Nella prima parte della nota (Il Caos Management n. 111) abbiamo iniziato una riflessione sull’evoluzione della complessità in natura per individuarne le caratteristiche peculiari e il percorso di sviluppo. Ciò con l’intento di definire, se possibile, una cornice di riferimento per i modelli concettuali delle organizzazioni umane.
Sappiamo che la complessità attiene ai sistemi collettivi aperti i cui elementi sono interconnessi in modo non lineare e parallelo (rete). Pertanto, l’excursus è iniziato dall’analisi dei regimi dinamicamente stabili (strutture dinamiche complesse, SDC) dei sistemi inerti della fisica e della chimica, riscontrando che la peculiarità distintiva di tali strutture è l’autopoiesi ovvero la capacità di conservare l’organizzazione interna degradando le risorse ambientali (sono strutture dissipative; i sistemi inerti, in virtù dei princìpi fisico-statistici, agiscono minimizzando il costo ambientale, definito in termini di aumento dell’entropia totale). Le SDC formate dai sistemi inerti sono “organizzativamente aperte” in quanto, qualora sottoposte a pressioni ambientali critiche, possono esibire instabilità strutturali da cui emergono processi autorganizzativi verso nuovi regimi dinamicamente stabili con l’ambiente (completa adattabilità).
L’evoluzione della complessità naturale si è avviata, eventualmente dopo diverse prove, con una elementare macromolecola autocatalitica immersa in un appropriato brodetto chimico che ne ha favorito la formazione di “copie”. Questo insieme ha costituito una primordiale SDC chimica avente la capacità di replicare la propria struttura organizzativa; nascono così le strutture biologiche elementari. Tuttavia, la possibilità di autoreplica codificata contiene in sé il limite intrinseco di generare strutture “organizzativamente chiuse” e quindi poco adattative. Il successo evolutivo della “vita” (ma non delle singole strutture) è stato determinato dalla “moltiplicazione più rapida dei mutamenti ambientali critici” con l’espediente della diversificazione generata dai piccoli errori casuali nella replica del DNA (la macromolecola autocatalitica).
La specializzazione di alcune cellule e le successive loro simbiosi hanno poi portato alla cellula eucariota, provvista di nucleo e di organelli. Ben presto, anche per tali sistemi elementari è comparsa un tipo di stabilità strutturale più forte, la stabilità omeostatica (o stabilità nel divenire). Ciò, naturalmente, per le cellule singole vale solo precedentemente alla instabilità strutturale definitiva, la divisione cellulare.
All’interno delle specie, è tatticamente peculiare il meccanismo dell’espressione genica (possibilità di attivare o disattivare geni) attraverso il quale gli esseri unicellulari generano diverse tipologie cellulari in momenti diversi della propria vita. Con la formazione di colonie da un’unica cellula madre si è generata una forma primordiale di “tessuto” che ha potenziato lo scambio di informazioni e ha consentito, proprio attraverso la regolazione dell’espressione genica, la ripartizione di alcune funzioni. Dalla colonia all’organismo pluricellulare il passo è stato breve, nel caso di riproduzione dell’intero per divisione di ogni singola cellula. Le colonie hanno costituito la prima forma di autorganizzazione stabile di una collettività di cellule.
Col tempo si assiste, negli organismi pluricellulari, ad una progressiva articolazione interna in tessuti, organi e apparati. Con la comparsa di cellule dotate di una dinamica operativa indipendente (come gli spermatozoi) che le porta a fondersi con una specifica cellula di un altro organismo della stessa classe per formare lo zigote (la fase unicellulare di un nuovo essere vivente), nascono i primi organismi a riproduzione sessuale. Quindi, ad un certo punto della cronologia della vita, germoglia il cespuglio degli organismi pluricellulari che sono contemporaneamente strutture autopoietiche, omeostatiche e riproduttive.
Una considerazione. Per la “vita” vige il principio del “successo evolutivo” e i sistemi molto articolati e sofisticati hanno scarsa probabilità di essere originati in quanto molto onerosi da “costruire” e conservare e perché ogni salto evolutivo deriva da un grandissimo numero di prove di compatibilità da sostenere. Compatibilità con la biosfera stessa (in particolar modo con i microrganismi) e compatibilità con il mutare dell’ambiente (il fenotipo esposto all’ambiente seleziona indirettamente il genotipo). Pertanto, solo lo sviluppo di una particolare capacità ha reso possibile il successo evolutivo delle strutture molto articolate.
La pietra angolare su cui si è sviluppata tale capacità è stata il “ciglio” ovvero un primordiale dispositivo senso-motorio. Nel regno animale, da esso si è evoluto il tessuto che media punti localizzati su una superficie sensoriale con punti localizzati su una superficie motoria. Tale tessuto è costituito da particolari cellule, dette “neurali”, che hanno due peculiari proprietà. La prima è che attraverso di esse viaggiano “informazioni” veloci nella forma di segnali elettrici che la cellula può analizzare e ritrasmettere a tutte le altre cellule neurali con cui è in contatto. La trasmissione intercellulare avviene nelle “sinapsi” ed è di tipo chimico (“neurotrasmettitori”).
L’informazione è contenuta nel tipo di neurotrasmettitore emesso e nella sua concentrazione (comunque, il “vocabolario” dei segnali è ancora un problema aperto). La seconda proprietà è che, pur essendo le uniche cellule incapaci di replicarsi (in un essere già strutturato, possono formarsi solo da stimolazioni di cellule staminali locali), possono modificare “secondo esperienza” le interconnessioni, rimodellando continuamente la rete.
In definitiva, alle tre funzioni vitali si aggiunge una capacità senso-motoria resa possibile da una rete di neuroni interconnessi in modo non lineare; tale rete può esibire moderate e continue riorganizzazioni adattative. Quindi, le strutture biologiche più articolate, pur sempre “organizzativamente chiuse”, hanno avuto successo evolutivo perché dotate di una SDC “organizzativamente aperta” (ma conservativa del’identità) che ne amplia il dominio del comportamento, consentendone anche nuove forme di adattamento.
Infatti, la coevoluzione con l’ambiente delle tre funzioni vitali e della capacità senso-motoria nonché le reciproche interazioni hanno portato all’affermazione (dalle meduse in su) di un elemento di elaborazione input/output e di memorizzazione dati, l’encefalo.
Lungo l’asse verticale dell’evoluzione si perfeziona, quindi, uno schema organizzativo duale cervello-macchina per mezzo del quale le funzioni vitali e di relazione acquisiscono l’efficienza e l’efficacia proprie di una macchina mentre il controllo si concentra nell’encefalo (o, meglio, nel sistema neuro-endocrino e immunitario).
La capacità di controllo si materializza nella fitta rete di cellule neurali che strutturano l’encefalo e dalle cui interazioni elettrochimiche diviene, come emergenza immateriale, la mente. La mente è un “processo” che inizia con la formazione delle prime cellule neurali e termina con la morte dell’organismo. Stati mentali e stati fisici sono complementari e, per quanto detto, i primi sono emergenti rispetto ai secondi (in questo, senza voler ridurre l’essenza ontologica della mente a quella dello stato fisico: è possibile che le emergenze abbiano una “essenza” di livello superiore rispetto ai sistemi da cui “emanano”).
Nell’analizzare i sistemi inerti, abbiamo visto che la complessità è caratterizzata dall’emergere di azioni collettive “coerenti” o sinergiche. Nella vita elementare, l’azione sinergica (simbiosi, colonie) è una attitudine che ha garantito il successo evolutivo. Nei viventi evoluti, l’azione sinergica diventa cooperazione per la costituzione di comunità e società complesse, anche miste, di organismi.
Quindi, sembra che la direzione di sviluppo della complessità (sempre nel senso di successo evolutivo) sia stata, attraverso il perfezionamento sia della capacità senso-motoria che dell’azione cooperativa, quella di strutturare le due capacità di “conoscere” e di “comunicare”. Conoscere per meglio agire o reagire, comunicare per meglio cooperare.
In sintesi, il fattor comune di tale “tensione” implicita è l’informazione: la capacità di acquisire “dati”, elaborarli e organizzarli in informazioni (da scambiare e condividere) è stato il potenziale fisico-statistico che ha diretto l’evoluzione della complessità naturale.
Dal punto di vista umano, il risultato è stata la selezione di esseri capaci di “leggere” la realtà sempre più correttamente e di utilizzare la “creatività” come nuovo efficace meccanismo di diversificazione e adattamento.
L’evoluzione della complessità in natura fornisce utili indicazioni per i modelli concettuali delle organizzazioni umane artificiali? Un tentativo di risposta in una prossima riflessione.