provenienti da tutte le parti dell’isola, in treno, in corriera, con mezzi di fortuna e a piedi si ritrovarono a Cagliari, al teatro Massimo per il loro primo congresso, animate dal desiderio di scardinare luoghi comuni e di discriminazione, avviare una stagione di riforme che le tuteli e garantisca opportunità di lavoro e di parità. Una quantità smisurata di mimose e garofani rossi rese solenne quella giornata sarda.
A guidare il congresso Nadia Gallico Spano e Joyce Lussu.
Aida Cardia Tore fece un’esaustiva relazione toccando i punti cruciali sulla situazione arretrata della Sardegna (lavoro, scuola, sanità) e, in quella occasione, molte delegate chiesero la parola.
“Il racconto di ogni donna”, scriveva Nadia Gallico Spano, “contribuiva a disegnare una mappa della Sardegna e dei suoi mali, con molta forza le donne di Carbonia descrissero le inumane condizioni di lavoro dei minatori e il loro riflesso sulle famiglie.”
Le figure, contrapposte, che hanno segnato la mia visione del mondo.
Una riflessione personale è doverosa, per chiarire meglio chi ha segnato la mia visione del mondo politico, religioso e sociale.
Sono nata nel 1940 a Guspini e ho vissuto in casa dei nonni paterni fino all’età di dodici anni. Un’infanzia e un’adolescenza ricca di affetti e di eventi che ricordo con una lucidità incredibile per essere stati impregnanti nella mia crescita ma due sono state le figure ”forti” che mi hanno segnato: mia madre Gina e mio nonno Antioco.
Mia madre, una donna dolcissima, colta nonostante avesse la quinta elementare, cosciente del suo ruolo, mi ha insegnato a pregare, a guardare le stelle, a sorridere ad osservare le buone regole di convivenza, a leggere libri, ad ascoltare, ad essere attenta ai bisogni altrui.
Una donna attiva: setacciava la farina, faceva il pane, cuciva i vestiti per noi figli e per tutto il parentado, curava i fiori del cortile, ma oltre agli impegni domestici andava alla prima messa del mattino, frequentava l’asilo salesiano dove ricopriva incarichi di rappresentanza, preparava conferenze e riusciva a catturare l’attenzione dell’assemblea, era iscritta all’Azione Cattolica e si occupava dei tesseramenti, e trascinava me e mia sorella in tutte le sue riunioni.
Era sempre elegante, i capelli all’angelo, usava i tacchi alti e le calze di nylon con la riga scura che mio padre controllava per vedere se era dritta. Ha partorito nove figli e non ha perso mai il sorriso.
Mio nonno Antioco lavorava nella miniera di Montevecchio nel reparto fonderia, ci andava a piedi, 9 km all’andata e 9 al rientro. Grande oratore, iscritto al partito socialista e passato al partito comunista non appena a Guspini si era formato un folto gruppo di minatori.
Aveva idee progressiste, praticava, predicava e lottava per la giustizia sociale. Aborriva i preti e la chiesa e usava verso di essi un linguaggio denigratorio. Stranamente con mia madre c’era un bel rapporto e aveva grande stima di lei. Era un nonno che raccoglieva tutti i nipoti e li intratteneva, ci portava in campagna a raccogliere mandorle, ad annaffiare le piante da frutto e ci parlava del duro lavoro di miniera, di ingiustizie, di padroni che sfruttavano l’operaio.
Insomma, sono cresciuta tra due fuochi e due canzoni : “Bandiera rossa la trionferà…” e “Santo Padre che da Roma ci sei meta luce e guida…” e con un ricordo vivido di mio nonno e di mia madre nella piazza XX Settembre di Guspini per le elezioni del 1947, ad ascoltare il comizio di una donna comunista: Nadia Gallico Spano. Mia madre era emancipata e intendeva vivere la sua esistenza in un paese dove erano garantiti libertà e diritti, mio nonno era maschilista, ma ascoltava il comizio di una donna…tanti muri erano caduti.
Sento che la mia forza interiore, quella dell’apertura senza bigottismi sia merito di mia madre e di mio nonno.
Vitalia Usai sul primo voto alle donne
E infine, la testimonianza di una cernitrice di Guspini, Vitalia Usai sul primo voto alle donne.
Questa donna, che sarà ricordata per la sua forza e intraprendenza, ha lasciato scritto: “Nel 1946 venne concesso il voto alle donne e fu un grande avvenimento che mobilitò tutta la popolazione femminile di Guspini. A braccetto con mio marito Silvio, la domenica mattina, mi recai a votare fiera e a testa alta, salendo i gradini della scuola elementare ‘Grazia Deledda’ come se stessi andando in chiesa a sposarmi. Ero felicissima di dire quello che pensavo e di essere iscritta nella lista delle donne comuniste. Nadia Spano, la moglie dell’onorevole Velio Spano, ci aveva radunate più volte esortandoci a partecipare attivamente alla vita politica del paese. Nelle donne guspinesi trovò grande adesione, erano di larghe idee, emancipate e progressiste. Io sono stata sempre a fianco di mio marito e dei minatori, nella lotta contro le ingiustizie e le oppressioni, partecipando a cortei e comizi con fierezza e orgoglio”.