Dal 1988, le ricerche sullo stato del clima vengono sottoposte al vaglio di un organismo internazionale, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), istituito nell’ambito del programma ambientale delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme, UNEP) e con il sostegno operativo della propria agenzia specializzata, la World Meteorological Organization (WMO).

L’IPCC non fa ricerca né realizza il monitoraggio di dati e parametri correlati con il clima ma, servendosi del contributo di migliaia di ricercatori di tutto il mondo (operanti su base volontaria), effettua un processo di controllo degli studi di settore mirato a garantire una interpretazione scientificamente fondata sullo stato attuale del clima e sul potenziale impatto ambientale e socio-economico dei cambiamenti climatici.

Il primo report dell’IPCC del 1990 confermava la fase di global warming atmosferico indicandone la causa nelle emissioni antropiche di gas serra. Ciò indusse le Nazioni Unite a indire la Conference on Environment and Development (UN-CED), tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 (“Summit della Terra”), a cui parteciparono 172 governi e oltre duemila rappresentanti di organizzazioni non governative. Il summit produsse la Framework Convention on Climate Change (UN-FCCC), un articolato trattato ambientale (“Accordi di Rio”) mirato, di fatto, ad una generica riduzione delle emissioni dei gas serra. Il trattato non fissava limiti obbligatori, rimandando ad annuali Conferences of Parties (COP) questa possibilità.

Per capire le difficoltà per concretizzare azioni è necessario accennare alle procedure. Un accordo viene stilato in esito ad una serie di incontri e, se soddisfa una quota consistente di parti (singole nazioni o comunità come la UE), viene adottato. Ciò non significa che tutti i Paesi concordatari firmano l’accordo: qualcuno firma subito (e la firma è solo una dichiarazione di intenti, un impegno), altri aderiscono successivamente ma succede anche che alcuni firmatari, fatte le debite valutazioni, dopo un po’ si ritirano. I Paesi firmatari si vincolano all’accordo mediante la ratifica dello stesso. La ratifica, quindi, precede il recepimento interno dell’articolato e l’introduzione dei cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC) ovvero i piani nazionali (non vincolanti) che evidenziano le azioni per fronteggiare il cambiamento climatico. Come si capisce, la filiera tecnico-politica è estesa e capillare.

Insieme agli “Accordi di Rio”, gli impegni più importanti sono stati concepiti nel “Protocollo di Kyoto” e negli “Accordi di Parigi”. Gli Accordi di Rio sono stati firmati nel 1992 da 154 Paesi (compresi USA e Cina) ma altri hanno aderito in seguito e l’accordo, infine, è stato ratificato da 197 parti (196 Nazioni più l’Unione Europea come blocco).

Il “Protocollo di Kyoto” è stato stilato con la COP3 (Kyoto, 1997) e impegna i Paesi più industrializzati, responsabili storici delle emissioni di gas serra, a ridurre le proprie emissioni del 5 percento, rispetto ai livelli del 1990, nel periodo 2008-2012 (periodo esteso al 2020 con l’emendamento di Doha, COP18 del 2012). Il Protocollo è stato firmato da 84 Paesi tra il 1998 e il 1999 e numerosi Paesi hanno aderito fino al 2020. Sono giunti alla ratifica 192 Nazioni più l’Unione Europea.

Alcuni obiettivi del Protocollo di Kyoto sono stati integrati e perfezionati nell’Accordo di Parigi, redatto durante la COP21 (Parigi, 2015). La riduzione dei gas serra è stata riferita ai livelli preindustriali, non più al 1990, e anche i Paesi emergenti si sono impegnati a contenere, attraverso minori emissioni, l’aumento della temperatura globale entro 2°C e, idealmente, entro 1,5°C. I Paesi firmatari sono stati 175, compresi USA e Cina, e altri hanno aderito successivamente. L’accordo è stato ratificato da 196 Paesi più la UE.

Detto ciò, è emblematico il comportamento degli USA, Paese apicale nelle emissioni di gas serra. Gli USA hanno ratificato gli Accordi di Rio con Bush presidente. Hanno firmato il Protocollo di Kyoto sotto l’amministrazione Clinton ma non lo hanno mai ratificato, ritirandosi completamente nel 2001 sotto l’amministrazione di Bush jr, esprimendo preoccupazioni riguardo agli impatti economici interni e all’assenza di obblighi per i Paesi in via di sviluppo. Con Obama presidente, gli USA hanno firmato e ratificato l’Accordo di Parigi, impegnandosi a ridurre le emissioni del 26-28 percento entro il 2025 rispetto ai livelli del 2005. Tuttavia, sotto l’amministrazione Trump, gli USA si sono formalmente ritirati dall’Accordo nel 2017, prevedendo svantaggi economici e competitivi. L’amministrazione Biden è rientrata nel 2021, rilanciando gli obiettivi climatici con un nuovo impegno a ridurre le emissioni del 50-52 percento entro il 2030 e investendo significativamente in energie rinnovabili e infrastrutture verdi. L’attuale rielezione di Trump lascia pochi dubbi sul futuro dell’adesione USA agli accordi!

Fasi altalenanti le hanno avute anche Paesi come Brasile (Bolsonaro vs Lula) e Canada; Russia, Cina e India, invece, hanno optato per recepimenti parziali degli accordi. Tuttavia, paradossalmente, è stata proprio la prima uscita degli USA dagli accordi di Parigi a consentire alla Cina di diventare gradualmente leader mondiale nelle filiere delle tecnologie green per le automobili, per l’eolico e per il solare.

D’altra parte, c’è da dire che l’Unione Europea (UE) è stata protagonista attiva degli accordi internazionali partecipando come entità sovranazionale, rappresentando i suoi Stati membri. L’Italia, in particolare, ha definito ambiziosi NDC, ancorché di implementazione farraginosa.

In sintesi, di fatto, a 32 anni dal Summit della Terra, hanno prevalso più le buone intenzioni che gli interventi fattivi. Una prima prova è data dalle numerose vittime degli eventi meteorologici estremi (che ormai stanno diventando la normalità) che si verificano in ogni area del globo.

Il global warming atmosferico sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai e, contemporaneamente, sta trasferendo calore all’idrosfera. I mari e gli oceani più caldi sono una enorme fonte di umidità per i flussi atmosferici. La condensazione esotermica dell’umidità induce la genesi di strutture nuvolose imponenti e persistenti che rovesciano acqua sui territori già violentati dall’uomo.

Qualche politico irresponsabile parla ancora di cicli naturali ma un incremento delle temperature così globale, intenso e rapido (150 anni dall’inizio dell’era industriale) non è stato mai riscontrato nelle affidabili ricostruzioni del clima del passato.

Una seconda prova è che nelle COP è diventato preminente discutere sul sostegno economico sia alle popolazioni colpite dalle calamità (alluvioni, siccità, carestie ecc.) sia alle comunità vulnerabili affinché attuino misure adattative al cambiamento climatico. Ci si sta rendendo conto del fatto che la transizione climatica è già in atto e che, seppur (auspicabilmente) bloccassimo immediatamente tutte le emissioni serra, ci sarebbe un’inerzia del sistema atmosfera-idrosfera di durata indefinibile (come abbiamo più volte ripetuto in precedenti note, tale sistema è complesso e, una volta destabilizzatone l’equilibrio, manifesta un comportamento imprevedibile e non controllabile).

È questa la cornice in cui si è svolta, tra l’11 e il 22 novembre, la COP29 a Baku, in Azerbaijan. Già la decisione di assegnare la COP29 all’Azerbaijan è stata criticata a causa delle violazioni dei diritti umani che avvengono nel Paese ma che poi a presiederla sia stato Mukhtar Babayev, attuale ministro dell’Ecologia e delle Risorse, è sembrata una beffa avendo egli lavorato per 26 anni nella compagnia petrolifera nazionale.

Un’altra delusione è derivata dall’assenza di numerosi Capi di Stato e di Governo e dal mancato segnale positivo pervenuto dal concomitante G20 di Rio de Janeiro. Un aspetto curioso (opportunistico) è stata la presenza (in maniera non ufficiale) dell’Afghanistan talebano proprio nella fase in cui, come si è detto, è divenuto preminente il sostegno economico alle comunità vulnerabili.

Come anticipato, è stata la COP dedicata principalmente alla finanza. Al riguardo, l’Assemblea ha avuto bisogno di un ulteriore giornata per perfezionare gli accordi relativi al nuovo fondo per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. L’impegno finanziario è stato fissato in 300 miliardi di dollari annui fino al 2035 (fondi pubblici e privati) già precedentemente giudicato insufficiente dal cosiddetto G77+Cina (Paesi emergenti e in via di sviluppo), coadiuvato nelle valutazioni da oltre trecento Ong presenti al meeting. Inoltre, nel documento finale, per ragioni riconducibili agli Stati la cui economia è legata al petrolio, non si è ripreso e concretizzato il discorso sul graduale abbandono dei combustibili fossili, come era stato auspicato durante la COP28 di Dubai.

In sintesi, senza mezzi termini, qualche giornale nostrano ha ironicamente classificato le risultanze della COP29 come “un Baku nell’acqua”. Il massimo funzionario per il clima delle Nazioni Unite, Simon Stiell, ha commentato che “nessun Paese ha ottenuto tutto ciò che voleva e lasciamo Baku con una montagna di lavoro ancora da fare”. E ciò non è di buon auspicio nemmeno per la futura COP30 del Brasile, dove tutti i Paesi dovrebbero presentare i loro nuovi NDC (Nationally Determined Contributions).