Recentemente, nei contatti con un cliente, una grossa multinazionale, spiccavano due vocaboli, e sostanzialmente due richieste, ripetuti con una frequenza davvero incredibile. Da qui lo spunto per alcune riflessioni.

Noi miriamo all’eccellenza. Vogliamo che i nostri dipendenti acquisiscano resilienza.
 
 

Ecco due frasi, per quanto estrapolate dal contesto, che nel corso di un paio d’ore di contatto per un potenziale progetto con una multinazionale sono state ripetute, con diverse varianti, un numero incredibile di volte.

Eccellenza e resilienza, dunque. Parole ripetute sempre più spesso e altrettanto frequentemente con sfumature e accezioni diverse. Già, perché il vero problema è capire cosa intende il cliente per eccellenza e resilienza. Ne è la prova un altro vocabolo, altrettanto utilizzato a proposito e a sproposito: proattività, che spesso nelle aziende viene confuso con problem solving. 

Tornata a casa, tanto per non fidarmi completamente delle mie conoscenze, potenziali fonti di preconcetti, sono andata a cercare l’esatta definizione di resilienza. (e anche di eccellenza).

La prima fonte, sicuramente autorevole, è stata l’enciclopedia Treccani. Ed ecco la definizione:

Resilienza. La velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato; le alterazioni possono essere causate sia da eventi naturali, sia da attività antropiche. Solitamente, la resilienza è direttamente proporzionale alla variabilità delle condizioni ambientali e alla frequenza di eventi catastrofici a cui si sono adattati una specie o un insieme di specie.

Non c’è dubbio che molte aziende siano sottoposte, negli ultimi anni, con una buona frequenza ad eventi catastrofici. O almeno lo sono i loro dipendenti: continui cambi di organizzazioni, sede, riduzione del personale, struttura, … ma in questi termini la resilienza fa pensare più all’atteggiamento di alcuni impiegati di un tempo che, ad ogni cambiamento aziendale, aspettavano che passasse la nuova moda e resistevano, a modo loro.

Più interessante, almeno dal punto di vista aziendale, è la definizione che ne dà Pietro Trabucchi nel suo sito: http://www.pietrotrabucchi.it/paginab.asp?ID=3

 

 
La mia personale definizione del termine è la seguente: la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo “persistere” indica l’idea di una motivazione che rimane salda. Di fatto l’individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e tende a “leggere” gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la speranza.

Però questa definizione è pericolosamente vicina al pensiero positivo, alla teoria imperante del vedere sempre tutto bello. E poi: come si può insegnare ai dipendenti di un’azienda ad essere ottimisti? O “ad avere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda”, magari proprio nel momento in cui l’azienda sta decidendo l’ennesima ristrutturazione che il dipendente deve subire?

No, anche questa non è una strada percorribile.

E che dire dell’eccellenza? Per definizione si tratta di eccellere, superare tutti gli altri, distinguersi dagli altri per eminenti qualità. Anche qui mi viene in mente il vecchio proprietario di azienda che voleva assumere “solo i numeri uno”. Peccato che, poi, una volta assunti, li trattasse come zerbini.

Guidare i dipendenti all’eccellenza significa indurli ad essere i migliori? E in che cosa, poi?

Non c’è il rischio di scatenare una folle competitività interna per eccellere? Non è in contrasto con l’altrettanto famoso team working? E se, in un impeto di competitività, un team fa la guerra ad un altro team e poi, in pochi mesi, in una riorganizzazione, i due team vengono fusi o mischiati? Può in brevissimo tempo il nemico di ieri diventare l’amico di oggi? Secondo me non funziona.

Ed eccomi da capo. E ora provo ad affrontare la questione in una diversa prospettiva. Credetemi, so bene che ci sono molti corsi decisamente validi, tenuti da formatori esperti, su questi argomenti, e presumibilmente ne consiglierò anche all’azienda, ma ora devo trovare qualche input veloce, che possa inserirsi in un percorso di tutt’altro genere.

Se l’azienda desidera implementare eccellenza e resilienza, se queste sono due qualità fortemente desiderate, posso trovare qualche elemento in comune tra le due, utile per trasmettere i concetti e alcune soluzioni pratiche?

Secondo me sì.

E il collegamento lo trovo in una delle mie frasi preferite, letta anche recentemente in un libro di Otto Scharmer: “Ciò che conta, nella vita, non è ciò che accade o le esperienze che fai, ma cosa impari da ciò che accade e come usi le esperienze che fai”.

Se sai, profondamente, che da ogni esperienza puoi imparare, affronti con spirito diverso ciò che accade, soprattutto le esperienze negative. E questa è una forma di resilienza. E se continui, costantemente, a crescere, imparare, migliorare, entri nella logica di un’eccellenza che non consiste in una competizione con gli altri, ma solo una quotidiana competizione con te stesso.

E, ciò che per me è una ciliegina sulla torta, per imparare ogni giorno, metabolizzare ogni esperienza, il percorso è strettamente collegato a quel Viaggio dell’eroe che tanto amo. E questo sì, si può imparare e insegnare.