Tutto e cominciato Sabato 29 febbraio alle ore 18, allorquando il suono, ancora insolito, di un’ambulanza si è spento davanti al mio portone.
Avvenimenti di questo tipo attirano il vicolo tutto: teste fuoriescono da finestre e balconi come suricati in allarme. I “cazzimbocchi” stradali accolgono le suole dei più curiosi o di chi non possiede né finestre né balconi ma solo porte. Immediatamente la voce tracima informando che “l’avvocato è appena tornato da Milano pieno di virus”. La mia ipocondria viene presa d’assalto assestandomi un improvviso quanto feroce attacco di panico. Mi vedo coperta di piccole e graziose inflorescenze rossastre e mi ritrovo ad urlare il mio terrore attraverso la cornetta del telefono a muro. Mia sorella inconsapevole del mio stato sta cercando di sdrammatizzare con sagge riflessioni che suonano irritanti e completamente inopportune.
Ma che suonano come una dolce melodia di indifferenza e incredulità all’orecchio di chi vede la cosa come una nuova influenza stagionale.
Ovviamente la saggezza elargita è nemica della crisi di panico che vuole irrazionalità o silenzio: solo chi non l’ha mai provata può credere di placarla con il buonsenso.
Convinta ormai di essere stata contagiata in qualche luogo e in qualche tempo dal mio vicino avvocato virale ho sbarrato la porta di casa; ho raccolto intorno a me termometri, sciroppi per la tosse, colliri, spray per la gola, compresse di tachipirina; ho elencato in un quadernetto nero, raccolto anni addietro in un mercatino di modernariato a Piazza Dante, il contenuto di freezer e frigo, di credenza e dispensa ed ho iniziato la mia quarantena.
Incontri mattinieri sul terrazzo con la mia vicina di giardino, con caffè e notiziario ufficiale sull’andamento dei contagi. Autocertificazionimascherinedisinfettantiguantiocchiali : uscire è come viaggiare verso Marte.
Spesa, banche, bollette. La Quarantena non risolve automaticamente le rogne…le amplifica.
Irrompe nella mia vita, vissuta fin ad allora nel convinto e segreto odio verso i cellulari di ultima generazione, l’orrore nei confronti di stretti video verticali pubblicati da chi, credendo di alleviare la noia e la paura propria e altrui, frantuma le palle in televisione assiduamente, assieme a ridenti giornalisti impietriti e ad argomentazioni scomposte e incomprensibili di scienziati annoiati. Balbettii pieni di consonanti e cattive notizie.
Tutti a lavorare al computer, col telefonino sempre in mano e negli occhi.
Messa la mascherina la prima volta ho affrontato la strada nella nebbia dei miei occhiali appannati, rinunciando alla spesa per non venir arrotata da qualche rara ma imperversante vettura.
Poi finalmente qualcuno ha cominciato a cantare al balcone, poi molti hanno cantato come forzati al lavoro nei campi e lungo le rotaie. Questo mi ha pacificato insieme all’apparizione di due angeli sotto il mio balcone. Un miracolo in Paradiso (inteso come Vico). Due ragazzi argentini suonano pezzi standard di jazz con il sassofono e la tromba. Sono bellissimi, sono “angelicati”.
Un pomeriggio mentre riposo in camera da letto percepisco un suono noto, familiare. Lo canticchio affacciandomi al balcone. Li vedo, li guardo, li ascolto, li applaudo, li chiamo…lancio loro 5 euro e un lungo bacio con una mano sul cuore.
Un miracolo che straccia la solitudine con violenza, provocandomi ricordi e singhiozzi inarrestabili.
È saltata alla vista la serietà della mia situazione. La mia solitudine vive di piccole ma significative attenzioni e sodalizi: vicini e bottegai che conosco da quasi quarant’anni. Rivenditori con i quali trattengo oziose amicizie, racconti, ascolti, risate. Commenti a caldo su aspetti della politica e del comune pensare, come in un qualsiasi bar di paese.
Ora non ci parliamo più. Siamo tutti zombi con mascherine, guanti, occhiali e cappucci. Ciascuno chiuso dentro un perimetro strettissimo lontano da tutto, senza prossimo, senza voce.
Attenti che le distanze siano rispettate e che a noi spetti quella giusta.
Niente più sorrisi, non tanto abbracci che chi mai se li è scambiati per strada, né occhi felici per l’incontro, o il piacere di un caffè insieme seduti al bar a raccontare i malanni in corso, i matrimoni, i funerali.
Cose che permettevano ad una solitaria come me di riconoscersi in una comunità.
Quindi una vita solitaria per attitudine e volontà si è trasferita necessariamente in una sorta di leva militare, con tanto di maschera antigas e divisa antisommossa.
Per non citare della bieca retorica della Famiglia Finalmente Riunita…con bimbi felici in casa e madri felici in cucina. Tutti poi fottuti di fatica e stramazzati di noia nel vedersela con le lezioni a distanza.
Gli unici privilegiati una volta tanto sono stati i cani.
Altro privilegio la lettura di cui non si era mai tanto parlato. La scrittura altrui è per me strumento di studio e di esercitazione. Ma soprattutto godimento, la lettura perfetta, la candida perla.
Ho sperimentato anche la disperazione della noia dispensata in tante pagine. Pessima esperienza in tempo di clausura.
E poi una sera, un mercoledì presago di nuovi elenchi di vittime e di sventure, una città, la mia città, la mia pazza città ha urlato di gioia. Ha traforato il cielo divenuto più chiaro, ha smosso gli alberi liberi da polveri e nebbie. Ha imitato il boato del tuono, scuotendo l’asse terrestre per un tempo imperfetto, insostenibile, complice, colpevole L’urlo è risuonato come un canto liberatorio: “Maledetti bastardi, siamo ancora vivi”
Ho sorriso dolcemente, pensando “Amo questa città, non potrei vivere altrove. Ha dentro di sé il cuore anarchico di un “munaciello” cialtrone e impertinente.