Lavorare e sorridere è possibile
In un celebre testo della letteratura spagnola del XVI secolo, di autore anonimo, il Lazarillo De Tormes, il giovane protagonista si trova a essere, a un certo punto del racconto, servitore di un mendicante cieco estremamente avaro.
«Accadde che giunti a una località chiamata Almorox, al tempo della vendemmia, un vendemmiatore gli dette come elemosina un grappolo d’uva; e poiché solitamente i cesti vengono maltrattati e l’uva era in quel tempo molto matura, il grappolo gli si sgranava in mano e a riporlo nel sacco si sarebbe cambiato in mosto, inzuppando ogni cosa. Decise perciò che ne banchettassimo, così per non poterselo portar via come per farmi contento, dato che quel giorno mi aveva affibbiato non pochi colpi e ginocchiate.
“Ed ora voglio esser generoso con te, – mi disse, dopo che ci fummo seduti su un muretto – questo grappolo d’uva ce lo mangeremo insieme in parti eguali. Lo spartiremo in questo modo: una volta pilucchi tu e una volta io, col patto però di non prenderne più d’un chicco per volta, finché non l’avremo finita tutta, e così non ci sarà inganno“.
Così accordatici, attaccammo, ma ecco che al secondo colpo il traditore cambiò idea e cominciò a prendere due chicchi per volta, supponendo che io stessi facendo lo stesso. Quando vidi che rompeva i patti, non mi contentai di rendergli la pariglia, ma gli passai avanti e la mangiai a due e a tre chicchi per volta, come potevo. Finito il grappolo, se ne stette alquanto col raspo in mano, e, scuotendo il capo, disse
“Làzaro, tu m’hai frodato; giurerei davanti a Dio che tu hai mangiato i chicchi a tre per volta“.
“Non è vero, – protestai – cos’è che ve lo fa credere?“
Mi rispose il furbone: “Vuoi sapere da che cosa deduco che li hai mangiati a tre a tre? Io li mangiavo a due per volta e tu te ne stavi zitto”. Risi fra me e, benché ragazzo, presi nota della acuta osservazione del cieco».
Davanti all’inganno del mendicante cieco, il giovane Lazarillo decide di non reagire apertamente. Il cieco ha però capito che Lazaro ha deciso di non dire niente per poter rubare meglio e lo autorizza a vincere, per vincere lui stesso su un altro versante: lo potrà umiliare con la propria intelligenza e mostrare così la propria vera e ineguagliabile superiorità. L’ingannatore diventa ingannato per poter ingannare meglio. Questa è una storia ironica che ci diverte, ma ci svela allo stesso tempo le possibili dinamiche quando all’interno di un contratto non si pongono in evidenza i meccanismi applicativi ed anche i meccanismi di controllo.
L’ironia nasce dall’incongruità. Si afferma una cosa per lasciare intendere il suo contrario. Si evita la contrapposizione netta, ma si offre la propria verità, seppur sotto mentite spoglie. Noi, quando facciamo riferimento all’ironia, pensiamo sempre ad una figura retorica, ma questa è una limitazione. L’ironia è un più complesso processo comunicazionale di disvelamento. Dice un anonimo:
“l’ironia è l’ipotenusa del lato intelligente di una persona. Di base, ce l’ha solo chi è all’altezza”.
L’ironia è la capacità di dissimulare per affermare la verità con modalità non immediatamente oppositive, cercando di limare i contrasti anziché sottolinearli o, ancor peggio, esaltarli. L’ironia è un filtro grazie al quale significati diversi possono arrivare a pubblici differenti. Chi capisce il sottinteso e chi ne è estraneo. Questa duplicità non va intesa in senso negativo, ma semplicemente come possibilità di tenere unito il tessuto sociale.
L’ironia non va confusa con la menzogna. Con questa si vuol far credere agli altri una cosa diversa da quella che è realmente. Nell’ironia, sulla scorta di un tacito patto sociale, si allude a un contenuto che è in contraddizione con la forma per come appare “alla lettera”, con un obiettivo non di inganno tout court, ma di efficacia comunicativa o di riserbo verso alcuni e non verso altri.
Nel 1841 Soren Kierkegaard discute la sua tesi universitaria ”Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate”. Nel suo lavoro il filosofo danese sostiene come, nei momenti critici della storia dell’umanità, emergano due differenti spinte: la prima costituita dal far «venire in luce il nuovo», la seconda dal «soppiantare il vecchio».
Per poter attuare un cambiamento profondo nel corso della storia, così come nell’animo delle persone, sono fondamentali tre diverse figure: l’individuo profetico, in grado di dare una visione della direzione verso cui dirigersi, l’eroe tragico, che incarna i nuovi valori e una nuova etica e, infine, l’ironista, il personaggio di Socrate che, grazie all’arma dell’ironia, evidenzia le contraddizioni del pensiero vigente e pone le basi di un nuovo modo di pensare.
Oggi viviamo in un mondo di forti contrapposizioni, non sempre basate su elementi razionali, perché l’uomo di fronte ad un mondo sempre più complesso crede di avere a disposizione sempre più strumenti tecnologici e scientifici, ma al tempo stesso percepisce la propria difficoltà a comprendere il mondo che lo circonda, sempre più incerto e imprevedibile. L’ironia come abito mentale può essere un modo efficace per gestire le sfide e le difficoltà della vita organizzativa ed istituzionale. Può aiutare a mantenere una prospettiva equilibrata, evitando di cadere in inutili polarizzazioni.
Così come nella vita, anche nel lavoro l’ironia può costituire una risorsa preziosa. Il suo sapiente utilizzo è sinonimo di intelligenza ed empatia, può contribuire a rendere più sereno il clima lavorativo e aiutare ad instaurare relazioni di fiducia con colleghi e clienti. Quasi sempre, quando si elegge un leader, si tende a privilegiare quello più empatico ed ironico, purché ovviamente la sua ironia sia sempre bonaria e non si traduca in gratuito sarcasmo. Un sense of humor equilibrato e non forzato rappresenta sempre un valore aggiunto, sia per i singoli sia per l’organizzazione di riferimento. Lenisce i dissapori, smorza i conflitti, consente di dire con un sorriso cose spiacevoli, difficilmente spiegabili in altro modo, svela sottintesi non sempre esprimibili in modo aperto. Chi usa ironia e umorismo, nella vita professionale come in quella professionale, dimostra grande capacità gestionale e abilità nella gestione delle persone e delle situazioni. Tutto questo è ovviamente vero purché si parta dall’ironia verso se stessi. L’autoironia è la più alta forma di ironia. È la consapevolezza nei propri limiti e la capacità di dare il giusto peso a se stessi e alle cose che si stanno facendo.
Nella nostra attuale cultura il concetto di limite ha sempre una connotazione negativa, l’indicazione di una manchevolezza, di una soglia da superare. Nella cultura classica, al contrario, il limite aveva una valenza positiva: la possibilità di capire le proprie caratteristiche e le proprie qualità. Orazio ci ricorda che “est modus in rebus”, ogni cosa va trattata con moderazione. Sdrammatizzare i propri meriti e rimettere in discussione le proprie certezze non è solo un indispensabile esercizio per raggiungere la verità, ma è anche il mezzo per tessere relazioni sociali positive, finalizzate alla coesione sociale e a quella che oggi definiremmo “una buona governance”. L’autoironia deve essere alla base di una leadership efficace. La trasformazione che stiamo vivendo nel mondo del lavoro, con il continuo ridefinirsi del contratto psicologico tra dipendente e organizzazione, presenta aspetti che possono essere paragonati ad una sorta di “rivoluzione silenziosa”.
Prima i lavoratori inseguivano le imprese alla ricerca di un posto di lavoro, ora sempre di più avviene il contrario. Sono le imprese che devono cercare giovani disponibili a un lavoro stabile e sottoposto alle regole della fabbrica e delle aziende tradizionali. I lavoratori dicono di no a un sistema di lavoro centrato unicamente sulla massimizzazione del ritorno dell’investimento per gli azionisti. La crescente diffusione di competenze digitali, tecnologiche e creative ha creato un mercato del lavoro dove la domanda di talenti supera l’offerta. Di conseguenza, le imprese devono ripensare il loro modo di attrarre e trattenere i talenti. Non è più sufficiente offrire uno stipendio competitivo o buoni benefit.
I lavoratori cercano esperienze, sviluppo professionale continuo, un ambiente di lavoro flessibile e, soprattutto, un senso di significato nel proprio ruolo. Le aziende che non sono in grado di rispondere a queste nuove esigenze rischiano di perdere i migliori talenti. Non a caso si è visto un aumento del turnover e dell’adozione di modelli di lavoro flessibili, come il lavoro ibrido o da remoto, che sono oggi tra i principali criteri di scelta per molti professionisti.
Questa inversione di potere non significa, però, che le aziende siano completamente svuotate della loro capacità di influenzare i lavoratori. Al contrario, le imprese che sanno ascoltare e interpretare le nuove esigenze dei collaboratori possono creare ambienti in grado di promuovere un senso di appartenenza e di coinvolgimento autentico. L’era della mera “idelizzazione“ forzata è ormai superata; oggi si parla di costruire una relazione più simmetrica, basata sulla fiducia reciproca, sul continuo scambio di valore e sulla possibilità di crescita reciproca.
In sintesi, i rapporti di forza si sono ribaltati perché i lavoratori hanno acquisito maggiore consapevolezza e libertà. Tuttavia, le aziende più lungimiranti non vedono questo cambiamento come una minaccia, ma come un’opportunità: per innovare, per migliorare le proprie pratiche e per diventare luoghi in cui le persone rimangono perché scelgono di farlo e non in quanto devono. In questo contesto è più che mai all’ordine del giorno una nuova leadership. Persone al vertice delle imprese con minore auto centratura, più dialoganti e più inclini all’ascolto. Persone con maggiore autoironia e con capacità di maggiore empatia nella relazione con i parigrado e con i collaboratori.
Persone in gradi di gestire i conflitti senza esacerbarli, trasformandoli da muri insormontabili in ponti di dialogo, e capaci di favorire comprensione e collaborazione. In un mondo del lavoro sempre più complesso e sfidante, l’ironia e l’autoironia si rivelano alleate preziose: non solo disarmano i conflitti, ma creano spazi di autenticità dove la creatività e la collaborazione possono prosperare. Imparare a sorridere, anche di fronte alle difficoltà, è un segno di forza, non di leggerezza. L’ironia non risolve i problemi, ma aiuta a guardarli con una prospettiva diversa, aprendo la strada a soluzioni nuove e condivise.
Dove c’è ironia c’è apertura e dove c’è apertura c’è spazio per crescere insieme. Coltivare questa qualità nelle organizzazioni significa dare valore non solo ai risultati, ma anche alle relazioni che li rendono possibili.