Da sempre se ne parla, siamo tutti cresciuti sentendo dire che molte delle difficoltà di comunicazione tra una generazione e l’altra era sostanzialmente dovuta al naturale gap fra le  generazioni. Quello che, forse, finora non tutti hanno capito bene è che oggi non si dovrebbe parlare di gap generazionale, ma di vero e proprio stacco, nel senso che non è possibile neppure relazionarsi gli uni agli altri.

Mi spiego meglio. La mia generazione, è cresciuta con un solo telefono in casa per tutta la famiglia e al massimo, con il passare del tempo, apparsero i telefoni pubblici, a gettoni, in cabina o in altri luoghi come bar, ristoranti, ecc. Per molti anni cambiava il modello dell’apparecchio, il colore da nero è passato al grigio e ai colori forti, ma concettualmente era sempre uguale.

 

Le nuove generazioni conoscono praticamente solo i telefoni cellulare, individuali/personali, che servono a fare anche una quantità enorme di altre cose, da giocare quando sono molto piccoli, a guardare video, film, sentire la musica, mandare e ricevere messaggi vocali o video messaggi, fare transazioni e pagamenti online, gestire il calendario, ecc.

Questo ha modificato sostanzialmente il comportamento dell’individuo e della famiglia nell’ambito sociale. Se nel passato apparentemente il controllo che si esercitava dentro della famiglia era molto severo (basti pensare che non esistendo un modo di comunicare immediato e istantaneo come il cellulare personale), ogni individuo godeva in realtà di spazi di libertà – per così dire –  che erano molto più lunghi durante le giornate. Il padre usciva di casa normalmente per andare al lavoro e una volta salutata la moglie ed i bambini spariva, per così dire, per tutto il giorno fino al suo ritorno a casa la sera. Quello che succedeva durante la giornata si raccontava a cena. Non era neanche ben visto, che la moglie telefonasse sul luogo di lavoro, a meno che non ci fosse un’emergenza, e molti mariti aumentavano il divieto di essere chiamati, proprio per godersi la loro libertà. Contemporaneamente, la moglie aveva dei suoi spazi che poteva gestire a piacimento. Secondo l’età dei figli, e se avesse un’attività o meno indipendente, fuori dall’ambiente casalingo, anche lei aveva gran parte della giornata nella quale poteva disporre del tempo senza dare spiegazioni a nessuno.

Molte delle telefonate – inutili – che si fanno oggi, almeno da quanto si sente dai compagni di viaggio di treni, aerei, autobus, e durante le pause lavorative, sono prive di contenuto. Il tipico script è: “come stai? che fai? dove sei? a che ora torni?”, conversazione per la quale basterebbe un breve messaggio, ma chi sa perché ormai, tutti facciamo queste telefonate rituali, che di comunicazione vera e propria hanno molto poco. E quasi come avere la necessità di sentire il respiro dell’altro attraverso il telefono per andare avanti ed essere rassicurati.

Tutta questa banalità ha modificato totalmente il comportamento sociale dell’individuo. Da una parte ha rafforzato il concetto d’invidualità, visto che ognuno ha il suo cellulare e chi ne ha tre o quattro con scopi diversi, ma ha anche tolto un po’ il senso collettivo della famiglia o di gruppo di persone che abitano insieme. Visto che si può “comunicare” sempre e comunque si sente meno la mancanza di passare del tempo insieme, di condividere delle attività quotidiane, come fare colazione o pranzo o cena insieme, o passare la domenica al parco. Abbiamo tutti sempre la scusa pronta: “dopo ti chiamo e ci aggiorniamo, va bene?” oppure, “ci vediamo più tardi, ok?”.

Tutti questi comportamenti sociali ha modificato le persone, e ci troviamo con degli adolescenti cresciuti praticamente da soli, accompagnati di più dai video, dalla televisione, che dai genitori o da altri familiari. Molte volte non hanno il criterio per scegliere il giusto, perché nessuno li guida veramente per fare capire loro che la vita non è tutta facile, che le cose te le devi guadagnare, che vincere alla lotteria non può capitare a tutti, e che se il tuo professore di letteratura guadagna meno dell’idraulico non vuol dire che è un perdente.
Diciamo anche che i valori sociali sono fortemente cambiati: non solo è caduto il muro di Berlino, ma non ci sono più le ideologie che hanno guidato la nostra adolescenza. Destra e sinistra non significa più la stessa cosa, direi che per un ragazzo di 18 anni di oggi, non significa nulla.

Per certi aspetti sono più pragmatici e concreti, perché sembra che tutta la loro vita sia una corsa: sono sempre in ritardo per qualcosa, per la scuola, per la laurea, per la specializzazione, devono correre per essere competitivi a livello internazionale, provano a parlare le lingue, non sempre riuscendo bene, ma sanno che devono come minimo parlare inglese. Questa condizione di “precariato permanente”, insieme al dovere di inventarsi un futuro, sapendo dei cambiamenti politici socioeconomico mondiali (se sono intelligenti!), non lascia tanto spazio ad “altro”.

In questo “altro”, forse, sta la differenza con la nostra generazione. Noi avevamo la vita piena di “altro”. C’erano i primi fidanzati, la scoperta dell’impegno politico, dell’impegno sociale, l’appartenere a gruppi di tipo diverso (si poteva trattare di musica, arte, o semplicemente “cazzeggio” (per usare un termine giovanilista!). I giovani definiti “seri” hanno sempre meno tempo per il cazzeggio, che invece è fondamentale per crescere, per condividere socialmente, per rilassarsi, per divertirsi, per vivere!!!

Le nostre ragazze diventano mamme già quarantenni, prima non se lo possono permettere, devono pensare prima all’università, alla carriera, a trovarsi un lavoro, e se non c’è un “posto” di lavoro, oggi più che mai è necessario “inventarsi” un lavoro. I figli, i “marmocchi”, sono visti come un impedimento. La mia generazione faceva di tutto, portando con sè il bambino, lasciandolo qualche volta con qualcuno, per qualche ora, non avevamo tutte le paure di queste generazioni. Gli attentati terroristici, i colpi militari sono arrivati poco più tardi, i bambini di 8/9 anni andavano da soli a scuola se questa era nel quartiere, non c’era l’obbligo che qualcuno andasse a prenderli a scuola.

Oggi, pensandoci bene, è tutto molto più complicato, più difficile, perché si parte dalla base che una serie di cose non puoi permetterti di farle, e in particolare, la più importante: fidarti dall’altro. Per questo ho usato il titolo “Il salto del canguro”, perché mi sembra che parlare del famoso gap generazionale sia troppo poco, non basta più a dare l’idea di quanto sia tutto cambiato e di quanto possano essere diversi il modo di guardare, imparare, mettere in pratica le cose dei più giovani. A livello tecnologico hanno una facilità enorme rispetto a noi, ma la mia preoccupazione è più che altro per il livello di fragilità emotiva. Perché per tutte le ragioni che ho enumerato in precedenza non hanno un tempo tutto loro per sperimentare, capire, sbagliare e crescere più consapevolmente. Li vedo più come atleti di salto in alto che imparano a superare l’ostacolo non affrontandolo di petto, ma qualche volta – troppo spesso – semplicemente eliminando l’ostacolo, senza capire come superarlo. Certo, vanno avanti, ma lasciano feriti intorno a loro e si feriscono loro stessi.