Il concetto di concorrenza è stato oggetto nei secoli delle più ampie controversie in sede scolastica e ha prodotto sul piano normativo tutto un susseguirsi di provvedimenti legislativi, in particolare negli Stati Uniti d’America (Shermann Act e successivi) diretti a limitarne la portata, la cui efficacia tuttavia lascia perplessi. Per tale ragione, fatta salva l’esperienza comunitario-europea, che soprattutto attraverso le sentenze della Corte di Giustizia, emesse in materia di attività dei concessionari, ha incominciato la sua opera di limitazione e di controllo, riterrei opportuno dare un cenno sul significato del termine in economia politica, parlando anche dei limiti alla concorrenza nella esperienza e nella sistematica giuridica italiana. La concorrenza è quella forma di mercato caratterizzata dalla presenza di una moltitudine di operatori, nessuno dei quali è in grado di influire con le proprie decisioni sull’andamento delle contrattazioni. Inoltre, affinché vi sia vera concorrenza devono sussistere altri requisiti quali: libertà di ingresso, omogeneità del prodotto, perfetta informazione, simultaneità delle contrattazioni. Le implicazioni di ciascuno di tali requisiti (non facili da riscontrare in pratica) possono essere interpretate come segue: a) Pluralità degli operatori: vi è una moltitudine di compratori e di venditori, ognuno dei quali si comporta come se il prezzo di mercato fosse un dato esterno, indipendente dalle sue decisioni. Per es., il singolo consumatore che decide di sospendere l’acquisto di patate per la famiglia o, viceversa, di aumentare la quantità acquistata per costituire una provvista, non produce di fatto alcuna modificazione nel prezzo di mercato o, per lo meno, non ritiene di poterla produrre. b) Libertà di ingresso: consumatori e produttori devono essere liberi di accedere alle contrattazioni, se ciò conviene loro. La libertà d’ingresso viene meno se, per es., la produzione avviene in regime di brevetto per cui i nuovi produttori devono procurarsi licenze o concessioni dai produttori già presenti nel mercato. Se manca la libertà d’ingresso, pur sussistendo gli altri requisiti della concorrenza, si parla talvolta di concorrenza imperfetta. c) Omogeneità del prodotto: il prodotto venduto deve essere rigorosamente omogeneo; se vi sono differenze di qualità, si parla di concorrenza monopolitistica. d) Perfetta informazione: tutti gli operatori devono essere informati dei prezzi che si formano nelle contrattazioni, in modo da poter acquistare o vendere alle condizioni più convenienti; solo così si può giungere alla formazione di un prezzo unico per tutte le unità vendute. Questo requisito è anche detto trasparenza del mercato. e) Simultaneità delle contrattazioni: occorre che gli scambi si effettuino simultaneamente dopo una fase di trattative, che servono agli operatori per conoscere le condizioni del mercato e regolarsi in conseguenza. La fase delle trattative può svolgersi attraverso sondaggi individuali non impegnativi (la contrattazione e rincontrattazione di F.Y. Edgeworth) o attraverso un organo centrale che renda note a tutti le richieste di acquisto e le offerte di vendita (il banditore di L. Walras). Se gli scambi avvengono subito, prima che siano concluse tutte le trattative, invece di un prezzo unico possono formarsi prezzi successivi diversi e il risultato finale può divergere sensibilmente da quello che si sarebbe avuto altrimenti (per es., in borsa, mercato per alcuni aspetti concorrenziale, manca la separazione fra trattative e scambi, per cui, durante le contrattazioni, si formano numerosi prezzi successivi e diversi). Solo scambi simultanei, preceduti da contrattazioni adeguate, assicurano che tutte le unità della stessa merce siano vendute allo stesso prezzo (legge di indifferenza del prezzo di W.S. Jevons). Nella concorrenza perfetta ogni operatore, ritenendo di non poter influire sulla formazione del prezzo, considera il prezzo come un dato e su esso regola il proprio comportamento. Se si tratta di un compratore, presumibilmente deciderà di comprare quantità maggiore se il prezzo è basso, minori se è alto (legge della domanda). Se si tratta di venditore, presumibilmente deciderà di accrescere la quantità venduta al crescere del prezzo (legge dell’offerta). Si dice che il mercato raggiunga una posizione di equilibrio (equilibrio economico) quando le contrattazioni individuano un prezzo tale da suscitare quantità domandate e offerte eguali; a questo prezzo, infatti, la fase delle trattative si può chiudere, gli scambi possono avere luogo, e tutti coloro che a quel prezzo intendono vendere trovano un acquirente, così come tutti colore che a quel prezzo intendono comprare trovano un fornitore. Il prezzo che realizza queste condizioni viene detto prezzo di equilibrio. Il prezzo di equilibrio possiede le seguenti caratteristiche: a) Unicità: il prezzo deve essere unico, nel senso che tutte le unità della stessa merce devono essere vendute al medesimo prezzo. b) Esistenza: non è detto che per tutti i mercati possibili esista un prezzo di equilibrio economicamente significativo o valore normale o congruo. Può accadere, per es., che alcune merci presentino utilità così scarsa che il consumatore le accetterebbe soltanto se fossero distribuite gratuitamente, cosa questa impossibile, perché i costi di produzione non verrebbero coperti. Oppure può accadere che una merce sia talmente costosa che, venduta a un prezzo sufficiente a coprire i costi, non troverebbe acquirenti. Si dice allora che un prezzo di equilibrio non esiste. E’ chiaro che, in questi casi, la merce in questione non viene nemmeno prodotta (per es., non si producono, al giorno d’oggi, carrozze d’oro). Ciò significa che il meccanismo del mercato svolge non solo la funzione di determinare quanto di ogni merce debba essere prodotto e a che prezzo, ma anche quella di stabilire quali merci vadano prodotte e quali escluse dalla produzione. c) Stabilità: il prezzo di equilibrio è stabile se è raggiunto attraverso il meccanismo spontaneo delle contrattazioni; instabile, se le contrattazioni non consentono di individuare il prezzo di equilibrio. Un caso tipico di instabilità si verifica quando i produttori non riescono a regolare velocemente l’offerta, perché il processo produttivo richiede tempo (per es., per accrescere l’offerta di prodotti agricoli, occorre almeno una annata agraria): la merce che compare sul mercato non è quella che i produttori vorrebbero offrire oggi, ma quella che avevano deciso di offrire quando il processo produttivo venne avviato. In questi casi può accadere che la posizione di equilibrio non venga raggiunta mai e il prezzo oscilli senza tregua (teorema della ragnatela), a prescindere dagli effetti delle contrattazioni sulle borse merci. La teoria neoclassica attribuisce grande rilevanza alla posizione di equilibrio di concorrenza perfetta, perché ritiene che in essa il mercato realizzi un assetto economico caratterizzato da efficienza e da equità. L’utilizzazione delle risorse viene considerata efficiente in senso tecnico, se è esente da sprechi (cioè da impiego di risorse senza alcun risultato produttivo); l’uso delle risorse sarà efficiente in senso economico se conduce a produrre quei beni che, tenuto conto del costo, sono i più desiderati dai consumatori. Nella posizione di equilibrio di concorrenza perfetta, il prezzo di ogni merce deve essere uguale al costo minimo di produzione; se così non fosse (se cioè il prezzo di vendita fosse superiore al costo minimo), vi sarebbero imprenditori, già presenti o potenziali, che realizzerebbero un profitto; ma la presenza di un profitto attirerebbe altri produttori e il loro ingresso farebbe cadere il prezzo, fino a riportarlo al livello del costo, al netto dei sostegni statali oggetto ancora del confronto di Doha. La concorrenza elimina quindi le imprese inefficienti e assicura che le risorse produttive vengano impiegate senza sprechi. D’altro canto, il prezzo di equilibrio deve essere corrispondente all’utilità che il prodotto presenta per il consumatore: se il prodotto costasse troppo in relazione alla soddisfazione che arreca, nessuno lo acquisterebbe; ma se costasse troppo poco, tutti vorrebbero acquistarlo, e ciò provocherebbe un aumento del prezzo, fino a ristabilire la corrispondenza fra prezzo e utilità. Se il prezzo corrisponde contemporaneamente sia al costo sia all’utilità dei prodotti, il mercato assicura che vengano prodotte soltanto quelle merci che danno una soddisfazione tale da compensare i costi sostenuti per produrle e quindi assicura una utilizzazione delle risorse efficiente anche in senso economico. Per quanto concerne il problema dell’equità, si osservi che la concorrenza elimina i sovrapprofitti e riduce il prezzo al livello del costo di produzione minimo, anche l’imprenditore riceverà come retribuzione il puro compenso del suo lavoro direttivo. La concorrenza elimina quindi i redditi non guadagnati, il che è un primo potente fattore di giustizia sociale. Ma nel caso della rendita fondiaria ciò non può avvenire, perché la scarsità naturale della terra impedisce alla concorrenza di esplicare i suoi effetti. Una volta stabilito che in un mercato di concorrenza perfetta esistono soltanto redditi da lavoro, resta da stabilire se il livello di tali redditi riflette un criterio di equità. Il ragionamento di cui si avvalgono i sostenitori dell’economia di mercato è il seguente: ogni impresa corrisponde a ogni singolo lavoratore una retribuzione che è commisurata al contributo che il lavoratore stesso ha dato alla produzione; non può dargli una paga superiore, perché affronterebbe una perdita; non può dargli una paga inferiore perché, se lo facesse, guadagnerebbe su quel lavoratore un sovrapprofitto e altre imprese, attratte dal guadagno, offrirebbero a quel lavoratore una occupazione alternativa a salario più alto. Il mercato di concorrenza perfetta paga quindi ognuno secondo il contributo dato alla produzione, salvo gli effetti del dumping sociale ancora correnti sullo scenario mondiale, cui la teoria della Responsabilità sociale delle imprese, tende a dare una possibile risposta. L’interpretazione marxiana si collocava in una prospettiva radicalmente diversa. La teoria marxiana partiva dal presupposto che la concorrenza perfetta non impedisca al capitalista di attuare uno sfruttamento ai danni del lavoratore; con ciò, il carattere di equità che la teoria borghese riconosce al mercato di concorrenza viene negato. Nella visione marxiana, la concorrenza si differenziava dalle altre forme di mercato soprattutto per i rapporti interni che stabilisce fra singoli capitalisti. In concorrenza perfetta il potere di mercato è distribuito equamente fra capitalisti, mentre nelle forme monopolistiche il potere è concentrato nelle mani di pochi. Questa differenza veniva considerata molto rilevante per lo sviluppo del sistema capitalistico, ma non era sufficiente a conferire alla concorrenza perfetta un carattere diverso per quanto riguardava la sostanza dei rapporti fra capitalisti e classe lavoratrice.