In questi ultimissimi anni sono usciti ben due libri con lo stesso titolo, “La fine dell’amore”, uno della sociologa israeliana Eva Illouz (2019) e uno della scrittrice e filosofa argentina Tamara Tenenbaum (2022). Sarà un caso ma il segnale c’è e, anche solo annusando l’aria, la questione sembra tutt’altro che peregrina.

Dobbiamo subito dire che il tono dei due libri, senza entrare nel merito della loro scientificità, è molto diverso. Mentre la Illouz verifica un incremento di una sessualità mordi e fuggi soprattutto attraverso gli strumenti del dating on line o di altre piattaforme sociali e paventa l’affermarsi di una filosofia neoliberale fondata sulla libertà e ciò che chiama il “disamore”, la Tenenbaum saluta, confidando nel carattere liberatorio del cedimento delle relazioni normative, l’avvento delle relazioni molteplici, la fine appunto dei legami “patriarcali”, della subordinazione della donna.

La fine dell’amore per l’una è un potenziale incremento di benessere, per l’altra la fonte di nuove ansietà, incertezze e comunque di una rinnovata sottomissione della donna alle leggi del mercato sessuale che, a suo giudizio, anche discretamente argomentato, sembra ancora dominato dal potere maschile. Entrambe, tuttavia, non paiono affatto preoccupate della “fine dell’amore”, quanto dalle posizioni che la nuova anomia relazionale possa produrre nuove disuguaglianze (specialmente la Illouz).
Insomma, la fine dell’amore, per la mente progressista, appare una cosa buona. In fondo, argomenta la Tenebaum, si è trattato di una breve stagione, quella in particolare dell’amore romantico, che non ha mai creato le condizioni per un’autentica emancipazione della donna e che seguiva il periodo ben peggiore della famiglia patriarcale (quella vera).
Per la Illouz, che evidenzia i limiti dell’economia del nuovo capitale sessuale, nessuna nostalgia per legami più normati.

Naturalmente si tratta di generalizzazioni, a volte persino un po’ schematiche. Ma il mio scopo, in questo breve pezzo, non è recensire questi testi che fungono diciamo così da sintomo di un fenomeno che anche a pelle appare sempre più evidente. E che personalmente collegherei a un altro fenomeno di cui, già anni fa, si era fatto interprete un altro testo, La scomparsa della donna, di Marina Terragni (2007), attivista e femminista radicale, oltre che scrittrice e giornalista. E cui aggiungerei un testo che non è ancora stato scritto, almeno a mia conoscenza, e che intitolerei, la fine della mascolinità (mentre sulla fine del padre ce ne sono bizzeffe).

La sacrosanta critica del cosiddetto patriarcato, che non è mai troppo tardi ricordare trattarsi di una struttura famigliare scomparsa da noi da parecchi decenni (su ciò ha fatto mi pare chiarezza lo studio antropologico di Emmanuel Todd, “Ou en sont elles” (2023) e che eventualmente andrebbe sostituito con l’espressione maschilismo (tuttora presente benché in netta flessione in confronto a epoche relativamente passate), non è qui in discussione. E tuttavia un’accentuazione, giudicata indebita secondo Todd e altri ma comunque energica, della polemica contro i maschi e il loro retroterra sessista e violento non può certo passare inosservata (non sto a ricordare tutti i vari momenti di questa escalation, come il me-too, le polemiche sulla lingua, la dizione e ora il crimine di femminicidio e via discorrendo).
Così come non può passare inosservata, almeno a mio giudizio, una sostanziale recriminazione nei confronti della nostra società del sempre mancante autentico pareggio tra condizioni di successo, visibilità e potere delle donne nei confronti degli uomini.

Molto in second’ordine sembrano invece ormai i temi che un certo femminismo della differenza, con la sua insistenza sulla necessità di smarcare nettamente il femminile dal  maschile (la faccio corta ma si ricordino figure come quella di Carla Lonzi o il collettivo Diotima), rivendicava qualche decennio fa. La partita, per dirla con il linguaggio sempre più corrente della competizione sportiva, sembra quella di vincere o almeno pareggiare tutto con i maschi. E di attenuare quanto più possibile, anche in campo educativo per esempio, qualsiasi distinzione tra il maschile e il femminile. L’androgino, ma io direi l’ermafrodito, domina (anche qui senza entrare, perché richiederebbe troppo spazio, nella complessa faccenda del postumanismo sessuale).

Insomma, per farla breve, a parte il nuovo liberismo sessuale e la scomparsa dell’amore passionale, quello che sembra essere veramente al centro di molte rivendicazioni, potremmo chiamarlo l’annientamento della differenza sessuale. Niente più abbigliamenti differenti per i due sessi, niente gesti, niente biologie, niente comportamenti, niente culture, niente.
Per chi avesse voglia, rileggersi il libro della Terragni su questa questione, ancorché discutibile, resta a mio giudizio molto interessante, con l’autocritica sulla sconfessione anche del lato materno, relazionale e di cura tradizionalmente assegnato al femminile.

Ora, non credo sia necessario fare due più due per capire che una delle ragioni fondamentali della fine dell’amore si trovi, al di là delle interessanti considerazioni sociologiche della Illouz, fondamentalmente qui. La differenza sessuale scompare e, sperando di non essere subito impallinato, con essa scompare una delle condizioni fondamentali del desiderio sessuale (almeno eterosessuale). Che non si estingue ma si riduce, perde i suoi connotati drammatici, si prosaicizza, ben oltre i sessi, si contrattualizza, insomma diventa una faccenda di accordo, di consenso, di totale intolleranza al legame esclusivo con tutti i suoi correlati.

In questo New Deal delle relazioni amorose (di cui non sfuggono alle migliori analisi ovviamente i guadagni per un’economia sempre più alla ricerca di un cliente monodimensionale), dove ovviamente salgono le quotazioni del poliamore e scendono quelle della coppia, a me pare che siano tutte le dimensioni intense dell’amore a svanire (con il loro corredo emotivamente carico certo ma non per questo, sempre a mio timidissimo giudizio, meno remunerative): la passione, il “non avere occhi che per”, il desiderio sfrenato, l’erotismo profondo, anche e perfino la voglia di riprodursi (che infatti decresce) e certo poi la gelosia, la mancanza, l’ansia, l’idealizzazione, insomma tutto ciò che da Saffo fino a Radiguet passando per Shakespeare, sembra comunque aver alimentato una delle esperienze più incandescenti del nostro bigio transitare sulla terra.

Sarà anche stata una breve stagione, eppure per molti di noi e, pare, anche per la maggior parte della nostra arte, letteratura, cinema, cioè per tutto o quasi il nostro mondo simbolico moderno e non solo, non sembra poi una questione così secondaria, così periferica. E’ qualcosa che personalmente mi atterrisce e la cui evanescenza nelle giovani generazioni e non solo, sembra fare il paio soprattutto con l’individualismo autistico dilagante più che con la conquista di un habitus relazionale più asciutto, plurale e confortevole.
Insomma, per dirla fuori dai denti, mi sembra una perdita devastante della nostra esperienza umana, conquistata a fatica anche in virtù del primo affermarsi di relazioni libere nell’800 e che congedare con tanto bon ton mi sembra solo l’effetto dell’idiozia (etimologica) che ha invaso il mondo anche grazie all’oblio intenzionale di ciò che rappresenta la mascolinità e di ciò che rappresenta la femminilità. Ma questo magari per un prossimo capitolo.