Un minidizionario di poco meno di venti voci per capire bene di che si tratta quando abbiamo a che fare con la complessità – e un poco anche cosa bisogna “farci”. Tratto dal contributo di Paolo Cervari al libro Processo alla Complessità (a c.d. Giuseppe Sapienza, LetteredaQALAT) dal titolo “Saperci fare con la complessità: verso le pratiche” di cui abbiamo pubblicato l’introduzione nel N°100 di Caos Management, il Minidizionario procede a una o due voce per volta, pubblicate su vari numeri di Caos Management. Buona lettura.
Dimorfismo interno.
E’ una conseguenza di altre caratteristiche della complessità, e non tra le meno importanti, ancorché spesso trascurata. In pratica si tratta del fatto che qualunque sistema complesso è fatto di parti, o per meglio dire è configurabile per parti, e che spesso (evitiamo solo per prudenza di dire sempre) tali parti sono a loro volta osservabili come sistemi e a loro volta, ancora, possibili agenti di accoppiamenti strutturali, non solo con altre parti del sistema, ma anche con sistemi che stanno “fuori”. Questo significa che benché, per via della chiusura organizzativa, i sistemi mantengano una propria identità, sono ciononostante attraversati da movimenti di differenziazione interna che sono fonte di fluttuazioni lontane dall’equilibrio che possono portare a brusche catastrofi: è il caso delle rivoluzioni politiche per le società, per esempio, ma la cosa è valida anche per i sistemi biologici e senza andare a scomodare batteri e retrovirus basti pensare, per convincersene, a come avvengono un concepimento e una gravidanza, oppure un infarto. Per quanto attiene alle organizzazioni, questa caratteristica è di somma importanza perché tenerla presente ci evita di considerare le stesse come dei monoliti informati dallo stesso e unico codice: un sogno ormai desueto, sembrerebbe, anche se forse non ovunque.
Conseguenze pratiche. Cercare, osservare e valorizzare le differenze di codice. Vivere trade off e incongruenze come interazioni e non come rumore. Utilizzare i dimorfismi come risorsa.
Relativismo del caso.
Il caso dei sistemi complessi è una funzione dell’osservatore e del suo sistema di osservazione. Questo perché, parlando in assoluto, come già visto riguardo all’ineliminabilità dell’incertezza, il caso ci sarà sempre, almeno in una certa quota. Ma che tipo di caso e quanto è funzione del modello teorico che abbiamo assunto, tra i diversi possibili, quale sistema di osservazione: a seconda delle lenti cognitive che indossiamo, certe cose ci possono sfuggire e certe no, certe altre, di cui attraverso quel modello non sappiamo proprio nulla, ci sfuggiranno di certo (ulteriore motivo per cui tra l’altro è fondamentale non restare troppo ancorati al modello scelto: vedi sopra Andare a vedere). Da ciò consegue che sotto certi profili l’inatteso, come diceva Euripide, si produrrà per forza e dunque, come già detto più sopra, è necessario attrezzarsi per l’imprevedibile. Il che ci porta a considerare brevemente la nota teoria di Nassim Taleb, quella che sottolinea l’importanza di eventi rarissimi e di vastissima portata, da lui chiamati, con felice metafora, “cigni neri”[1]. Cigni neri sono stati per esempio l’attentato alle Torri Gemelle del settembre 2001, il naufragio del Titanic, la crisi finanziaria del 1929… secondo Taleb siamo in questi casi in un mondo diverso dal solito e rassicurante mondo della gaussiana: siamo nell’Estremistan, dove tutto può accadere e le leggi della probabilità non ci difendono più. Con l’aggravante, sostiene Taleb, che l’Estremistan allargherà a dismisura i propri domini nel futuro. Il punto chiave della questione sta nella possibilità o meno di comportarci in modo più o meno utile e produttivo in uno scenario di questo genere e, buona notizia, scopriamo che perfino per l’estremista Taleb ciò è possibile. Ma soprattutto, come abbiamo ricordato sopra, va tenuto presente che tutto è funzione del sistema di osservazione, il che implica che lo stesso sopravveniente cigno nero può essere più o meno previsto a secondo di chi siamo e di come stiamo osservando il sistema, ovvero da quali indicatori e quali modelli usiamo.
Conseguenze pratiche. Essere pronti a tutto… non è uno scherzo. Sapere che i nostri modelli di prevedibilità sono fallaci e di rendimento incalcolabile ci costringe a stare molto attenti a tutti i segnali possibili, deboli e soprattutto non codificati (usando codici sempre nuovi). Privilegiare le strategie che corrono molti rischi su tante scelte su quelle che priediligono le sicurezze delle scelte migliori. Ancora: sperimentare nel piccolo.
Emergenza della conoscenza.
Anche questa è una caratteristica che consegue dalla necessità dell’incertezza e dei diversi modelli da utilizzare, ovvero dalla necessità dell’incompletezza da una parte; e dell’incoerenza dall’altra (vedi dimorfismo interno). In ambito organizzativo la questione è ben nota e ha a che vedere con la polarità “conoscenza esplicita/conoscenza tacita”: la conoscenza è per forza sempre in parte tacita, ovvero non codificata da certi modelli di osservazione, da certi codici di operazione, da certi linguaggi di comunicazione. E non solo è tacita, ma a volte si configura come tale una certa parte di conoscenza e a volte un’altra. Infine, non solo vi è una certa quota variabile e mutevole di conoscenza tacita ma essa è sempre passibile di emergenza, ovvero di esplicitazione. Di fatto, sempre per rimanere in ambito organizzativo, una vera learning organization (che per molti è il modello o tipo di organizzazione coerente con l’assunzione della complessità) è un’organizzazione dove avviene continuamente il passaggio della conoscenza da tacito ad esplicito. E’ un processo che non si ferma mai, è strutturale, ed è la diretta conseguenza, oltre di quanto già detto sopra, ovvero dell’incompletezza e dell’incoerenza, della co-evoluzione con l’ambiente e delle dinamiche co-evolutive delle diverse parti all’interno del sistema. Per dirla con due importanti teorici del pensiero organizzativo: «L’organizzazione che cambia crea realmente, traendola dal proprio interno, nuove conoscenze e informazioni allo scopo di ridefinire i problemi e le soluzioni e di ricreare, così facendo, il contesto».[2] Infine, per allargare gli ambiti di applicazione, è forse utile osservare che solo a partire da quanto sopra acquistano senso espressioni diversamente sprovvistene quali: “capire meglio se stessi”, “divenire quello che si è” e simili: è solo se si ammette che in noi (nel sistema) giacciono potenziali di conoscenza inesplorati e non sfruttati che possono invece venire esplicitati e messi in forma che è possibile qualcosa come una dinamica di conoscenza di sé. Il che ci porta da affrontare un’altra importante questione, quella della riflessività.
Conseguenze pratiche. Individuare i catalizzatori che consentono la produzione di nuova conoscenza. Metterli in discussione. Produrne di nuovi e metterli all’opera. Avere di mira la nascita del nuovo e osservare i segnali che ne annunciano l’avvento.
[1] N. Taleb, Il cigno nero. Come l’improbabile governa le nostre vite, Il Saggiatore, Milano, 2008.
[2] I. Nonaka, H. Taekuchi,The knowledge-creating company. Creare le dinamiche dell’innovazione, Guerini e associati, Milano, 1997, p. 122