Nel numero precedente abbiamo presentato la parte introduttiva di un servizio giornalistico, scritto a quattro mani, sul duro lavoro perduto delle miniere; qui, attraverso la testimonianza di Iride Peis, riprendiamo la storia di una delle importanti miniere della Costa Verde, quella di Montevecchio, nel comune di Guspini.
a cura di Graziella Falaguasta e Iride Peis(*)
Come avevamo già anticipato, i due articoli sono stati scritti a quattro mani con Iride Peis, conosciuta durante la giornata regionale del 10 settembre 2017, dedicata ai minatori, promossa e gestita dall’Associazione “Sa Mena” (la miniera, http://www.associazionesamena.com/,) E’ grazie a quei contatti, ai libri di Iride Peis, e alle ricerche che tutto ciò aveva suscitato che ora possiamo condividere con i lettori di Caos Management questo pezzo di storia del nostro paese, e della Sardegna in particolare. Una doverosa precisazione: Iride Peis, ancora vive in quelle zone e si prodiga perché non si perda la memoria di quel recente passato. Ecco il suo racconto.
Il lavoro perduto nella miniera di Montevecchio
Ogni miniera è destinata ad esaurirsi, è una legge della natura che pone fine alle risorse non rinnovabili, quindi, destinata all’abbandono. Quella di Montevecchio, non ha esaurito il giacimento ma è stata abbandonata per la legge del mercato: l’attività estrattiva è diventata antieconomica e non competitiva. La miniera più grande d’Europa che ha dato migliaia di tonnellate di blenda e galena argentiera, lavoro, prodotto tecnica e professionalità ha chiuso per sempre una grande pagina di storia.
L’esodo inarrestabile di uomini e di saperi ha impoverito il territorio, ha cancellato posti di lavoro, dismesso il terziario, frenato le nascite, chiuso scuole e luoghi di crescita culturale. E’ rimasto il fascino di un luogo che non si dimentica. Le migliaia di minatori, ingegneri e tecnici, le persone che l’hanno abitata fisicamente non ci sono più, ci sono però i loro cuori. Il borgo minerario di Montevecchio possiede un valore umano, storico, economico, sociale inimmaginabile, e non è solo memoria, è bellezza, potenzialità, nuova risorsa per il futuro delle giovani generazioni.
I castelli dei pozzi, che si ergono silenziosi come cattedrali nel deserto, con le loro architetture merlate e maestose, gli edifici che hanno ospitato le officine, le fonderie, le laverie e i piazzali immensi, attendendo una adeguata riconversione per un utilizzo culturale che ricuperi la gloriosa epopea.
Gli appassionati di archeologia mineraria, i turisti curiosi e interessati, gli studenti che amano sfogliare le pagine del libro della Terra, i bambini delle scuole primarie e secondarie hanno diritto di trovare un archivio , una guida, una sala convegni che ne illustri l’antica attività attraverso filmati, racconti, rumori, teatro, testimonianze. Conoscendo si impara ad amare, a curare e a preservare dall’oblio una Storia vera che affonda nella storia personale di ciascuno di noi.
La miniera di Montecchio: un storia che viene da lontano
La miniera di Montevecchio è ubicata a sud-ovest della Sardegna, in provincia del Medio Campidano a 352 metri s.l. m. nella zona del guspinese-arburese. Ha rappresentato, per la sua felice posizione, un luogo privilegiato dove i tre regni della natura si sono fusi e armonizzati in uno scenario di straordinaria valenza. E’ una miniera di blenda e galena argentifera e la sua storia affascina perché è nata agli albori dei tempi, attraversando e superando i grandi sconvolgimenti delle ere geologiche.
Mi piace pensare che nell’era quaternaria, quando l’uomo comparve sulla terra, Montevecchio era lì ad attenderlo per mostrargli un museo di rocce di una magnificenza tale da togliergli il respiro: costoni frastagliati, guglie, dirupi, creste, muri, dichi, tafoni, conglomerati…Anche gli dei rimasero incantati dalla bellezza delle montagne montevecchine e le abitarono lasciando i loro nomi in diverse località avvolgendole di leggenda: Diana Maimone, Ercole, Serapide…E proprio Serapide, divinità del mondo sotterraneo, guida i cercatori di metallo dal lontano oriente fino al ricco filone e loro per ringraziarlo gli dedicano un tempio.
Dall’epoca romana alla svolta alla gestione Sanna
Anche i romani giungono, avidi di piombo e argento, con i “damnati ad metalla” a cavare minerale, lo fondono in loco e lo caricano nelle navi nel golfo di Neapolis e se lo portano via. Di loro è rimasta traccia nelle fosse: lanterne, norie e picconi che fanno bella mostra nel Museo Archeologico di Cagliari, e, sotto “sa rocca stampata” nella zona di levante, a Montevecchio, si sentono, portati dal vento, i lamenti dei prigionieri e lo strisciare pesante delle loro catene. Basta ascoltare.
L’attività mineraria, dopo il periodo romano, prosegue in maniera limitata fino al 1628 quando, il Procuratore Generale del Re d’ Aragona assegna a Giacomo Esquirro la facoltà di coltivare le miniere di galanza di Arbus, nel 1720, sotto il dominio sabaudo viene accordata a Don Pietro Nieddu e Stefano Durante, in seguito al console svedese a Cagliari Gustavo Mandel. Ma è nel 1848 che l’imprenditore Giovanni Antonio Sanna, un sardo dalle doti eccezionali, ottiene dal re Carlo Alberto, la concessione perpetua di coltivare il filone di galena di Montevecchio: 12 kilometri di lunghezza. La nascita dell’industria mineraria di Montevecchio porta la data del 28 aprile 1848 e avviene nel campo di Peschiera, dove il Re è impegnato nella 1° guerra di indipendenza. La miniera diventa industria e in meno di dieci anni la produzione e gli utili permettono a Giovanni Antonio Sanna di dimostrare che la sua miniera è una fra le più produttive d’Europa nonostante le difficoltà di trasporto del minerale da Montevecchio al porto di Cagliari, in quanto devono essere coperti 70 chilometri con strade inesistenti e mezzi lenti. Centinaia di carri a buoi carichi di sacchi di galena guidati da carretoneris che pungolano, gridano, bestemmiano per velocizzare le bestie! E il progresso avanza con l’acume e l’ingegno degli uomini che si attivano per costruire strade, ferrovie, macchine a vapore e utilizzare nuove invenzioni e tecniche come la dinamite, le perforatrici, i compressori. Molte le vicissitudini per la conduzione della miniera, molti i personaggi che ne hanno seguito con solerzia, capacità ed eroismo le fasi e hanno contribuito al progresso umano e tecnologico, molte le storie che si sono accumulate negli anni di attività.
Il nuovo capitolo del 1900 e gli esempi di buona gestione
La famiglia Sanna-Castoldi, dal 1848 fino nel 1933, guida la miniera e la fa grande per ben 85 anni poi la cede, con molto dolore, per dissesti bancari, alla Montecatini.
Nel 1934 ha inizio un altro importante capitolo, la Montevecchio vedrà produzione e tecnologia all’avanguardia e porterà alto il suo nome. Dal 1934 al 1961 la gestione diretta dalla Montecatini, con un direttore di grandi capacità umane e tecniche, dà assetto all’attività mineraria promuovendo e introducendo innovazioni di largo respiro, creando benessere e un’apertura culturale lungimirante che vede i figli dei minatori frequentare le scuole e studiare. Le miniere sono luoghi privilegiati per l’aggregazione sociale, le idee di giustizia e solidarietà che vi veicolano, la collaborazione, la paga sicura, la consapevolezza di appartenere ad una categoria che ha dell’eroico: essere minatore. Un tempo era uso in Sardegna asserire, per una figlia che sposava un minatore, “minadori, dotori” come per dire che la vita era assicurata per via di quella paga sicura anche se la persona era esposta ai rischi e alle malattie.
La miniera ha portato beneficio e progresso, è un esempio di quanto la collaborazione fra tecnici, operai specializzati e dirigenti abbia portato alla ribalta nazionale ed europea importanti invenzioni create in loco che hanno rivoluzionato il lavoro in sottosuolo come il trenino veloce, l’autopala, la pala meccanica che portano il nome “Montevecchio”. Queste hanno ridotto la fatica disumana dell’operaio, permesso un notevole aumento di produzione, diminuito gli incidenti. L’inventore, Letterio Freni sostenuto dalla sua equipe e l’Atlas Kopco, l’azienda svedese che le ha brevettate, hanno dato un notevole contributo al progresso tecnico e umano. E la società si occupa di offrire ai suoi dipendenti una vita dignitosa con attività ludiche e ricreative come la proiezione di film, rappresentazioni teatrali, musicali, gite e feste nel dopolavoro. Organizza anche una squadra di calcio, di ciclismo, di pallacanestro, di tennis. Nel 1956 inaugura, per i figli dei minatori, una colonia nella meravigliosa baia di Funtanazza, nella costa sud-occidentale sarda a 18 km da Montevecchio, con la motivazione data dall’allora amministratore delegato, l’ingegner Giovanni Rolandi “…sono profondamente persuaso che gli industriali minerari devono dare un contributo concreto alla salute delle nuove generazioni …” . Un atto di gratitudine verso quelle migliaia di minatori che hanno lavorato nel buio e nell’umido delle gallerie perdendo la salute.
Il declino e la chiusura
I cambiamenti di gestione della miniera di Montevecchio l’hanno portata al declino, fino alla chiusura avvenuta ufficialmente, per accordi sindacali, il 18 maggio del 1991.
Così scrive l’ingegner Marzocchi nel suo libro: “Cronistoria della miniera di Montevecchio”. “ Si era chiusa un’avventura magnifica, esaltante, luminosa come poche altre. Iniziata nel lontano 1848 e documentata ininterrottamente per 144 anni. era stata una fine triste e malinconica, che aveva lasciato l’amaro in bocca a tutti quelli che l’avevano vissuta e a tutti quelli che quella miniera avevano conosciuto e amato. La miniera di Montevecchio, che è stata forse la più grande e ricca realtà mineraria italiana non esiste più, ma restano il ricordo e l’amore che tanti ancora portano”.
Perché le donne e le bambine nelle miniere già dalla metà dell’800
La presenza delle donne e delle bambine nelle miniere sarde risale alla metà dell’ottocento. Un banchiere genovese, direttore della miniera di Monteponi, Antonio Nicolay, si rese conto che gli uomini addetti alla cernita del minerale estratto erano lenti, antieconomici e litigiosi ed ebbe una brillante e intelligente idea: sostituirli con le donne. Le aveva viste nei cortili delle case purgare cereali e legumi ed era rimasto impressionato dalla loro manualità, sveltezza, pazienza, attenzione nel portare avanti il lavoro senza togliere un bimbo dal seno o cullarlo cantando una nenia, assegnare dei compiti alle bambine, accudire ad una conversazione con le compagne, l’esempio lampante di quello che oggi viene definito con un termine inglese “multitasking”. Pensò che potevano fare benissimo la cernita del minerale e comunicò l’idea ai suoi collaboratori che avanzarono delle perplessità sulla promiscuità e sulla morale ma lui li sorprese. Aveva pensato anche a quello introducendo la preghiera e il timor di Dio. La posta era alta: più produzione, meno costi. Le donne costavano metà degli uomini e producevano sicuramente il doppio lavorando in armonia come era nella loro natura. Così le donne fanno l’ingresso in miniera, nell’industria, nel progresso. I piazzali di Monteponi, Montevecchio, Buggerru, Ingurtosu, Lula, Argentiera, Arenas, Monte Narba e altri ancora si riempiono di donne, adulte, giovani, bambine di dieci, undici anni per guadagnarsi il pane che mangiano.
Un lavoro duro, faticoso, di dieci-dodici ore, interrotto solo da un pasto frugale, sotto la sorveglianza di un caporale che ha il potere di punire per scarso rendimento, licenziare, importunare, comandare. Chilometri di strada a piedi, scalze, mal vestite sotto la pioggia battente e il caldo afoso dell’estate, ignoranti, analfabete, sottomesse per cultura millenaria. Ma le donne dei piazzali e delle laverie acquisteranno presto la consapevolezza di sé con i nuovi saperi, relazioni, linguaggi, responsabilità che le porteranno alla conquista dei loro diritti. Una forza che si rivelerà indispensabile per opporsi alle ingiustizie, ai pregiudizi, alle sconfitte che ritarderanno sì il percorso ma non lo fermeranno.
In miniera la loro presenza è stata pregnante e utile, la solidarietà le ha unite, il coraggio le ha rese audaci nell’intraprendere i primi passi verso l’indipendenza economica e sociale unendo il pubblico col privato armonizzandolo e migliorandolo.
Pioniere in tutti i sensi hanno spianato la strada che noi oggi percorriamo. Loro hanno lottato per una legge sulla tutela della maternità, abortivano per le fatiche, portavano avanti gravidanze difficili, partorivano e tornavano al lavoro per non perdere il posto. Sarà solo una legge del 1922 a sancire l’astensione dal lavoro all’ottavo mese e quella del 1934 il diritto alla conservazione del posto. Ne seguono altre sull’orario di lavoro, sull’adeguamento della paga, sul rispetto per la donna, non scritta dalla legge ma affermata da loro contro chi avanzava molestie. Le cernitrici di tutte le miniere sarde sono quelle che hanno dato vita e gambe al riscatto e all’emancipazione femminile.
Il tragico incidente del 1871 nella miniera di Montevecchio: una vicenda già vista altrove
Se n’era persa memoria per 120 anni. La riportò alla luce tra il 1963 e il 1984 Roberto Porrà, archivista della Soprintendenza Archivistica di Cagliari, che stava svolgendo una ricerca sugli incidenti in miniera. Trovò un tomo pieno di polvere, mai aperto: conteneva la storia di un incidente della miniera di Montevecchio, i nomi e gli atti di undici donne morte, tra cui nove bambine, in una baracca del cantiere di Azuni. La notizia mi rimbalzò come una palla infuocata. Le morte appartenevano al mio paese, Guspini, e a quello di Arbus. Un fatto che non avevo mai conosciuto, nonostante fossi un’appassionata studiosa della miniera, che amo, e in cui ho vissuto vent’anni della mia vita. Mi proposi di rimediare perché nessun nome doveva essere dimenticato, tutti dovevano sapere. La memoria di un popolo è la storia passata scritta sui libri e nel cuore di ciascuno per onorare chi ci ha preceduto per farne tesoro. Il mio libro “Donne e bambine nella Miniera di Montevecchio“ (Pezzini Editore, ndr) è il mio “grazie” a quelle undici eroine dei tempi passati che ancora ci interpellano e ci stimolano a reagire là dove si perpetuano ingiustizie sulla pelle delle donne e delle bambine.
“Verso le 6,30 sera del 4 corrente maggio 1871 all’opificio di Azuni, miniera di Montevecchio, Guspini, circa 30 donne e fanciulle lasciato il quotidiano lavoro ritornano al proprio dormitorio. Soprastante a questo fu di recente formato un serbatoio d 80 metri cubi d’acqua per la vicina laveria. Non appena entrate le donne il muro laterale del serbatoio fu rotto dalla mole dell’acqua e rovesciò sul prossimo muro del dormitorio, facendolo cadere dalla parte interna, causa pure immediata del precipitar del tetto sulle misere femmine che in numero di undici vi trovarono la morte istantanea…” Ecco i loro nomi e la loro età: Armas Antioca, anni 32; Gentila Rosa, “ 15; Murtas Luigia, 27; Vacca Luigia, 15; Vacca Rosa, 50; Melis Anna, 11; Aru Elena, 10; Azeni Anna, 12; Pusceddu Caterina, 10; Peddis Anna, 14; Pusceddu Anna, 14. “Dalla perizia giudiziale non risultano colpevoli e alle vittime fu data conveniente sepoltura.”
Poesia
E mi piace leggere i nomi di quelle donne, in ogni incontro che faccio nelle scuole, nei convegni, nel piazzale di Azuni davanti a gruppi di turisti che in religioso silenzio ascoltano la storia commuovendosi.
L’associazione Elafos ha piantato un albero per ciascuna donna e un cartello ne riporta i nomi perché gli escursionisti si fermino a ricordare. Il Cammino di Santa Barbara, ideato da Gianpiero Pinna, appassionato geologo e amante della storia mineraria, ne propone la visita, per ripercorrere i sentieri della memoria e dei sentimenti.
La società turistica “Lugori” si prodiga, durante le visite guidate, di illustrare i monumenti e raccontare le storie che hanno fatto grande Montevecchio.
I comuni di Guspini e Arbus in unità d’intenti si prodigano perché istituzioni, associazioni, cooperative turistiche si prendano cura di un patrimonio unico e irripetibile e lo trasformino in risorsa culturale ed economica per un futuro migliore.
NOTE
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(*) Iride Peis è nata a Guspini, dove attualmente risiede, e ha esercitato per 35 la professione di insegnante elementar. Ha sposato il medico della miniera di Montevecchio e ha vissuto e insegnato anche nel villaggio minerario, sul quale ha maturato una profonda conoscenza del duro lavoro del sottosuolo, amando profondamente la sua gente. E’ testimone di quella realtà attraverso i suoi libri ed è impegnata a far conoscere, valorizzare e a non fare dimenticare la storia della miniera che ha prodotto sì ricchezza e progresso, ma, soprattutto, infinite storie di donne, uomini e bambini che vi hanno lavorato.