La scelta effettuata all’inizio degli anni 90’ da parte dei grandi capitalisti mondiali di spostare gli investimenti dall’economia locale a prodotti finanziari ha permesso loro di accumulare ricchezze immense, questa scelta noncurante delle conseguenze sui territori, dove il sistema bancario non era più un motore funzionale allo sviluppo locale ma diveniva uno strumento per rastrellare i risparmi delle famiglie, risparmi accantonati con sacrifici e lavoro.
Questo tipo di politica ha portato il sistema alla crisi del 2008. Il fallimento di uno dei giganti della finanza ha rappresentato il punto di arrivo di un capitalismo finanziario attento solo a remunerare gli azionisti e la dirigenza.
Negli ambienti della finanza si cominciò a parlare che occorreva creare “nuovi modelli economici, più inclusivi e più giusti”, per rispondere alla “grande sfida” delle ingiustizie globali del mondo moderno “ promuovendo un senso di responsabilità locale, anzi personale, in modo che nessuno venisse escluso dalla partecipazione sociale”.
La scelta di reindirizzare gli investimenti finanziari è una modalità adottata per contrastare altre “linee di pensiero” come quella della “decrescita felice”, portata avanti dall’economista francese Serge Latouche, il quale afferma che per evitare il collasso del pianeta non basta risanare l’economia e rispettare la natura, ma bisogna favorire una maggiore cooperazione e altruismo nei rapporti umani,
«Dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario e contrastare l’oligarchia economica e finanziaria delle imprese transazionali che vivono della crescita e della distruzione del Pianeta».
La realtà metteva in evidenza come l’1% più ricco del mondo sia diventato molto più ricco, alimentando la disuguaglianza in molti paesi e giustificando le critiche sul capitalismo di oggi.
Alcune scuole economiche si cominciarono a domandare “come può il capitalismo evolversi per diventare più sostenibile e inclusivo, oltre ad affrontare le principali sfide della nostra epoca?”.
Gli imprenditori della classifica della rivista Time “Fortune 500” partecipanti al “Fortune- Time Global Forum”, in una serie di incontri sul tema “La sfida del 21° secolo: creare un nuovo patto sociale”, giunsero alla conclusione che se il capitalismo voleva continuare a svolgere un ruolo fondamentale nel progresso dei vari popoli, la formula di un capitalismo attento solo agli azionisti e ai soci era tramontata.
La proposta era che il “capitoliamo inclusivo” oltre agli interessi degli azionisti e della dirigenza doveva favorire la sviluppo dei territori e delle popolazioni dove finanziava gli interventi. L’economia non è una macchina ma una costruzione complessa, per farla funzionare non è sufficiente “il giusto assemblaggio dei pezzi” ma ha bisogno di una visione storica, politica, tecnologica e culturale.
Si tratta di accettare il principio che non c’è crescita economica senza sviluppo sociale.
Il “capitalismo inclusivo” cerca di far comprendere che un profitto meno elevata ma stabile nel tempo, garantisce una partecipazione dei territori condivisa sul piano economico, politico e sociale. Il capitalismo inclusivo si presenta con un manifesto che delinea le linee guida per coloro che vorranno sperimentarlo per i loro investimenti.
Il Capitalismo non è una macchina governata da leggi senza tempo.
Queste idee definiscono l’arte del possibile, informano le priorità, modellano le istituzioni e motivano l’azione. Costituiscono lo “spirito” di un’epoca, con tre pilastri:
- sfida climatica e opportunità;
- un futuro digitale per tutti;
- verso un futuro più inclusivo.
Il cambiamento climatico è forse la sfida più grande che l’umanità deve affrontare nel 21mo secolo. Minaccia che rischia non solo di esacerbare le disuguaglianze tra i Paesi e all’interno dei Paesi, ma anche tra anche di contrapporre questa generazione a quelle future.
I suoi impatti saranno distribuiti in modo non uniforme, con alcuni che ne subiranno il peso più di altri a seconda di dove vivono e di quanto sono ricchi. In effetti, i costi ricadranno in modo sproporzionato su coloro che sono meno in grado di gestire lo stress.
La rivoluzione digitale ci sta aiutando a lavorare insieme in modo prima inimmaginabile. Ma per favorire una crescita più equa ed inclusiva, il capitalismo dovrà affrontare i divari di accesso digitale per individui e organizzazioni.
Una rivoluzione in accelerazione. La rivoluzione digitale incarna quella del capitalismo, ha in se un immenso potere e potenziale di innovazione e cambiamento. Nuovi strumenti, tecniche e modalità di lavoro digitali sono diventati realtà, hanno già favorito incredibili benefici materiali. Eppure, allo stesso tempo, per i progressi digitali si generano tensioni. Senza accesso a un computer o a internet, o senza le competenze per usarli, gli individui sono bloccati, tenuti fuori dall’economia della conoscenza. Ciò può alimentare la disuguaglianza. Ogni società ha persone e luoghi che rischiano di essere lasciati indietro.
Tracciare il percorso di una vita dalla nascita e dal luogo di vita, all’istruzione e poi al mercato del lavoro mette in evidenza gli ostacoli che possono impedire l’uguaglianza di opportunità. Ogni Paese ha le sue sfide, i suoi luoghi e le sue persone che vengono lasciate indietro. Ciascuno dovrà adattare le proprie soluzioni. Molti ostacoli sono familiari – tra cui l’ubicazione, la famiglia, la classe, l’etnia, la razza, il genere e altri fattori simili – ma ciò non ne riduce l’importanza.
La proposta si fa carico di diffondere la cultura necessaria comprendere il cambio di paradigma nel modo in cui misuriamo e valutiamo ciò che conta per le persone e per il pianeta.