Imparare dall’esperienza ed evolvere in armonia con gli altri e con l’ambiente.

Ci sono momenti nei quali la lettura di un libro, in particolare, è perfetta, folgorante.
Sicuramente è casuale, o possiamo anche avere la fortuna di avere un amico/a che ci conosce bene e che guardandoci di sottecchi ci passa un libro invece di un altro. Quando questo capita, si vive un momento di felicità! Almeno per me è così. Ho cominciato a leggere tardi, molto tardi, e ancora non ho letto la metà delle cose che vorrei, ma questo è parte di un’altra storia.

Ora voglio parlare di un libro che ho letto solamente nel 2018, che mi è piaciuto molto e che spesso in questi giorni ricordo. Si tratta di “E venne chiamata due cuori” di Marlo Morgan.  E’ un romanzo autobiografico in cui l’autrice racconta la sua esperienza di viaggio attraverso il deserto australiano, dopo aver vissuto con gli aborigeni australiani. Il libro è del 1990 e ci sono state delle controversie sulla veridicità dei fatti raccontati dall’autrice.

A me è rimasta dentro soprattutto la sensazione di fattibilità di una comunità di essere umani che vive in contatto leale, paritario, sia tra loro stessi sia tra loro e l’ambiente nel quale abitano, con un fortissimo rispetto non solo per le creature viventi, animali o umani, ma anche per la terra, per quello che dovremo lasciare e per quello che verrà.  

Ci sono alcuni fatti che veri o di fantasia, mi trovano molto d’accordo. Nella tribù, le persone cambiavano nome una volta che avevano imparato un nuovo mestiere o destrezza, manualità, a fare qualcosa che fosse utile. E la spiegazione era tanto semplice: mano a mano che la vita si evolve anche noi evolviamo e impariamo o scopriamo diverse attitudini, facilità per fare certe cose piuttosto che altre. E quando questo accadeva veniva riconosciuto da tutta la tribù, e la persona cambiava nome, le veniva attribuito un nome diverso. In più, questa sua nuova attività, per così chiamarla, era un’attività utile alla comunità, dove ognuno di loro dava un proprio apporto. Quando si vive in contatto diretto con la natura tutto è importante e tutto è necessario per la sopravvivenza tua e degli altri e credo sia per questo che non c’è la gara per capire chi è il più forte, o chi fa qualcosa meglio degli altri, insomma, non esiste la competizione perché si è complementari gli uni agli altri.

Realisticamente, una situazione totalmente impossibile da realizzare nel nostro habitat. Tutto è diventato molto difficile e sembra che socialmente i comportamenti delle persone siano sempre più fuori limite.

Per introdurre il concetto di limite possiamo iniziare considerando il significato etimologico, in quanto è interessante notare che deriva da due differenti sostantivi latini, ossia limes, limitis e limen, liminis. Il primo assume un’accezione negativa di confine, che costituisce per l’uomo una barriera invalicabile e che, dunque, lo segrega in uno stato di prigionia; al contrario, il secondo ha il valore di soglia, ed è per l’uomo passaggio, apertura verso nuovi orizzonti.

Cos’è dunque il limite? Un confine che limita o una soglia che apre?

Cosa intendo? Semplicemente che nel recente passato, c’erano dei limiti che venivano imposti da quella che veniva definita “buona educazione”, dunque si iniziava fin da piccoli a pensare che non si è soli al mondo e non ci si muove in un ambiente nel quale si è unici, ma con la consapevolezza che quello che si fa si è liberi di farlo fino a che non si disturba, non si da fastidio, o si è inopportuni verso gli altri con i quali si deve convivere.

Oggi, invece, in autobus, in treno, in qualsiasi posto ci si trovi, si sentono conversazioni fatte ad alta o altissima voce (incuranti della tranquillità degli altri), da persone si fanno trasportare talmente che non si rendono conto o, peggio ancora, non se ne curano, che chiunque stia vicino senta quello che dicono. Il vocabolario non è dei migliori – e anzi molto limitato – e le volgarità sono ormai usate abitualmente per intercalare ogni discorso, usate quasi costantemente come una specie di aiuto per farsi capire meglio. Le parolacce, esistono in tutte le lingue, e possiamo anche dire che certe volte sono proprio necessarie, per poter esprimere veramente nella sua totalità un concetto, la rabbia, l’ira, il disprezzo, per qualche fatto. Ma se usate così a caso, come se niente fosse, perdono anche di significato… il detto “Quanno ce vo, ce vo!”, come la maggior parte dei detti popolari, ha una sua verità.

Il rispetto per l’altro, dunque, inizia dalle piccole e piccolissime cose, dal non imporre mai la nostra presenza dove non siamo chiamati, da non chiedere mai quello che per pudore o per riservatezza non ci è stato detto, inizia da far sentire l’altro a suo agio in nostra presenza, sempre e comunque, nel non creare mai imbarazzo. Le relazioni si costruiscono  proprio sul rispetto dell’altro e soprattutto vanno differenziati i rapporti che abbiamo con gli altri.

Al giorni di oggi, chi sa perché, la gente confonde le diverse modalità di rapportarsi.
Se si lavora in una realtà dove per forza di cose devi avere un rapporto quotidiano per lavoro, non vuol dire che si è amici… gli amici sono un’altra cosa! In questo caso è inutile bombardare di domande il/la nuovo arrivato, volendo avere subito la maggior parte delle informazioni. Il malcapitato/a può essere timido, o riservato, o magari sta vivendo un brutto momento, o per mille ragioni vuole solo essere lasciato in pace. Cerchiamo di essere cortese e gentili, quello sì, ma senza invadere la privacy dell’altro.
 
Eccoci, questo è il problema principale. Oramai siamo così abituati al fatto che la maggior parte delle persone racconta i fatti propri sui social network, qualunque esso sia, che ci sembra che dal vivo e in diretta possiamo più che mai farlo. Ma non è così!

Dal mio punto di vista i social sono utili, anche divertenti, ma la vita reale esiste, è altro, e appartiene solo all’individuo, che la vive a modo suo.

Come tante persone, anche mie coetanee, faccio parte di diverse comunità, gruppi sociali, partendo dalla famiglia naturalmente, e anche se non è sempre facile ho cercato di portare l’armonia e la serenità, di essere molto flessibile, aperta, di ascoltare quello che gli altri hanno da dire, insomma di convivere in forma educata, viva, anche con entusiasmo e allegria, confrontandomi onestamente con gli altri, dando e ricevendo come capita a tutti, perché bisogna anche essere capaci di ricevere, di chiedere, avere l’umiltà e la riconoscenza di farlo.

Mi piacerebbe tanto che molti altri la pensassero come me, un’utopia?

Può essere, è una parola che nel mio vocabolario viene usata spesso, ma questo è il mio piccolo seme per un mondo migliore.