dal “Global Peace Index 2024” e dal “Living Planet Report 2024

Il panorama internazionale, come rivelato dall’edizione del 2024 del Global Peace Index (GPI), si mostra sempre più instabile e frammentato. L’Istituto per l’Economia e la Pace (IEP), autore di questo importante studio, classifica 163 stati e territori indipendenti valutandone il livello di pacificità, che copre il 99.7% della popolazione mondiale. I dati raccolti offrono una visione approfondita delle tendenze globali relative alla pace, al suo valore economico, e alle strategie per costruire società pacifiche. L’analisi, basata su 23 indicatori qualitativi e quantitativi, evidenzia un peggioramento della situazione, segnando il dodicesimo deterioramento negli ultimi 16 anni.

La metodologia del GPI si basa su tre domini principali: la sicurezza e la protezione della società, la conflittualità interna e internazionale, e il grado di militarizzazione.
Quest’anno, un nuovo indicatore di capacità militare globale, che incorpora sofisticazione, tecnologia e preparazione al combattimento, è stato introdotto. I risultati del 2024 indicano che le condizioni che precedono i grandi conflitti sono più diffuse di quanto lo fossero dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Si contano 56 conflitti attivi, il numero più alto dalla fine del conflitto globale, e si registra una diminuzione dei conflitti risolti, sia militarmente sia tramite accordi di pace. In particolare, la proporzione di conflitti che si concludono con una vittoria decisiva è scesa dal 49% negli anni ’70 al 9% negli anni 2010, e quelli con accordi di pace dal 23% al 4%.

Un aspetto critico evidenziato dal rapporto è l’internazionalizzazione dei conflitti, con ben 92 paesi coinvolti in scontri al di fuori dei propri confini, il numero più alto dal 2008.
Questo fenomeno, alimentato dalla compet
izione tra le grandi potenze e dall’ascesa di potenze di livello intermedio, rende più complesse le trattative e prolunga i conflitti. Dopo un periodo di miglioramento durato 16 anni, il livello di militarizzazione ha subito una regressione nel 2024, con deterioramenti in 108 paesi. La combinazione di questi fattori incrementa il rischio di nuovi conflitti rispetto a qualsiasi momento dalla creazione del GPI.

L’Indice ha rilevato un declino medio della pacificità globale dello 0.56%. Negli ultimi 16 anni, si sono verificati ben dodici peggioramenti, con 65 paesi in miglioramento e ben 97 in deterioramento. Si tratta del numero più alto di paesi in deterioramento in un singolo anno dall’inizio dell’indice. L’Islanda si conferma il paese più pacifico al mondo, in vetta alla classifica sin dal 2008, seguita da Irlanda, Austria, Nuova Zelanda e Singapore.
Allo stesso tempo, lo Yemen si posiziona come paese meno pacifico, seguito da Sudan, Sud Sudan, Afghanistan e Ucraina. Si evidenzia come il divario tra i paesi più pacifici e quelli meno pacifici si sia ampliato, arrivando al punto più critico degli ultimi 16 anni. Infatti, i 25 paesi più pacifici sono migliorati dell’1%, mentre i 25 meno pacifici sono peggiorati del 7.5%.

L’analisi degli indicatori del GPI mostra un quadro misto. Ben 8 indicatori hanno registrato miglioramenti, 13 sono peggiorati e 2 non hanno subito modifiche. I maggiori deterioramenti si sono verificati nel finanziamento delle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, nelle spese militari rispetto al PIL, nel numero di decessi causati da conflitti esterni e interni. Per contro, l’indicatore relativo alle dimostrazioni violente è quello che ha visto i miglioramenti più significativi.

Le dinamiche della guerra nel XXI secolo si sono evolute per via di due tendenze chiave: lo sviluppo delle tecnologie militari e l’aumento della competizione geopolitica. I gruppi non statali sono in grado di ingaggiare più efficacemente stati più potenti grazie all’uso di droni e altri dispositivi, con un aumento di attacchi da droni di gruppi non statali che hanno superato il 1.400% dal 2018. Inoltre, il passaggio da un mondo unipolare ad un mondo multipolare ha aumentato le competizioni, prolungando i conflitti. Le potenze tradizionali come Stati Uniti ed Unione Europea sono impegnate in molti fronti e ciò limita la loro capacità di gestione delle tensioni internazionali.

L’impatto economico della violenza sull’economia mondiale è stato stimato in 19.1 trilioni di dollari in termini di parità di potere d’acquisto nel 2023. Tale valore corrisponde al 13.5% dell’attività economica globale, o a 2.380 dollari pro capite. Questa cifra rappresenta un aumento dello 0.83% rispetto all’anno precedente, dovuto in gran parte a un incremento del 20% nelle perdite di PIL a causa dei conflitti. Spese militari e per la sicurezza interna rappresentano oltre il 74% dell’impatto economico totale della violenza.
In termini di impatto economico relativo al PIL, Ucraina, Afghanistan e Corea del Nord hanno subito i costi più elevati, pari rispettivamente al 68.6%, 53.2% e 41.6%.
Le guerre hanno un impatto devastante sull’economia. Ad esempio, l’economia ucraina si è contratta del 30% a seguito dell’invasione russa nel 2022, mentre si stima che la guerra civile siriana abbia portato a una contrazione del PIL dell’85%.

Il Living Planet Report 2024, pubblicato dal WWF in collaborazione con la ZSL (Zoological Society of London), dipinge un quadro allarmante dello stato del nostro pianeta e della sua biodiversità. Questa edizione del rapporto, intitolata «Un Sistema in Pericolo», sottolinea l’urgente necessità di un cambiamento di rotta per affrontare il declino della natura e le sfide ambientali che ne derivano. Il report, basato sull’analisi di circa 35.000 popolazioni di 5.495 specie di vertebrati, offre una valutazione approfondita delle tendenze attuali e delle loro potenziali conseguenze.

Uno dei dati più allarmanti emersi dal rapporto è il calo medio del 73% nella dimensione delle popolazioni animali monitorate a livello globale tra il 1970 e il 2020. Questo drastico declino è stato osservato in tutte le categorie di vertebrati, con le popolazioni di acqua dolce che hanno subito il calo più significativo (85%), seguite da quelle terrestri (69%) e marine (56%). A livello regionale, le diminuzioni più significative sono state registrate in America Latina e nei Caraibi, con un preoccupante declino del 95%, seguite dall’Africa (76%) e dall’Asia e Pacifico (60%).
Le cause principali di tale declino sono riconducibili al degrado e alla perdita degli habitat, causati in gran parte dalle nostre attività e dal sistema alimentare. Anche sovrasfruttamento, specie invasive, patologie e cambiamento climatico contribuiscono significativamente a questa problematica.

Il rapporto evidenzia alcuni punti critici dove il degrado degli ecosistemi sta raggiungendo soglie di non ritorno, o «tipping points». La perdita di queste aree chiave potrebbe innescare cambiamenti irreversibili con conseguenze globali. Tra gli esempi critici si segnala l’estinzione di massa delle barriere coralline, che comprometterebbe la pesca e la protezione dalle tempeste per milioni di persone; il collasso della foresta amazzonica che causerebbe il rilascio di enormi quantità di carbonio; l’indebolimento della circolazione oceanica a sud della Groenlandia, con la conseguente alterazione delle temperature in Europa e nel Nord America. Anche la perdita di ghiaccio in Groenlandia e Antartide potrebbe causare l’innalzamento del livello del mare con conseguenze drastiche per la vita di molte specie.

Il documento sottolinea, inoltre, l’insuccesso delle politiche globali attuali nel limitare il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Gli impegni presi dai vari paesi sono chiaramente insufficienti per raggiungere gli obiettivi stabiliti per il 2030, ovvero l’arresto della perdita di biodiversità, il contenimento del riscaldamento globale entro 1.5°C e l’eradicazione della povertà. La situazione è resa ancora più complessa dai vincoli esistenti che impediscono di intraprendere le azioni necessarie.

Per raggiungere un futuro più sostenibile e giusto per tutti, il rapporto propone un cambiamento radicale dei sistemi alimentari, energetici e finanziari. Le attuali pratiche di produzione alimentare, come sottolineato dal rapporto, sono responsabili di oltre il 70% del consumo di acqua e di un quarto delle emissioni di gas serra.
Nel settore energetico, il rapporto evidenzia la necessità di triplicare gli investimenti nelle energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica, e chiede la fine della dipendenza dai combustibili fossili entro il 2030. Le pratiche finanziarie attuali, inoltre, non riflettono il vero valore della natura, causando l’allocazione di ingenti risorse economiche in pratiche distruttive. In totale, circa 7.000 miliardi di dollari all’anno vengono indirizzati ad attività dannose per l’ambiente, mentre solo 200 miliardi di dollari all’anno vanno verso interventi che ne promuovano la salvaguardia.

Il rapporto sottolinea che la trasformazione di questi sistemi dovrà avvenire attraverso politiche innovative, tenendo a mente la necessità di proteggere i diritti, i valori e i bisogni delle comunità locali e delle popolazioni indigene. Al contrario, la frammentazione nella gestione delle problematiche e la mancanza di chiarezza e collaborazione tra i vari soggetti interessati sono un grande ostacolo al raggiungimento di soluzioni concrete.

I dati parlano chiaro: stiamo esaurendo le risorse del nostro Pianeta e la finestra di opportunità per invertire questa tendenza si sta rapidamente chiudendo. Affrontare le sfide del declino della biodiversità e del cambiamento climatico con la forza e l’urgenza necessarie richiede un cambiamento radicale e trasformativo nella governance e nell’economia globale, con un approccio che metta al centro le persone e la natura. Il futuro della vita sulla Terra dipende dalle scelte che faremo nel prossimo decennio.