Bella cosa la democrazia. Il sistema migliore per governare uno Stato, o, comunque, un’insieme di persone. La democrazia? funziona, va bene: chi la mette in discussione? Siamo democratici, figuriamoci. Siamo tutti d’accordo!

D’altronde lo dice la parola stessa. Democrazia (dal greco δῆμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere) etimologicamente significa “governo del popolo”, ovvero sistema di governo in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dall’insieme dei cittadini che ricorrono ad una votazione.
Poi può essere una democrazia rappresentativa (che elegge chi lo rappresenta nella gestione del potere), o una democrazia diretta (dove il popolo decide di volta in volta cosa fare), o una democrazia partecipativa (dove si allarga al popolo il processo decisionale che porta a individuare la scelta da fare) o una democrazia digitale (ai suoi primi passi).

L’Europa è la culla della democrazia

Storicamente la si fa risalire all’antica Grecia, anche se l’assiriologo Thorkild Jacobsen nell’articolo “Primitive Democracy in Ancient Mesopotamia” nel “Journal of Near Eastern Studies” edito dall’Oriental Istitute of Chicago, nel 1943 sostiene la tesi dellla natura assembleare e non dinastica della regalità in Mesopotamia.
Gli Stati Uniti d’America hanno usato il termine democrazia per esportare il loro potere economico e stile di vita sull’intero pianeta. Semplificando se non mangi McDonald, non bevi Coca Cola, non fumi Marlboro e non paghi i diritti d’autore (e nel futuro prossimo, non semini Monsanto) vivi in uno stato totalitario spesso con l’aggravante di essere comunistoide.

Storicamente non hanno mai avuto problemi a sostenere delle dittature in nome dei valori della democrazia, ad invadere nazioni per esportare democrazia, ed è questa loro apparente contraddizione che spiega il dibattito di questi giorni dopo il referendum sulla Brexit.

Perché? che cosa è avvenuto in questi giorni?
Si è “scoperto” che il volere del popolo è democrazia solo quando esprime un voto favorevole alla soluzione promossa dal sistema di potere ed economico dominante di cui il sistema mediatico economico (che si batte sotto la bandiera della difesa della libertà di stampa) è megafono asservito.

 

Democrazia, si, ma…

Se il voto non va come previsto dalla finanza globale, cioè da quelle 85 famiglie che posseggono un patrimonio equivalente a quello di 3,5 miliardi di persone, cioè di metà della popolazione mondiale allora il ”popolo” è  vittima del “populismo” ed è composto solo da vecchi e ignoranti. Non è in grado di capire la complessità delle soluzioni, condanna le società civili all’autodistruzione, non coglie  le “magnifiche e progressive sorti del futuro”.
«Le quali sono solo quelle che vanno bene ai noi e che fanno arricchire noi» (Ferrario 2016)

Non votano come vorremmo? Il rimedio, secondo alcuni opinionisti italiani di alto rango, ovvero appartenenti sia all’elité politica sia all’elité tecnocratica  è semplice: la prossima volta niente diritto di voto.
«Perché è inutile: sono materie troppo delicate. Da riservare a intellettuali acculturati. Che hanno studiato, conoscono, capiscono. E la democrazia? Per carità, va bene: chi la mette in discussione? Siamo democratici, figuriamoci» (Ferrario 2016).
 
Dunque la democrazia funziona se, e solo se, sancisce ciò che pensa l’elité istituzionale e tecnocratica, intellettuale e politica. E se risponde agli interessi della plutocrazia.

Democrazia o plutocrazia

D’altronde ci ricorda Umberto Curi il termine demokratía comincia a circolare verso la fine del VI secolo avanti Cristo, con una accezione prevalentemente dispregiativa. In entrambe le componenti della parola.
Da un lato, infatti, krátos non significa affatto genericamente «potere» (come per lo più si ritiene), ma si riferisce piuttosto a quella forma di potere che scaturisce da, e si fonda su, l’uso della forza. Analogamente, il termine démos viene adoperato per denominare non la totalità della popolazione, ma quella parte, ancorché maggioritaria, del popolo, che è in possesso di alcuni requisiti.
Le occorrenze di démos nel senso di regime popolare, cioè di democrazia, sono pochissime e si trovano concentrate nel celebre dibattito sulle costituzioni, svoltosi verso la metà del V secolo. Le altre attestazioni di démos si presentano sostanzialmente come valutazioni negative della democrazia, quali potevano essere espresse soprattutto dai suoi avversari, i quali contestavano a questa forma di governo il fatto di privilegiare i (molti) cattivi, rispetto ai pochi (buoni), ovvero di pretendere che a governare fosse una moltitudine indistinta, anziché gli áristoi, i «migliori».
Insomma, pur nell’estrema variabilità di significati, da un lato demokratía indica il dominio coercitivo, esercitato con la forza, di quella parte del popolo che è il démos (con la drastica esclusione delle donne), mentre dall’altro lato essa esprime il sopravvento della componente quantitativamente, ma non qualitativamente, più significativa del popolo.

Era la plutocrazia che si difendeva dalla moltitudine. La plutocrazia (dal greco πλουτοκρατία, plutocratìa; composto di πλοῦτος, plùtos, ricchezza e κρατείν, krateìn, potere) è il predominio nella vita pubblica di individui o gruppi finanziari che, grazie alla disponibilità di enormi capitali, sono in grado d’influenzare in maniera determinante gli indirizzi politici dei rispettivi governi.

Il dovere etico e politico

Il dibattito post Brexit ha fiancheggiato questa interpretazione tanto che Gianfranco Pasquino, politologo e accademico dei Lincei considerato tra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale[cito Wikipedia, che sottolinea che questa qualifica è senza fonte), è dovuto uscire allo scoperto e da bravo professore emerito di scienza politica dell’Università di Bologna è dovuto ricorrere ad una lezioncina
«chi crede nella democrazia, vale a dire nel potere del popolo, seppure esercitato, come sta scritto nella Costituzione italiana, “nelle forme e nei limiti” da essa stabiliti, ha il dovere etico e politico di accettare il referendum».
Direbbero gli extra comunitari di Oxford “Grazie, Graziella….”

E prosegue:
«E’ esattamente una delle forme attraverso le quali quel potere si esercita: abrogando leggi, respingendo o confermando le riforme costituzionali, eccezionalmente, quando consultivo, esprimendo pareri dai quali governanti e rappresentanti possono trarre utili e importanti suggerimenti operativi. In generale, i referendum sono strumenti decisionali. Non debbono essere usati per accrescere il potere dei governanti ovvero, peggio, di un governante, colui che ha imposto il referendum e vuole un giudizio sulla sua persona».

La lezione politico- istituzionale del risultato del referendum della Gran Bretagna non è affatto che non si debbono più fare referendum.
Piuttosto la politica ha un’occasione d’oro per rendersi conto che negli Stati membri dell’Unione europea è presente un diffuso malcontento che i rispettivi cittadini esprimono, nelle elezioni per il Parlamento europeo, astenendosi in massa oppure convogliando il loro voto sui partiti e movimenti euroscettici ed euro ostili,

«Togliere la parola al popolo significa amputare una parte significativa, essenziale del repertorio democratico» sostiene Pasquino.

Il popolo sbaglia

«La democrazia è sempre, per sua natura e costituzione, il trionfo della mediocrità».
Indro Montanelli

Affermare, come è stato monopolizzante sulle testate del sistema mediatico economico, che il popolo (in questo caso britannico) ha sbagliato perché ha votato male informato, per risentimento, per paura, soprattutto contro l’immigrazione, per preservare un’obsoleta e superata idea di nazione, addirittura contro le elité, degli intellettuali, delle celebrità, dei banchieri, della finanza, delle istituzioni, significa dare ragione a quel popolo.

La partecipazione al voto è stata elevata: il 72 per cento pari a circa trenta milioni di cittadini, la più alta dal 1992. Il paese risulta spaccato in due con una percentuale a favore del “Remain” pari al 62 per cento in Scozia, 59,9 per cento a Londra e 52,8 per cento in Irlanda del Nord. La Gran Bretagna rurale e delle classi medie ha avuto la meglio sulle aree indipendentiste e sulla Londra cosmopolita.

Non è un conflitto generazionale

Smontata la tesi, avvalorata da alcuni sondaggi pre elettorali, in base alla quale si sarebbe trattato di uno scontro generazionale, con i giovani schierati a favore del “Remain” e gli anziani a favore del “Leave”. In realtà la partecipazione dei giovani al referendum è stata bassa (sotto il 40 per cento) a fronte di più del 80 per cento degli over 65. Purtroppo i primi che non scendono in campo per difendere la democrazia sono proprio le nuove generazioni.

Intellettuali e politici hanno perso contatto, da tempo, con i loro concittadini; che li hanno trascurati, normalmente snobbati; che non conoscono le loro condizioni di vita e meno che mai i loro sentimenti e le loro emozioni.
Sono 6 milioni e 20mila gli italiani che secondo i dati Istat del 2014 vivono in una condizione di povertà assoluta. Si tratta di una persona su dieci, circa il triplo di quanto accadeva nel 2005. Sono aumentati anche i minori in stato di povertà assoluta, che per l’Istat sono il 13,8 per cento del totale mentre Renzi prosegue il mantra di Berlusconi che tutto va bene e siamo usciti dalla crisi.

Plutocrati incapaci di governare

Ci confrontiamo con una classe dirigente pubblica che non si cura dell’esistenza di gravi e profonde diseguaglianze. Questa è la moderna lotta di classe: produttori contro parassiti; ricchi sempre più ricchi contro masse sempre più estese di famiglie e persone che fanno fatica ad arrivare a fine mese.

 

La soluzione non può essere in nessun modo cercata nel sottrarsi al giudizio “popolare” del referendum sull’Unione Europea. E’ una soluzione che non risolve nessuno dei problemi dell’Unione, dei plutocrati, degli Stati membri e dei 440milioni di cittadini che fanno ancora parte dell’Unione europea.
La Brexit rappresenta la punta dell’iceberg di un malcontento diffuso, più volte espresso dai cittadini europei, ma che evidentemente non ha trovato le giuste risposte da parte delle istituzioni e della classe politica europea.

Quando la democrazia viene piegata al potere individuale

Il referendum non è di per sé legalmente vincolante; il Parlamento deve approvare una legge che metterà in moto la procedura prevista dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona e che comporterà l’abrogazione dello European Communities Act che nel 1972 portò il paese ad aderire alla Comunità europea.
Il tentativo maldestro di Cameron di contrastare l’avanzata dello Ukip di Nigel Farage, che nelle elezioni europee del 2014 era risultato il primo partito in Gran Bretagna, si è trasformato in un boomerang per il Primo Ministro costretto alle dimissioni. Cameron infatti, dopo aver proposto lui stesso il referendum, si è battuto a favore del “Remain”, con esiti disastrosi per il suo successore che sarà costretto a condurre i negoziati per l’uscita del paese dall’Unione europea. La scelta politica di un primo ministro europeo si è tradotta nella crisi più grave che l’Unione europea abbia dovuto affrontare dalla sua nascita.

Occorre una nuova narrazione

Sono diversi anni che l’Unione europea ha bisogno di una “nuova narrazione” La “retorica della pace” dei padri fondatori è, di fatto, lontana dalle giovani generazioni che non hanno mai vissuto la guerra, ed è stata indebolita dalle nuove forme di “occupazione bellica” che si sono viste negli ultimi anni verso la Grecia.
La politica ha infatti il compito di leggere ed interpretare le paure dei cittadini (non di cavalcarle,ed ingigantirle come fa la Lega in Italia, Le Pen in Francia, Nigel Farage in Gran Bretagna)  di lavorare per il loro superamento.

Occorre individuare con una proposta che sappia tenere insieme le sfide di un mondo globale e la specificità dei contesti locali.

Dalla plutocrazia alla democrazia

I particolarismi nazionalistici rappresentano l’altra faccia della medaglia di un processo di globalizzazione privo di regole e di tutele per i cittadini, nei confronti del quale l’Unione europea non ha saputo costruire e rappresentare una valida alternativa.

A fronte di ciò, l’Unione europea della troika, delle banche, dei tecnocrati e delle lobbies rischia di emergere su tutto e di travolgere le tante conquiste per le quali il vecchio continente è debitore nei confronti del processo di integrazione europea, che rimane, con tutti i suoi limiti, il più grande esperimento al mondo di democrazia sovranazionale. Democrazia, appunto.

In questi momenti l’Europa non può che ripartire dal realismo visionario che ispirò i padri fondatori, costruendo un progetto che ponga i cittadini al centro, nel rispetto di quei valori che troppo spesso restano formule vuote nelle decisioni dei burocrati europei.

Fonti
Pasquino Gianfranco, Ascoltare la voce del popolo,‘gianfrancopasquino.wordpress.com’, 26 giugno 2016.
Ferrario Massimo, Post-Brexit, stop al diritto di voto?, ‘Mixtura’, 27 giugno 2016.
Marchetti Maria Cristina, Brexit: la parola ai cittadini. Ma ci vorrebbe una “nuova narrazione”, Labsus.org, 27 giugno 2016.
Massacesi Luca, La diseguaglianza che pesa sullo sviluppo, 06LaSvoltaBuona.it, 20 giugno 2016.