Si parla sempre tanto di cambiamento, invocandolo come toccasana per rimettere in piedi persone, situazioni, organizzazioni, società, stati.
Per il problem solver è proprio il processo di soluzione che implica il cambiamento, poiché se non si cambia, si tiene in vita il problema e non si arriva alla soluzione.
Tuttavia la soluzione è valida se a monte è definito correttamente il problema, se si è individuata la vera criticità su cui intervenire, se si sperimenta la soluzione su scala ridotta e la si mette a sistema solo se ha funzionato, modificandola se non funziona. Per esempio, se c’è malcontento in un reparto a causa di un dirigente inadeguato, il problema è il dirigente. Se come soluzione si fanno fare corsi di team building ai dipendenti, non si risolve il problema.
Il cambiamento è auspicabile se rappresenta un miglioramento rispetto a ciò che si vuole cambiare. Non ha un valore assoluto, ma relativo. Fare, cambiare, essere veloci, evitare ripensamenti e discussioni, può essere valido se si deve uscire da un’emergenza. Se invece si devono prendere decisioni strategiche a medio e lungo termine è meglio procedere con più cautela, adottando soluzioni progressive, verificabili e modificabili.
Il cambiamento può essere graduale, fatto di piccoli miglioramenti di ogni giorno, oppure repentino, con un salto brusco e deciso dal prima al dopo.
Il cambiamento graduale si ottiene con un forte coinvolgimento di tutti i livelli gerarchici e con programmi di qualità totale.
Il cambiamento repentino si ottiene con una decisione dall’alto.
In ambedue i casi ci sono persone pronte a cambiare, e persone che resistono, restando attaccate alle vecchie abitudini.
La resistenza al cambiamento avviene a livello individuale e organizzativo. L’individuo si oppone se non ha capito bene a che serve cambiare, se ha paura di cambiare, se è un bastian contrario, se vive in un suo mondo e non si interessa del cambiamento. Per vincere le sue resistenze va affrontato caso per caso.
L’organizzazione resiste in genere con vischiosità burocratiche, col dire “da noi si fa così”, con lo scoraggiare le nuove proposte opponendovi un “sì, ma…”, con comportamenti che tornano ad essere i soliti, con persone che difendono le loro nicchie di potere e i loro privilegi.
Sui social si è diffuso in modo virale un video in cui Francesco Starace, AD Enel, illustra a giovani della Luiss Business School una tecnica di cambiamento. Il video, ripreso anche dalla trasmissione TV “La Gabbia”, ha suscitato scandalo per la fredda crudezza delle parole del manager. Per chi volesse farsene un’idea, ne parlo in questo articolo: http://www.umbertosantucci.it/cambiamento-feroce/
Se limitato a determinati dirigenti e a casi specifici dell’organizzazione, può essere accettabile. Se esteso a tutta l’organizzazione, o peggio alla società e alla politica, è eticamente inaccettabile.
Dal momento che però l’intervento di Starace è avvenuto nella prestigiosa scuola di management della Confindustria, al di là degli orientamenti politici e delle convinzioni etiche personali, che cosa farà il mondo della consulenza e della formazione manageriale? Si allineerà a questi principi, al riparo da cedimenti di tipo psicologico o morale, o si chiederà fino a che punto la ragion di business deve prevalere su ogni altro valore?